Pink Floyd, la discografia (parte terza)

[questo post è preceduto da questo]

Ed eccoci nel mitico 1973, anno in cui i nostri sfornano “The Dark Side of the Moon”. Se la portata rivoluzionaria di un album si basa essenzialmente sulle novità tecniche e sulle ripercussioni pratiche nel modo di fare musica Dark Side in realtà si impone come modello perfetto di “come si costruisce a livello massimo di ingegneria del suono un album”.

Dark Side come sound è la perfezione assoluta, unitarietà allo stato puro, a voglia di criticare lo stacco blues di Money o la supposta lentezza di Us and Them, questo album è compatto come un dannato pezzo di marmo, non ci trovi un difetto.

Anche qui però i Floyd mi cadono a livello concettuale.

In teoria il disco è un concept album ma… di che cacchio parla esattamente? Secondo un articolo nel primo speciale italiano del Rolling Stone è un disco “sull’inconscio umano”, ma per Waters negli anni il significato di questo album è cambiato, prima era solito martellare i coglioni dei giornalisti sul fatto che era un album che serviva a comprendere le differenze sostanziali tra l’uomo e la scimmia (Darwin ringrazia), ora dice che l’album spiega come “la vita non sia un gioco”.

La povertà letteraria di Waters non dovrebbe indisporre nessuno, a parte i fanatici che hanno bisogno di idoli per andare avanti nella vita, in fondo anche un genio come Barrett era un perfetto idiota, quindi non c’è da stupirsi se anche Waters alla fin fine non sia chissà chi.

Stavolta nessuna suite, sotto la l’idea di concept (falsa) Dark Side si estende per nove canzoni (escludendo quindi Speak To Me, una brevissima ouverture) pillole del miglior soft rock di tutti i tempi.

La musica commerciale ha il suo capolavoro al quale quasi nessuno si ispirerà mai, non tanto per la composizione, ma per quella ricercatezza nel sound che dicevamo prima. Tantissimi però coverizzeranno questo album, dal tentativo dei Dream Theater (per me tutt’altro che decente) e quello interessante dei Flaming Lips, l’unico ad ergersi dal punto di vista della cura ingegneristica.

Fatto sta che nel 1973 il kraut rock aveva trovato la sua degna conclusione (“Faust IV“, “Future Days“, “Neu“) cominciando la sua parabola discendente, Oldfield aveva pubblicato il suo capolavoro “Tubular Bells“, il prog trova il suo apice compositivo in “Lark’s Tongues In Aspic” mentre i New York Dolls, ora burattini nelle mani di Malcolm McLaren, ponevano le basi per un nuovo rock. A tutto questo i Pink Floyd non daranno nessun peso, isolandosi sempre di più nella loro bolla dorata.

C’è pochissimo da aggiungere su questo album leggendario, per chi ama il sound della band non può che ammettere che questo è il suo massimo raggiungimento (chi dice “Animals” e “The Wall” ha per me un’idea distorta del rock e dei Pink Floyd in particolare, ma ne parlerò meglio successivamente, se me ne ricordo). Ecco, l’unica postilla che metto è che, per quanto leggendario, questo sia un album del tutto inutile.

Mi sembra chiaro ormai quanto i Pink Floyd siano prima di tutto una macchina ingegneristica, la loro musica non ha né scopo né idee che non siano puramente estetiche. Le melodie cantabili che ti trascinano per mezz’ora, altro non sono che idee riciclate ma riproposte in Full HD (o in 4K se preferite), è il massimo raggiungimento per il soft rock, ma il minimo risultato artistico per la band.

Il 1974 servirà per raccogliere tutto il materiale necessario per “Wish You Were Here” e con quello che rimase ci fecero pure “Animals”.

Wish_You_Were_Here_-_cover

Wish You Were Here” esce nel 1975 e la miriade di interviste e biografie sulla band non lasciano scampo: se c’è un album che i Pink Floyd hanno amato quello è proprio “Wish You Were Here”.
Perché questo più degli altri?
Cos’ha Wish che gli altri album non hanno?

Wish si discosta dal resto per una sorta di bipolarismo intrinseco, da una parte il sentimentalismo, dall’altra una velenossima critica all’industria musicale.

