Nello scorso post avevamo chiacchierato dei Soundgarden, stavolta cambiamo decisamente direzione.
I Delirium furono tutto, ma proprio tutto, tranne che un gruppo di successo. Tutte le beghe della prima band di Ivano Fossati furono strettamente legati all’inusuale metodo di promozione dei loro lavori. Prima pubblicano un disco che non caga nessuno, anni dopo pubblicano singoli di successo, l’anno dopo ancora tirano fuori l’ennesimo disco senza seguito, e poi pubblicano singoli che ricalcano pari pari quelli vecchi e quindi non se li fila più nessuno. Beh, il loro destino si concluse nell’arco di ben tre album.
Chiaramente rivalutati e recentemente riorganizzati, i Delirium sono un pezzo di prog italiano ormai stra-conosciuto, ma come tutto il prog non vengono quasi mai contestualizzati in modo decente.
Prima di tutto sono figli dei ’60 e si sono presi il ’68 in faccia senza concedersi troppi spazi di riflessione. Un cultura musicale (e non soltanto) in pieno cambiamento, che sperimenta veramente di tutto comprendendo nel migliore dei casi il 30% di quello che facevano. Piano piano di artisti auto-consapevoli ne escono fuori e la loro lunga gavetta servirà per fondare gruppi che entreranno nella leggenda (Le Orme, Il Balletto Di Bronzo, la P.F.M. e moltissimi altri), i Delirium di gavetta non ne fanno tantissima dato che già ad un anno dalla loro nascita (conosciuti allora come I Sagittari) diventano famosi in tutta Italia vincendo concorsi qua e là.
Il 1971 seguiva ad un anno per la musica meno incasinato di quanto si pensi. Sebbene la rivoluzione in ambito concettuale portata prima da Beefheart con “Trout Mask Replica“ (1969) e in ambito artistico più ampio con “Desert Shore“ (1970) di Nico, il rock non seguirà di certo quella direzione, e il 1971 sfornerà capolavori come “3” dei Soft Machine e sarà figlio della tragicità di “The End Of The Game“, il disco che sancì l’uscita dai Fleetwood Mac di Peter Green. Il contesto musicale internazionale stava prendendo delle direzioni ben precise, in Italia invece si stava instaurando il regime del prog.
Nel 1971 esce “Dolce Acqua” sotto l’etichetta storica della Fonit Cetra (New Trolls, Osanna e Renzo Arbore tanto per citarne alcuni), però in questo disco d’esordio dei Delirium le premesse non sono delle migliori. La band propone sulla carta un miscuglio si può dire delirante di jazz, prog, rock e blues, un po’ di Jethro Tull, un po’ di King Crimson. E invece…
“Dolce Acqua” sorprende prima di tutto per la straordinaria eterogeneità dei pezzi. Come avrete capito se avete letto il mio post precedente, sono piuttosto fissato sul sound di un disco, sul rapporto tra una traccia e l’altra di un album e la sua riuscita in un ascolto completo. “Dolce Acqua” in questo senso è una delle cose migliori mai uscite in Italia.
L’idea, piuttosto ingenua in realtà, è quella tanto in voga del concept album. Se facevi prog dovevi fare almeno un concept album se no non eri nessuno. Ne sono uscite di schifezze mica male, ma per fortuna controbilanciate da capolavori inestimabili. “Dolce Acqua” ha una narrazione veramente debole che si rifà ad un retaggio spiritualista-naturalista che tirava parecchio tra i giovani sessantottini. Le tracce sono titolate in modo evocativo pseudo-intellettuale, il tutto contornato da una cover a metà tra un graffito e un dipinto che dovrebbe riassumere i contenuti del presunto concept album. Vi lascio trarre le vostre conclusioni da soli.
Si comincia più che bene:
Preludio (Paura), e notare subito l’uso di un linguaggio tipico della musica classica in un ambito che però fa un po’ a botte (altre band sapranno invece far tesoro dei loro studi, e doneranno un po’ di filologicità a queste scelte), è un inizio davvero di un certo spessore. Un pezzo tra il beat e il rock acustico, le sonorità del flauto sono tra le più evocative e belle di sempre, di meglio si trova qualcosa soltanto nel terzo e ultimo disco proprio dei Delirium, “III (Viaggi Negli Arcipelaghi Del Tempo)“. Inoltre è una delle poche vette evocative di tutto il disco.
Movimento I (Egoismo) e il Movimento II (Dubbio) sono due pezzi strumentali che già complicano inutilmente delle belle idee. Un viaggio psichedelico tra la tecnica pura, tra l’altro non così eccelsa, e misti fritti di generi diversi. La cosa più incredibile è che non ledono in alcun modo all’orecchio, personalmente mi piacciono parecchio anche se con i loro limiti. To Satchmo, Bird and Other Unforgettable Friends (Dolore) riconferma le impressioni precedenti, anche se il dialogo tra gli strumenti in questo caso mi pare più efficace.
Sequenza I e II (Ipocrisia – Verità) continua il trend, portandolo però alla noia. Chiara la decisione di fare della musica a tratti quasi descrittiva, la scelta di un concept vuole essere rispettata in qualche modo, però se mancano le idee è inutile buttar lì riempitivi.
Johnnie Sayre (II perdono) prende il testo da una delle più celebri poesie della antologia di Spoon River, peccato per la musica, alquanto piatta e anonima. Il sound è comunque più che piacevole, di certo non vi metterete a pestare i piedi per terra ascoltandolo, però la piacevolezza lascia presto spazio alla ripetitività.
Favola o storia del lago di Kriss (Libertà) è il mio pezzo preferito di tutto l’album. In realtà non ha nulla di speciale, ma credo sia prima di tutto uno specchio fedele degli intenti della band e del loro contesto storico e sociale. Il testo conferma senza ulteriori dubbi la matrice ambientalista: sotto forma di favola si presenta l’angoscia di questo lago che vorrebbe conoscere cosa c’è nel resto del mondo, finché non compare questa sorta di spirito, presentato come un vento animato, che gli spiega quanto esso sia invece fortunato ad essere così lontano dal degrado umano e dalle sue immonde costruzioni. Lasciando da parte il testo sentite come la melodia, il ritmo, la voce, si mescolano tutte assieme e trovano un loro perfetto equilibrio. In un momento morto del disco (siamo nel lato b), quando la testa divaga tra tutti quegli spunti lasciati a metà nelle “fughe” strumentali, ecco un raccordo perfetto tra di essi e la futura presa di coscienza della band.
Il gran finale spetta a Dolce Acqua (Speranza), un gran bel pezzo prog, tra i più belli in assoluto, commistione ideale di tutti i sound presenti nell’album.
Che dire di più? Un disco da avere assolutamente per comprendere un periodo storico davvero esaltante per la musica italiana.
- Pro: eterogeneità tra le tracce dell’album, alcuni brani sono tra i più rappresentativi del prog italiano.
- Contro: ogni tanto momenti di noia.
- Pezzo Consigliato: Favola o storia del lago di Kriss (Libertà), sintetizza temi, suoni, idee di un anno straordinario.
- Voto: 7/10