Perché Christina Pluhar e L’Arpeggiata? Essenzialmente perché leggendo questo bellissimo articolo stamani mi sono ricordato del disco, e riascoltandolo mi è presa voglia di parlarvene.
Per chi di voi non la conoscesse… beh, non sconvolgetevi, poiché l’artista in questione è una ripescatrice di classici perlopiù dell’epoca barocca, quindi potete immaginare che non è che abbia tutto questo mercato.
Comunque L’Arpeggiata fa Musica senza troppi scherzi. Le rivisitazioni più celebri sono quelle di Emilio de’ Cavalieri (Rappresentatione di Anima, et di Corpo, 2004) e di Stefano Landi, certamente semplificano alcuni aspetti della composizione, ma senza rinunciare ad una tecnica sopraffina e ad un suono pulito e affascinante, il tutto senza mai stravolgere le precise strutture barocche dei due maestri.
Recentemente l’ensemble si è dato a progetti importanti e di ottima fattura. Non posso non segnalarvi lavori come Via Crucis (del 2010, un percorso dolcissimo tra rarità altrimenti dimenticate, come una ninnananna napoletana e alcune perle di Monteverdi) oltretutto accompagnati da tre bravissimi coristi conosciuti come i Barbara Fortuna, dalla Corsica, i quali sebbene abbiano solo un paio album all’attivo vantano un’esperienza come singoli eccelsa.
Recenti anche gli ultimi due lavori su Monteverdi, Teatro D’amore (2009) e Vespro Della Beata Vergine (2011) meritano un plauso per la elegantissima interpretazione del celebre compositore italiano.
Comunque resta ancora oggi, almeno a mio modestissimo avviso, Homo fugit velut umbra… (2002) di Stefano Landi il loro capolavoro assoluto, con la fondamentale partecipazione di Marco Beasley, Johannette Zomer e Alain Buet.
Il disco è una raccolta di madrigali per cinque voci a basso continuo, di certo non un’opera ai livelli de Il Sant’Alessio (1632) sempre del compositore romano, ma è comunque un lavoro pregno di quella straordinaria malinconia e tensione verso la morte che caratterizza gran parte di quello che ci è pervenuto di Landi.
Landi fu un compositore piuttosto elastico per la sua epoca, aveva imparato molto dai grandi napoletani (vedi l’uso della canzone villanesca che lo contraddistinguerà) e sapeva leggere con una certa facilità i gusti del suo tempo (pastorali e madrigali a più non posso), non a caso fu tenuto di conto da tutti i mecenati romani più importanti del suo secolo.
Della raccolta offerta dalla francese Cristina Pluhar, Homo fugit umbra… (La vita dell’uomo fugge come un’ombra) il pezzo più rappresentativo dell’angoscia esistenziale di Landi è La Passacaglia della Vita. Una forma musicale che deriva direttamente da una delle miriadi di variazioni possibili dalla Ciaccona, su cui si sono dilettati almeno una volta più o meno tutti i compositori dalla seconda metà del seicento all’ottocento.
Di questa Passacaglia ci sono molte versioni, recentissima quella di Franco Battiato (Apriti Sesamo, 2012), un nome che certamente può riportare l’attenzione verso Landi e magari verso i lavori più filologici della Pluhar.
Nella versione proposta dalla Pluhar non solo l’abilità tecnica fa da padrona, ma la voce di Beasley è forse l’assoluta protagonista di questa melodia così struggente. Le note di Landi feriscono, il pizzicare delle corde così solenne trasforma la Passacaglia in una tarantella funesta mentre Beasley riesce a comunicarci (sebbene un registro secondo me piuttosto moderno) il profondo avvilimento del testo, qui di seguito lo ripropongo nella sua interezza:
O come t’inganni
se pensi che gl’anni
non hann’da finire,
bisogna morire.
E’ un sogno la vita
che par si gradita,
è breve il gioire,
bisogna morire.
Non val medicina,
non giova la China,
non si può guarire,
bisogna morire.
Non vaglion sberate,
minarie, bravate
che caglia l’ardire,
bisogna morire.
Dottrina che giova,
parola non trova
che plachi l’ardire,
bisogna morire.
Non si trova modo
di scoglier `sto nodo,
non vai il fuggire,
bisogna morire.
Commun’è il statuto,
non vale l’astuto
‘sto colpo schermire,
bisogna morire.
Si more cantando,
si more sonando
la Cetra, o Sampogna,
morire bisogna.
Si more danzando,
bevendo, mangiando;
con quella carogna
morire bisogna
La Morte crudele
a tutti è infedele,
ogni uno svergogna,
morire bisogna.
E’ pur ò pazzia
o gran frenesia,
par dirsi menzogna,
morire bisogna.
I Giovani, i Putti
e gl’Huomini tutti
s’hann’a incenerire,
bisogna morire.
I sani, gl’infermi,
i bravi, gl’inermi,
tutt’hann’a finire
bisogna morire.
E quando che meno
ti pensi, nel seno
ti vien a finire,
bisogna morire.
Se tu non vi pensi
hai persi li sensi,
sei morto e puoi dire:
bisogna morire…
Le tracce del disco si succedono tutte con facilità, la Pluhar con Beasley sono riusciti a modernizzare Landi senza sconvolgere la sua natura e, se vogliamo, il suo sound, un’interpretazione che sebbene si basi su strutture semplici ne esce in modo tutt’altro che scontato.
Ne A che più l’arco tendere si assiste ad un duetto eccelso, Sinfonia riassume i suoni e le impressioni del disco con un efficacia esaltante, T’amai gran tempo è un sali scendi di pregiata fattura, virtuosismo raffinato.
C’è poco altro da dire in realtà, il disco è davvero un’eccezione nel panorama musicale internazionale, il gusto estetico di Cristina Pluhar e le sue collaborazioni hanno prodotto e producono certamente alcune delle migliori rivisitazioni della musica barocca.
- Pro: la miglior interpretazione dei madrigali di Landi forse di sempre.
- Contro: non ci sono aspetti negativi, è tutto estremamente curato.
- Pezzo consigliato: ovviamente La Passacaglia della Vita.