Cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?
Probabilmente non tutti conoscono ancora Mikal Cronin, un bravo ragazzo californiano dal sound grezzo e violento che con dischi come il precedente (omonimo del 2011) e il bellissimo “Reverse Shark Attack” con Ty Segall si è imposto, almeno per la critica musicale, come tra i giovani più interessanti di una California rivitalizzata nella psichedelia e nel garage.
Quindi riponiamoci la domanda: cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?
Semplice: due palle come mongolfiere, casino, garage e divertimento a sfinire.
Ma nella vita non tutto è come vorremo che fosse.
Comprato all’uscita nella speranza che il buon Cronin mi rompesse definitivamente le casse, sembra che il mio più recente acquisto invece mi stia rompendo assai i coglioni.
La virata di Cronin è quella per un rock più “arioso” nei riff, che ammicca in modo svergognato ad un garage imbonito da spiaggia californiana più che da festival della birra con i Thee Oh Sees in scaletta.
Le prime tre tracce scorrono, non c’è che dire, in confronto a qualsiasi altro lavoro di Cronin c’è una certa armonia, il suono varia dal pulito allo sporco senza intoppi, mix e produzione con i fiocchi. Dei tre pezzi che ci introducono al secondo album di Cronin segnalo solamente Am I Wrong, leggermente più animata o quantomeno personale, un buon livello di composizione (ma sempre elementare, il che va bene finché cazzeggi, ma non quando fai finta di fare roba “seria”).
Si rialza Cronin con See It My Way, che sembra uscita pari pari da “Hair” di Segall e White Fence, con un pizzico meno di psichedelia. La forma “singolo” però mi disturba. Cronin ha confezionato un perfetto biglietto da visita per radio e TV, non è un caso se quindi la critica lo accoglie come il suo miglior lavoro.
See It My Way non è un brutto pezzo (il testo ha anche un che di garage), ma un po’ come You Make The Sun Fry, singolo da “Goodbye Bread” di Segall, appare studiato a tavolino e manca di autenticità, se capite cosa intendo.
Peace Of Mind nella sua “confezione da spiaggia” non perde una certa piacevolezza, inficiata comunque da un continuo rimando a sonorità troppo commerciali per non essere notate.
Quando le mie speranze ormai sembravano perse in un abisso di chitarre acustiche e giovani californiani palestrati in camicia hawaiana arriva Change, che sulle prime mi rinsavisce, e in effetti il riff funziona bene, peccato che il resto subisca un po’ ancora questo forzato imbonimento.
Provo una certa rabbia per questo cambiamento di rotta.
Non sono di certo uno che si affeziona ad un sound, se un artista che mi fa cagare cambia rotta e mi piace è ok, e anche se un rocker incazzoso diventa una checca rifatta a me va bene se la musica comunica comunque qualcosa. La rivoluzione nel sound dei Meat Puppets da “Meat Puppets II” a “Up On The Sun”, sebbene mi abbia scombussolato sulle prime, mi ha regalato uno dei miei dischi preferiti, tutt’ora il mio preferito della band.
Quindi porcamiseriamaledetta non me ne frega nulla se Cronin adesso si sente a contatto con Madre Natura e deve farcelo percepire pure a noi a suon di litanie acustiche, perché se ci metti l’anima, se ci metti il rock, va più che bene. Ma non è proprio il caso di questo album.
La chitarra è diventata light senza un motivo preciso, perché non c’è nulla nella musica e nella composizione che lo giustifichi, è tutto decisamente piatto, ripetitivo, impersonale e tragicamente scontato. Un bel cambiamento in confronto al primo album: “Mikal Cronin”.
Don’t Let Me Go è un altro pezzo che sembra proprio pensato per essere un bel tormentone per i giovani californiani che viaggiano a tutta birra per strade deserte con la radio a palla, una cosetta che non dispiace a nessuno, che non ferisce ma nemmeno colpisce, superficiale.
Non più cosa aspettarmi mentre il disco volge a Turn Away. Almeno si finge di cambiare ritmo, ma le sonorità restano quelle. Encomiabile lo sforzo di donare all’album un sound ben definito, e vorrei tanto che voi capiste che VA BENE e oltretutto è PIACEVOLE, ma che essenzialmente manca di passione.
Con Piano Mantra entra in gioco pure un piano che spizzica qua e là qualche accordo degno di Allievi, mentre si aggiungono degli archi e il tutto prende il colore di un Leonard Cohen poco ispirato, spezzando inspiegabilmente la trama sonora fin qui portata avanti. I testi che seguono non sono certo di un T.S.Eliot o di un Bukowski, ma questo nel rock va bene, tranne quando la musica e il tono fanno pensare che il musicista abbia qualcosa di profondo e importante da dirci (ed invece ci becchiamo una riflessione alla Baci Perugina). Su queste sonorità (in realtà no, ma vabbè) e con un’idea più genuina di climax consiglio vivamente Panic Attack #3 degli italiani a Toys Orchestra: così si scrive un cazzo di pezzo.
No, vabbè, sono troppo scazzato per questo disco, davvero troppo.
- Pro: beh, mica fa cagare.
- Contro: santo cielo se fa cagare…
- Pezzo consigliato: Apathy. È del disco precedente dite? E secondo voi non lo so?
- Voto: 4,5/10