The Black Keys – Rubber Factory

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Prima di recensire questo disco vanno fatte delle premesse:

  1. i Black Keys mi piacevano (assai), ma ora sono tra le peggiori band a giro (e vi spiegherò perché);
  2. tutto quello che hanno fatto i Black Keys lo avevano già fatto i Sonics e i Music Machine, tranne che per “Attack & Release” per cui va fatto un discorso diverso (e vi spiegherò anche questo);
  3. Coca-cola e Pepsi non sono veramente diverse per gusto o colore, ma lo sono concettualmente (sì, c’entra, e vi spiegherò perché).

Da questi tre punti, che sono le premesse necessarie per continuare questa recensione, ricaviamo i quattro passaggi fondamentali per Una Buona Recensione: 1) la storia della band; 2) la musica a cui fa riferimento; 3) la recensione del disco; 4) le conclusioni del caso.

1) La band, formata soltanto da Daniel Auerbach (cantante e chitarra) e Patrick Carney (il batterista), si ritrova nel 2001 a cazzeggiare assieme senza troppe pretese, quando nel 2002 fanno uscire “The Big Come Up”, il loro primo disco, e diventa subito un successo. Non si sa bene se sia culo o cos’altro, ma il garage-rock-blues di questi ragazzacci funziona.

Nel 2003 con “Thickfrekness” sembrano aggiustare ancora un po’ il tiro, misurandosi con un rock piuttosto hard nella filosofia del low-fi. Il secondo disco è davvero un passo avanti. Sebbene mi piaccia consigliarli entrambi a chi mi chiede “ehi, ma chi sono ‘sti Black Keys?” devo dire che Thicky ha una marcia in più. Più rumoroso, più casinista, più garage.

Continua il successo per la band, anche se molti critici nostrani sembra che credano fermamente che prima di “Attack & Release” non li cagasse nessuno (perché non se li cagavano loro). Invece già col secondo album, prodotto dall’ottima etichetta Fat Possum Records (che annovera nomi come quelli di Iggy Pop, Andrew Bird, i Caveman, i Dinosaur Jr. e altri) i plausi dalla critica americana non sono pochi, e i loro pezzi si sentono ovunque, dalle radio ai cinema.

Arriva nel 2004 “Rubber Factory”, un lavoro egregio a mio avviso (e il mio disco preferito dei Keys), ma ne parleremo meglio dopo.

Con “Magic Potion”, disco uscito nel 2006, comincia il declino. Il sound si addolcisce, il rock sembra un tantino stantio, non voglio dire che non sia rock, dico solo che è un rock svogliato, inutile fine a se stesso, senza energia! 

Intanto iniziano ad essere prodotti dalla Nonesuch Records (etichetta della Warner), e già nel 2008 accoglieranno anche la Danger Mouse. Il sound cambia, e parecchio.

Attack & Release” esce proprio nel 2008, l’arrivo della Danger Mouse si fa sentire, e il disco è quasi certamente il miglior lavoro della band, o quasi.

Il lato A risulta una bomba di psichedelia e rock d’annata, c’è l’elegiaca All Your Ever Wanted (un finale tra i più belli), godurioso il riff di I Got Mine che ricorda le cose migliori di Rubber, ma con un sound pulito e sofisticato (per quanto possa essere sofisticato un disco dei Black Keys), bella anche Psychotic Girl, insomma, un disco abbastanza cazzuto. Ma già nel lato B le cose si calmano. Sebbene pezzi come Se He Won’t Break siano cento volte meglio di qualsiasi cosa passi per MTV e affini c’è una certa artificialità nell’esecuzione. Insomma: non è la solita solfa, abbiamo lasciato il garage dei Sonics per andare a cercare lidi più complessi e raffinati.

Il sesto disco arriva nel 2010, è “Brothers”, questo è l’album che porterà i Keys ad essere conosciuti in tutto il mondo, ed è un delusioni totale.

Arrivato al negozio non mi siedo neanche per ascoltare, lo compro, speranzoso di sentirmi ancora qualche bel riff cazzuto e momenti di delirio, ed invece mi ritrovo preso in giro come poche volte nella mia vita! Cazzo gente, “Brothers” è una fregatura bella e buona! Un disco piatto, noioso, ripetitivo oltre misura! Non salto sulla sedia su nessun riff (che poi sono rumori indistinti), non c’è mai un cambio di velocità che si faccia notare, mai un’idea, assomiglia esageratamente a “Keep It Hid” (2009) il disco solista di Auerbach che altrettante perplessità mi lasciò a suo tempo. Che pena.