Tutti noi conosciamo la genesi di Shine on You Crazy Diamond, ma perché perché il pezzo e diviso in due, apre e chiude l’album ed è così lungo? Questo genere di domande non sono superficiali, capire come un disco viene costruito può essere un punto di vista per comprenderlo rivelatore. Questo omaggio a Syd Barrett non è una ballad, ma un vero e proprio velo che copre l’intero album e il resto dei pezzi. Attorno ai Pink Floyd c’è sempre stato Barrett, in ogni momento, in ogni composizione, in ogni idea, lui era un diamante perfetto, un genio irraggiungibile, e loro lo sapevo bene. All’interno del velo ci sono le prime uscite del vero Waters. Shine on, con i suoi toni che vanno dallo space rock all’orfico e al solito soft rock, dipinge un vuoto esistenziale mille volte meglio di qualsiasi altro pezzo o album della band, sicuramente mille volte meglio di “The Wall” o di “The Final Cut”.

Welcome to the Machine è una prova dell’ipocrisia di Waters, che ancora esprimeva la propria insofferenza verso il genere umano prendendosela con l’industria musicale (coerente), ma come poi saprà bene esprimere con “The Wall” in realtà era il pubblico che lo amava a disgustarlo. Continua questo malessere in Have a Cigar, cantata dal Donovan dei poveri ovvero Roy Harper. Dietro una perfetta incastonatura ingegneristica c’è solo insofferenza medio-borghese, Waters utilizza il rock come mezzo per far vedere quanto lui sia bravo e quanto gli altri invece siano degli stronzi, non il massimo obiettivamente.

Wish You Where Here, anch’essa dedicata a Syd, è forte come non mai in quanto empatia. Un colosso del soft rock, conosciuta e cantata in tutto il mondo (come Yesterday e Mamma Mia).

Da notare quindi come se nell’intenzione della band di omaggiare un amico, e ancor prima un mito per tutti loro, la forza del rock ci propone delle liriche più profonde, un suono più “ampio”, un soft rock che ha qualcosa da comunicare, appena la palla torna a Waters si scade in una critica di basso livello, fatta di veleni e diatribe effimere.

“Wish You Were Here” è un grande album, ma è anche il primo passo verso la fine della band.

Ora i Pink Floyd fanno tour mondiali, i tempi si dilatano, la voglia di stare insieme diminuisce sempre di più, lo storico astio nella band si fa strada in modo inesorabile, e per produrre un disco assieme la forza trainante ormai sono solo i soldi.

Proprio in questo clima i Pink Floyd assemblano “Animals” (1977). Questo album semplicemente ripropone il materiale di scarto del disco precedente, infatti levando la vena “romantica” che pervade gli omaggi di Wish resta solo l’odio o l’ostentazione quasi ossessiva di questo.

Leggere “Animals” come un’opera di stampo orwelliana, o comunque semplicemente dispotica, è una visione distorta del messaggio completo che il disco, tramite Waters, ci comunica.

Waters maschera ancora una volta il suo odio verso l’umanità adesso non più contro l’industria musicale, ma contro l’industria in senso lato.

Peccato che le liriche siano elementari per quanto riguarda l’aspetto letterario, e che la musica sia un riciclare continuo di due o tre spunti interessanti. Taluni vendono in “Animals” un disco fortemente politico, peccato che sia una guerra contro tutto e tutti, piuttosto è un disco nichilista ma i concetti espressi sono banali e superficiali. Altri vedono in “Animals” un disco quasi d’avanguardia per alcune sonorità dark (considerazione incommentabile).

Musicalmente la prova compositiva dei Pink Floyd non propone nulla di strabiliante, l’ennesimo ottimo lavoro di Wright, una buona prova del resto della band, uno straziante quanto banalissimo Roger Waters.

Accumulando rabbia, odio e insofferenza verso il genere umano in tutta la tournée del ’77 Waters concepirà “The Wall”, la fine di un’idea di band, di un sound e di un pezzo di rock.

Ma prima di “The Wall” i membri della band, ormai allo sfascio totale, sfiancati da un disco che di soddisfazioni ne darà ben poche, cominciano a prodigarsi in progetti solisti. C’è il piatto e inconsistente “David Gilmour” (ma che sarà per lui una fonte di ispirazione per gli album successivi, il dovrebbe far riflettere) del 1978, che verrà seguito nel ‘84 da “About a Face” il quale sebbene le collaborazioni di spessore fa cagà, fino all’ultimo “On a Island” del 2006, probabilmente il miglior disco solista di Gilmour, perché il più modesto.

Sempre nel ’78 esce “Wet Dream” di Richard Wright, purtroppo niente di che, seguito da quell’aborto vestito da album di “Identity” (1984) e dal ben concepito “Broken China” (1996). Il 1984, data che vede l’uscita di due dischi solisti dei Pink Floyd, seguiti a ruota nel 1985 anche da Mason (di cui, lo ammetto, non ho mai ascoltato nulla da solista, ma dicono che non sia malvagio) sono ovviamente lo sfogo personale dei membri della band dopo il crollo verticale seguito dalla produzione di “The Final Cut”, l’ultimo album dei Pink Floyd sotto la tirannide perpetuata da Roger Waters.

Quando esce “The Wall”, ovvero nel 1979, i Pink Floyd erano ormai totalmente al di fuori della realtà musicale inglese. Se a Londra era già bello che scoppiato il punk, e da un anno buono eravamo agli albori della new wave, i Pink Floyd (ops! volevo dire: Roger Waters) decidono che è il momento giusto per un disco soft rock leggermente più hard pieno di singoli formato radio-tv. E poi si lamentano se li chiamano “dinosauri”.

“The Wall” è un lavoro auto-referenziale, un disco autistico, che non vuole avere niente a che fare col resto del mondo, rinnegando se possibile anche la sua umanità.

E difatti sconvolgente come il pubblico festeggi l’alzata di quell’enorme muro bianco che li separa dalla band, un’enorme vaffanculo galattico perpetuato da Waters nei confronti di un pubblico che odiava ma amava (ah, il potere dei soldi).

E da questa idea da perfetto stronzo ci tirerà fuori lo spettacolo più ipocrita, geniale, ed esteticamente favoloso della storia del rock.

“The Wall” è Roger Waters, peccato che i Pink Floyd siano scomparsi.

Fuori dal suo tempo Waters compone un’opera enorme su se stesso e la sua visione del mondo, seguita dai soliti testi che si alternano a momenti felici a momenti di una banalità sconvolgente. Se da una parte le doti di istrione di Waters vengono fuori con tormentoni alla Is There Anybody Out There?, o in ballad lacrimevoli come Mother, è impossibile non sorridere pensando che questo dovrebbe essere uno dei più grandi parolieri dei rock e poi sorbirsi Young Lust o Comfortably Numb. Credo che gente come Tom Waits meriti qualcosa in più, no? No? Ok. Pazienza.

Musicalmente non c’è una virgola fuori posto, se non che suoni vecchio oltremodo e superato sotto tutti i punti di vista.

Se fino a “Wish You Were Here” il fatto che la musica rock progrediva mentre i Pink Floyd restavano gli stessi ci poteva anche stare, data la ricerca ossessiva di Waters di far cassa su un sound ben preciso (che li ha resi una delle band più particolari della storia e anche tra le più inimitabili), una volta uscito fuori dallo schemino pre-costruito ecco che esce un album che, non mi sento un’idiota a dirlo: può piacere solo ad un fanatico masochista. Come me, per l’appunto.

Sul film non mi pronuncio, scandaloso tecnicamente, il peggior Alan Parker di sempre.

Imbastardito e senza più vergogna Waters (accompagnato da Gilmour, suo nemico, ma pecora nella vita com’è risaputo) fa uscire un best of nel 1981 dal nome esplicativo; “A Collection of Great Dance Songs”. Eh beh.