La solfa non cambia, anzi, peggiora, con “El Camino” (2011), un disco che suona come un affronto al rock duro e puro delle origini, il simbolo di una band venduta a MTV e ai colossi della musica.

Non solo il titolo riporta alla mente idee malsane come “Bananas” (perché chiamare un album come una macchina? Insomma, il titolo di un album è la sua presentazione, cosa dovevo aspettarmi da “El Camino”, una serie di sample di Chevrolet che sterzano a tutto fuoco?) ma oltretutto diventa il loro maggiore successo!

All’interno c’è di tutto per il campionario delle ovvietà e della noia, mi limito a segnalare i due pezzi migliori, se così si posso definire. Gold On The Ceiling viaggia abbastanza bene, il riff ti entra in testa come l’organo elettrico, ma non è che sia chissà che pezzo. Little Black Submarines sembra un tentativo di migliorarsi nella composizione, peccato che poi non lo sia, sembra un rock brutto, ignorante (che razza di aggettivi sono? Boh, è quello che mi è venuto in mente).

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2) I Black Keys, musicalmente parlando, partono con i Sonics, partono col garage. Sebbene nelle loro zone ci si ricordi perlopiù dei Devo, i Keys sotto sotto sono un po’ dei californiani in trasferta a Detroit. Dopo gli inizi rudi che band come i Von Bondies o gli Stripes hanno appena assaggiato, al contrario proprio del più famoso duo rock  si sono venduti alla grande, addolcendosi schifosamente, ipoteticamente pronti per suonare negli Hard Rock Café accanto a Rihanna.

Ora basta cazzeggiare, recensiamo.

3) “Rubber Factory” mi eccita.
Ma non come la caffeina.
Ecco, avete capito.

Quando ho udito le prime note di When The Lights Go Out intuì che questo era un disco per me. Lento, blues, garage, questo pezzo ferma il tempo attorno a me, con pochi accordi raggiunge l’anima (o le palle, fate voi) e mi stuzzica nel profondo.

Poi avviene. Rubber parte a razzo, senza esclusione di colpi mi assesta sul groppone riff assassini come quello di 10 A.M. Automatic, robette come Just Couldn’t Tie Me Down e All Hands Against His Own non passano inosservate ai tuoi vicini.

Da qui in poi potrei tranquillamente citarvi ogni pezzo leggendo il retro del cd, questa roba scotta amici miei! Girl Is On My Mind è un pezzo energico, cattivo, ma la perla del disco per me è la cover di Grown So Ugly, la quale col cazzo che è presa dall’originale di Robert Pete Williams, ma asseconda quella geniale e irripetibile versione del grandissimo Captain Beefheart, direttamente da “Safe as Milk” (1967). Già solo questo vale il prezzo del disco.

Ma non è finita qui.

4) Le conclusioni non sono niente di trascendentale: la Coca-cola è arrivata prima della Pepsi.

Forse questo non vi dice niente, ma se la Coca sono i Sonics e la Pepsi i Black Keys, allora il discorso cambia. Perché se la Coca non avesse avuto gli esperti di marketing che la pubblicizzavano a suo tempo, oggi non se la filerebbe nessuno. Ma uno zoccolo duro di intenditori continuerà a preferire la Coca alla Pepsi. Perchè mai, direte voi, solo per una stupida questione su chi ci è arrivato prima? No, è perché c’è una differenza concettuale di fondo: la Coca ha già detto tutto mentre la Pepsi ripete a pappagallo! 

Non solo: quello che la Coca ha detto lo ha detto quando nessuno era pronto ad ascoltarla, quando il mercato voleva la limonata (melodie country-rock orecchiabili), prima che l’invasione delle multinazionali (la British Invasion) distruggesse quello che fin lì era stato conquistato! La Pepsi non ha solo una differenza di tipo cronologica, è concettualmente un abominio! Vuole sopperire alla Coca travestendosi come tale, ma deviando l’ardore rivoluzionario degli albori per vendere di più! Questa è la tragedia dietro i Black Keys!

Detto questo “Rubber Factory” è un bel disco, anzi: è l’ultimo disco con le palle dei Keys, perché sebbene abbiano preso il sound dai Sonics l’hanno fatto con passione e personalità (le tinte blues sono loro, tanto per intenderci), mentre con “Brothers” e “El Camino” hanno fatto cassa sul loro nome per storpiare la Grande Lezione del garage delle origini, lasciando il rumore ma togliendo l’anima.

  • Pro: il loro capolavoro, un buon disco garage-rock in tinta blues.
  • Contro: fa rabbia pensare che si siano sputtanati in questo modo, perché il disco non ha proprio alcun difetto.
  • Pezzo Consigliato: bellissima la loro versione di Grown So Ugly, un bel tributo al mitico Beefheart.
  • Voto: 7/10

The Move – Move

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Negli anni ’60 sono venute sù così tante band che oggi è davvero difficile fare il punto della situazione.

Un genere particolarmente sfigato è il progressive, oggi noto perlopiù grazie ai gruppi più influenti. Si và dalla musica complessa e consapevole dei Weather Report ai barocchismi degli Yes alla genialità di Peter Gabriel con i Genesis. Purtroppo molte band che furono come un ponte ideale per il prog e i suoi sviluppi vengono tutt’ora ignorate. Tempo fa parlai dei Rare Bird, band eclettica che decise di andare avanti con un hammond, due tastiere, una batteria, un basso e nemmeno mezza chitarra, tirando fuori dal cappello un disco eccezionale nel 1970 come “As Your Mind Flies By”. Oggi invece ci concentreremo su una band molto diversa.

Le influenze che portarono il prog a diventare un genere ben (insomma) definito sono state tantissime, e non tutte d’accordo con loro! Si va dalla psichedelia nel garage rock a John Cage e alle tecniche stocastiche, fino a Anthony Braxton e magari qualcosa dalla musica di fine ottocento.

Comunque nella maggior parte erano band che nascevano sulla scia dei deliranti anni ’50-’60, ragazzi che vedevano nella strumentazione elettrica una via di scampo e un simbolo della lotta contro al generazione precedente, la loro emancipazione, la loro libertà.

Alcuni di essi a forza di sperimentare iniziarono ad interessarsi ai generi suddetti, cominciarono ad affinare la loro tecnica, e sempre in quegli anni iniziarono i primi bisticci tra le band.

Il successo incredibile degli Who portò in quel di Londra una lotta musicale senza paragoni. Ogni quartiere si sentiva in dovere di rispondere, ma la guerra dei mod era una vera e propria guerra a suon di chitarra e batteria!

Tra le band più rappresentative ci sono certamente gli Small Faces, ma è ingiusto che il tempo si sia lasciato dietro una band eclettica come i The Move.

I The Move nascono proprio come risposta a questa situazione musicale, una risposta di tutto punto che racchiudeva in sé alcuni dei maggiori talenti della Londra dell’epoca. Roy Wood fu il filo conduttore della band, dai The Nightriders ai Move fino ai Electric Light Orchestra: la sua sarà una carriera in decisa ascesa, potremmo dunque definire i Move come il momento di passaggio per Wood dall’anonimato alla fama.

Cosa c’è nei The Move che possa far presagire al salto con gli ELO?

Tante cose, anche se al contrario degli ELO i The Move erano un progetto in continuo movimento (come si intuisce dal nome della band), si ispirarono ai Beatles come ai Faces, ai Byrd e ai Creem, e tentarono molto presto, cioè già al secondo disco, di appoggiare appieno il movimento prog inglese.

Nel 1970 con “Shazam”, e nel 1971 con “Looking On” riuscirono a ritagliarsi un posto importante in quella difficile Londra, mischiando pop basilare al prog e a qualche timida sperimentazione.

A mio modestissimo avviso il lavoro più interessante è il primo disco, omonimo ovviamente, del 1968, il quale racchiudeva le esperienze della band dal ’65 fino a quel momento. Fu una band molto vivace politicamente, niente a che vedere con i feroci MC5, ma ricevettero denunce e censure di ogni genere. I loro testi andavano da gente chiusa in cliniche per l’infermità mentale ad attacchi a noti politici, alcuni dei loro pezzi degli ultimi ’60 hanno ritrovato la luce solo negli anni ’90!

The Move - Move

“Move” è un disco pop, con tinte prog, decise virate psichedeliche e qualche tentativo sperimentale (davvero accennato e ingenuo). Con le dritte di Dennis Cordell e della Regal Records Zonophone questa band sembrava pronta per sbancare ovunque.

La Regal fu tra le etichette che unite si trasformarono nella EMI, e gran parte del suo valore lo deve proprio alle orecchie di Cordell, produttore di successi mondiali come “A Whiter Shade Of Pale” (1967) dei Procol Harum e il glorioso “With a Little Help from My Friends” (1969) di Joe Cocker.

Sì, ok, mi sono un po’ perso in seghe mentali come al solito.

Il disco si apre con Yellow Rainbow, da Barrett ai Beatles per i Move c’è un passo, certamente a livello compositivo non hanno niente da invidiare ai secondi, magari peccano un po’ di creatività.

Segue bene Kilroy Was Here (Wood è un trascinatore nato), conferma la psichedelica vena creativa anche (Here We Go Round) The Lemon Tree con una una ingenua sezione d’archi che fa sorridere senza infastidire.

Molto garage la Weekend di Bill and Doree Post, molto Beatles Walk Upon The Waters.

Flowers In The Rain è una di quelle cose per cui ringrazi gli anni ’60. Spensieratezza derivata da un uso poco ragionevole di acidi, con quegli effetti sonori che sarebbero quasi ad un livello narrativo (è presente un effetto temporale). Ricordo che anche Le Orme, nel loro primo disco, nel singolo Oggi Verrà utilizzarono un effetto simile (un po’ più scrauso magari) ma senza donargli questa piccola, timida, valenza narrativa. È comunque un punto a favore per i The Move.

Hey Grandma spinge sul rock, e non possiamo che apprezzare. Il disco fin qui non annoia mai, nessun capolavoro, ma buona e sana musica popular.

Useless Information è un riempitivo semplice senza motivo di esistere. Più divertente e filo-zappiana Zing Went the Strings of my Heart, una nota di colore decisa nell’album.

Daje cogli archi con The Girl Outside, un sound molto italian style, ma non c’è da sorprenderci. I Move hanno avuto un breve ma intenso momento di popolarità in Italia, grazie al singolo Blackberry Way (ideato assieme all’Equipe 84, in Italia è conosciuta come Tutta Mia La Città), addirittura nel ’71 i The Move canteranno in Italiano con Something nel loro disco”Looking On”.

Fire Brigate è simpatica, ma nulla più. Mist on a Monday Morning fa molto primo prog, con l’idea del suono del clavicembalo e gli archi e Wood che canta come un vero lord inglese. Gustoso.

Chiude una versione un po’ infima di Cherry Blossom Clinic, certamente il loro capolavoro, ma in questo singolo c’è solo la potenza di quello che poi sarà atto nell’album successivo, ovvero “Shazam”, dove troneggia senza dubbio una Cherry Blossom Clinic Revisited di ottima fattura, psichedelica e prog oltre modo, uno dei miei pezzi preferiti del ’70 per follia e goliardia.

Insomma, “Move” dei The Move non ha cambiato le nostre vite alla fine di questo ascolto, ma non ci ha nemmeno fatto pentire dei soldi spesi.

  • Pro: un disco da custodire come documento storico, in “Move” potete sentire tutte le influenze che definirono alle orecchie della gente generi come il garage, il prog, la musica psichedelica e il pop raffinato degli ELO.
  • Contro: pochissimo, le ingenuità in questo caso sono un valore aggiunto per me!
  • Pezzo Consigliato: non è di questo disco, ma Cherry Blossom Clinic Revisited è davvero un gioiello perduto dei ’70. Godetevelo.
  • Voto: 6,5/10

The Mooney Suzuki – Electric Sweat

Electric Sweat

Comprare dischi è un brutto affare.
In passato ho utilizzato ogni tecnica, da: “guarda quanto è fica questa copertina!” a robe più miserabili tipo: “beh, se è con David Gilmour dev’essere bello!” a cose davvero deprecabili come: “davvero è a soli tre euro???” 

Le infinocchiate sono state tante, troppe. Con i vinili però imparai l’arte dell’ascoltare. E così iniziai a passare interi pomeriggi nei negozi di dischi, ascoltando praticamente qualsiasi cosa mi passasse per le mani. Iniziai a anche con i cd, e poi scoprii le “anteprime“ di iTunes e via dicendo.

Eppure ancora oggi mi capita, di volta in volta, di comprare un disco perché… sì, perché mi sembra fico.

Dei The Mooney Suzuki sapevo poco. Ok: non sapevo un cazzo. In generale ricordo che facevano parte della corrente garage dei primi 2000, e che (molto probabilmente) prendevano il nome da due celebri componenti dei Can. Basta.

Comunque un giorno spulciando tra dischi dei The Lyers e dei The Cynics ecco che spunta “Electric Sweat” dei Mooney, targato 2003. Che merda. Cioè, una schifo di copertina rubata ai Grand Funk con loro tutti impegnati a suonare come se fosse l’ultima volta nella loro vita. La solita band garage, ma dietro a tutta quella verve c’era anche della musica decente?

Leggo la tracklist:

Electric Sweat (scontato)
In a Young Man’s Mind (ci sta)
Oh Sweet Susanna (ok ok)
vado un attimo più giù e leggo I Woke Up This Mornin’ (una cover dei Ten Years After? Ma si chiamava così la canzone?)

Insomma la lettura ultra-mega-superficiale (e il prezzo ultra-mega-scontato) mi convincono abbastanza e alla fine lo compro.

L’idea era quella di ritrovarmi di fronte ad una versione esageratamente garage dei Can, e la cosa poteva anche starci.

Ok, andiamo alla sostanza: il disco dei The Mooney Suzuki è una delle cose che mi hanno più fatto divertire e incazzare al tempo stesso.

Divertente perché si fa ascoltare alla grande. Una birra fresca in mano, il disco sul piatto, e succede quello che desideravo. “Electric Sweat” suona come un disco garage come io suono il sax come Anthony Braxton. La verità è che i Mooney dentro questo calderone di idee e cazzeggi ci infilano tutto quello che sanno, dai MC5 (domati) ai Led Zeppelin, si percepiscono Grand Funk e molto garage contemporaneo, l’elettricità è certamente in primo piano, peccato che ancora una volta faccia rima con chitarra elettrica, e questo mi fa incazzare.

Io non sono un detrattore della chitarra elettrica, non posso essenzialmente, è stato il mio primo amore da bambino. Però crescendo a suon di Hendrix, Page, Blackmore e Frampton dopo poco tempo ho iniziato a rompermi il cazzo. È mai possibile che se vuoi fare rock la chitarra elettrica dev’essere la protagonista a tutti i costi? No! Cazzo no!

Però è chiaro che ai Mooney Suzuki piace da matti. E, cazzo, la fanno piacere anche a me. Ascolto “Electric Sweat” con la stessa eccitazione di un voyeurista che ha appena scoperto un buco nel suo bagno che gli permette di vedere in quello adiacente, ogni pezzo mi sembra unico e potentissimo.

Erano secoli che non sentivo un disco rock dove la chitarra non sembrasse la schifosa copia di un qualunque solista dei seventies. Cioè, la copia tecnicamente c’è, ma l’energia è tutta di Graham Tyler, non l’ha rubata in giro, non fa mossettine alla Keith Richards, al massimo si dimena come il più cotto dei Ty Segall.

Le tracce scorrono senza pietà, e anche cose che sulla carta mi avrebbero spaccato i coglioni a sentirle sembrano miracoli. Non puoi stare seduto sulla sedia con la birra in mano, devi per forza renderti ridicolo ai tuoi vicini saltellando come un cretino mentre ascolti It’s Showtime, Pt. 2 (esiste una parte 1?) e anche se I Woke Up This Mornin’ non è la cover di quel grandissimo pezzo dei Ten del 1969 c’è una così chiara strafottenza nel modo di suonare dei Mooney che non puoi non farti coinvolgere.

I pezzi strumentali come It’s Showtime, Pt. 2 e Electrocuted Blues [non ho trovato un link] me la fanno alzare in modo esagerato.

Lo so che è una recensione del cazzo (calcolando che l’ho comprato tempo fa, e l’ho pure citato nel post sugli Stripes!), ma per il prossimo disco dei Suzuki che compro mi informo e la faccio meglio, intanto ascoltate questa roba perdenti!

  • Pro: rock energico, spruzzata decisa di garage, pezzi ispirati, chitarra elettrica che fa un casino della Madonna. Compratelo!
  • Contro: ho rovesciato la birra.
  • Pezzo consigliato: non c’è, smettetela di leggere queste cazzate e compratevi “Electric Sweat”!
  • Voto: boh, cazzo ne so… sarà un 6 in teoria, ma per la foga direi 7/10

The White Stripes – The White Stripes

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[AGGIORNAMENTO ALLUCINANTE: in un momento di noia ho recensito l’intera discografia di Jack White, la quale contiene una versione aggiornata di questo post, se volete farvi un giro non avete che da cliccare QUI.]

Il primo disco è sempre il migliore. A volte il secondo, e a volte persino il terzo, ma dal quarto in poi sono casi davvero rarissimi. A questa statistica non si sottraggono nemmeno i White Stripes di Jack e Meg White, due nomi (d’arte) che hanno attirato attorno a sé una montagna di gossip di cui, sinceramente, non ce ne frega una benamata mazza.

Appena una band diventa famosa parte a bomba la divinizzazione della stessa, con la conseguente “fame” di gossip: di che si fa Jack White? Ma Meg se la scopa? Perché chiamarsi Jack White se poi non fai una band con Jack Black? E via discorrendo.

Peccato che la musica non c’entri un bel niente con queste idiozie. C’è da dire che è nato a Denver, il che è fondamentale per comprendere i vari perché della sua musica. White è un bianco che si sposa con il blues dei neri mischiandolo con una buona dose di garage-rock, cresciuto nella città dove poteva meglio conoscere i classici dei due generi.

Le sue prime uscite come musicista non sono certo formidabili, ma pian piano Jack inizia a trovare uno stile tutto suo, già percepibile in “Makers Of High Grade Suites“, tre pezzi registrati assieme a uno dei fratelli Muldoon dei The Muldoons, usciti soltanto nel 2000.

Probabilmente “Makers Of High Grade Suites” è il lavoro che segnerà in maniera indelebile il sound della chitarra di White nei White Stripes, suono che perderà progressivamente con i The Raconteurs, e poi con i Dead Weather (dove spesso suonava la batteria) e infine nel suo ultimo lavoro da solista, “Blunderbuss (2012), dove riecheggia qualcosa del suo retaggio garage in Sixteen Saltines, anche se l’esecuzione è una delle più anonime del focoso chitarrista.

La voglia di spaccare i culi, comunque, sembra ormai persa. Intuibile forse già ai tempi di un suo flirt poco conosciuto con Beck in “Guero” (2005) dove suona il basso in Go It Alone con fare tragicamente blues sulla solita verve noise-intellettuale del bravo Beck. La sua attenzione per una musica meno intuitiva del garage trova la sua totale definizione in un progetto assieme a Alison Mosshart, l’eclettica cantante dei The Kills.

I Dead Weather sono stati un po’ la negazione di un percorso fin lì fatto da White. Non c’è una reale evoluzione in “Horehound” (2009) e in “Sea Of Cowards” (2010), al massimo una unione di intenti nel far convergere il sound dei Kills, dei Queens Of The Stone Age, dei The Raconteurs e dei White Stripes. Il solito super-gruppo insomma, un primo disco interessante (perché propone suoni interessanti) e un secondo noiosissimo (perché li ripropone spudoratamente).

Il dramma di White è quello di non aver trovato una valvola di sfogo ideale per la sua straordinaria creatività dopo l’esperienza degli Stripes. In generale trovo che il suo meglio lo dia proprio in quel garage-rock con tinte blues che caratterizzano i suoi lavori iniziali, piuttosto che in questa sua veste moderna di vate del rock and roll in tinta twist, che sebbene produca dei bei pezzi non hanno nemmeno l’ombra dell’energia e della potenza di dischi come “De Stijl” (2000) e “White Blood Cells” (2001).

Poi ci sono i premi, le collaborazioni, i film (abbastanza divertente il corto dove Meg e Jack interpretano se stessi) e tantissima altra roba, però per la lista della spesa esistono le biografie.

Una di cosa di cui invece proprio non mi capacito è lo schieramento netto che si è creato contro il primo disco degli Stripes (che spesso si allarga ai primi tre). Ho letto addirittura che “White Blood Cells” sarebbe un disco studiato a tavolino perché è il terzo disco di una serie di album tutti uguali (che è una spiegazione del cavolo, a questo punto gente come Zorn, Segall e Zappa vanno a farsi friggere).

Il primo disco degli Stripes risente ancora tantissimo dell’esperienza con “Makers Of High Grade Suites”, è sopratutto garage, e di certo non è così banale come lo vogliono far passare. Inoltre parlare di banale nel garage è qualcosa di talmente idiota che è difficile da categorizzare. Dai The Castaways ai The Datsuns sono cambiati gli strumenti, sono migliorate le sale di registrazione, ci sono state tantissime influenze che hanno cambiato il sound tipico di questo genere, e il garage nei primi del 2000 ad un certo punto divenne un’accozzaglia di cose spesso difficilmente definibili (con questo non voglio certo dire che è tutta merda, diosanto! Cioè, quanto amo io “Electric Sweat” dei The Mooney Suzuki pochi al mondo!).

Quello che hanno fatto gli Stripes è stato portare indietro le lancette, riportare il garage ad essere diretto, sincero e ingenuo, quando ancora i metri di paragone erano Son House e gli Stooges. Se poi prendiamo in esame proprio questi anni c’è nel garage un ritorno alle origini pazzesco, si ruba ai MC5 ma anche al primo garage di origine psichedelica, si riprendono i Rats, si riprende Kim Fowley, si riprende anche gente fuori dagli schemi come Syd Barrett!

I primi tre dischi, sputtanati dalla critica italiana, hanno anticipato di almeno cinque-sette anni questa tendenza. Ty Segall, oggi, lo dimostra abbastanza bene.

Detto questo il garage degli Stripes si esaurirà ad una velocità sorprendente, e il minimalismo voluto da Jack White verrà ripreso solo in parte, anche se credo sia una delle cose più belle mai fatte nel garage, perché unica nella sua semplicità. Alla faccia dei detrattori.

The White Stripes-The White Stripes

Il disco è prodotto dalla Sympathy for the Record Industry, una delle più gloriose etichette americane, che annovera talenti del calibro dei Bad Religion, dei Suicide, i Von Bondies (con i quali White ha avuto un forte diverbio tempo fa), i New York Dolls e addirittura i The Gun Club. Non male!

L’album è decisamente eterogeneo nel sound, la chitarra troneggia con riff minimali, nessuna distorsione barocca, niente assoli da undici minuti, zero virtuosismo, siamo proprio tornati alle basi, solo energia.

Jimmy The Exploder è questo ed altro. Il punto di forza di White è certamente la facilità con cui introduce riff su riff. Il ragazzo non si prodiga in copia-incolla, è piuttosto ispirato, semmai.

Consideriamo un attimo la questione della batteria di Meg. Non è Meg che suona male, Meg suona semplicemente da cani, ma è questo quello che sa fare, ed è questo quello che Jack vuole da lei. White non fa la sua musica e poi ci mette Meg, ma costruisce i pezzi partendo proprio dai suoi ritmi da “scimmione” (definizione sua, mi astengo da giudizi estetici), in pratica utilizza i ritmi di questa batteria minimale per non uscire fuori dagli schemi, si pone un auto-limite antro il quale fare esplodere la sua creatività.
Poco originale?
Va bene…

Il disco scorre giù veloce e assassino, Stop Breaking Down, del grande Robert Johnson, è un pezzo forte, rapido e minimalista, ma in potenza anche lento e barocco, The Big Three Killed My Baby è uno dei singoli con più forza degli ultimi anni del garage, Suzy Lee viaggia sulle corde del blues e del garage come in Sugar Never Tasted So Good.

Bellissime Cannon e Astro, un paio di accordi, potenza e quella vocina straziante di Jack che urla al microfono.

I pezzi sono tutti i ottima fattura, come anche la cover di Dylan (One More Cup Of Coffee) e l’ennesima versione del classico blues St. James Infirmary, che, udite udite, trova in questo disco degli Stripes la sua consacrazione, almeno per me (mi fa tremare le budella, che ci posso fare?).

Il disco si chiude con la luciferina I Fought Piranhas, bellissima prova di slide e potenza.

C’è poco da dire su questo disco, ma molto da ascoltare.
Magari stavolta con un po’ più di umiltà.

  • Pro: garage non purissimo, un ritorno alle origini del genere nelle sue venature più blues.
  • Contro: troppo leggero. Sebbene ci siano delle sferzate anche importanti, pezzi come  When I Hear My Name sono potenzialmente delle bombe, ed invece sembra che White preferisca la versione light.
  • Pezzo Consigliato: amo Astro. Lo so che ho qualcosa di sbagliato dentro, ma sono fatto così!
  • Voto: 7/10

[approfitto degli Stripes per informarvi che ho un nuovo blog (ancora???) di recensioni cinematografiche, Alla Ricerca Del Bellerofonte]