Contenente pezzi addirittura re-mixati (non ricordo quali di preciso, e ‘sti cazzi che me lo riascolto) propone One of These Days, Sheep, Money, Shine On You Crazy Diamond, Wish You Were Here e Another Brick in the Wall. Ecco dunque cosa rimaneva dei Pink Floyd, diventati macchietta di se stessi, mostrandoci quello che nella loro discografia si riconduce ad una forma commerciale del rock, svelando dunque che dietro la freddezza di certe composizione c’è proprio una idea di rock lontanissima dal suo furore originario, che non deve per forza esprimersi con rabbia e violenza, ma che comunque qualcosa deve esprimere, cosa che i Pink Floyd si sono palesemente dimenticati, forse già da “Ummagumma” in poi.

D’ora in avanti sarà un gioco al massacro.

Pink Floyd - The Final Cut - Front

Piacevole “The Final Cut”, un disco discreto, ma che se contestualizzato storicamente (siamo nel 1983) si salva solo per l’ottima ingegneria del suono (un’orgia di soluzioni pazzesche che valgono l’acquisto) e basta. Interessante per i fan, indecente per il resto del pianeta. Giustamente, direi.

Concluso ormai il “fattore Pink Floyd”, a causa dell’implosione mentale di colui che l’aveva creato, il gruppo si scioglie e partono le esperienze soliste.

Abbiamo già visto sinteticamente quelle di Gilmour, Wright e Mason (ok, di lui no, ma vabbè, si rimedierà), ora prendiamo in considerazione Waters, a bocce ferme dal 1970. Ed eccolo nel 1984 con “The Pros and Cons of Hitch Hiking” (venti euro buttati nel cesso), seguito da “When the Wind Blows” del 1986, una colonna sonora di non so cosa che ancora non ho mai comprato, e che credo un giorno comprerò (perché sono marcio dentro), e si giunge al 1987 col più famoso disco solista di Waters ovvero “Radio K.A.O.S.”. Tornano le tematiche nichiliste di “Animals” e la musica è di un piattume devastante.

Dopo una serie di album in cui ripropone “The Wall” in tutte le salse (che poi è un po’ come avere un blog dove si postano solamente foto della propria fava), fa uscire anche “Amuse to Death” (1992) un album dimenticato da tutti, eppure il migliore di Waters dopo “The Final Cut”. Conclude lo scempio con “Ça ira” (2005), discreta prova compositiva senza motivo di esistere.

Ed eccoci dunque alla merda, eccoci quindi ai miei soliti toni incazzosi quando mi ritrovo davanti album che meriterebbero la gogna mediatica ed invece vengono ancora salvati da quella schiera di fanatici folli che credono che il loro idolo caghi oro e pisci acqua minerale.

Nel 1987 David Gilmour si rende conto che pubblicare album con la sua faccia non rende poi così tanto, nemmeno se ci piazzava a caratteri cubitali “DAL CHITARRISTA DEGLI STRA-MITICI PINK FLOYD DI ‘STO CAZZO” vendeva quanto gli serviva per appagare il suo ego, ormai libero dalla presenza sodomizzante di Waters.

E infatti ecco arrivare “A Momentary Lapse Of Reason”  (del 1987) ovvero la sagra delle banalità, non a caso sarà un successo mondiale e il tour che ne seguirà viene tutt’ora ricordato come il più seguito dei Pink Floyd (testimoniato dal celebre “Delicate Sound of Thunder”, doppio live del 1989). Gilmour incapace di portare avanti il lavoro da solo si farà seguire da compositori esterni, il disco è indecente, ma tanto ormai siamo già verso gli anni ’90, la gente và a vedere qualsiasi merda sia riconosciuta come “fighissima”. Non si spiegano sennò i dati di vendita degli ultimi album di AC/DC e Stooges, o di band mediocri come Strokes e Foxygen.

Nel 1992 si apre per la band una piccola parentesi cinematografica che non si discosta in termini tecnici dalle precedenti prese in considerazione, ovvero il quasi sconosciuto “La Carrera Panamericana”, un bruttissimo documentario su una famosa gara automobilistica che si svolge in Messico a cui parteciparono per l’occasione anche Gilmour e Mason.

A concludere la storia di questa band ci pensa “The Division Bell” (1994), che quanto meno recupera una certa unitarietà sonora, oltre a contenere qualche momento “felice”, come in Wearing the Inside Out di Wright, un gioiello di soft rock, l’interessante Marooned, e l’ultima e celebre hit dei Pink Floyd, ovvero High Hopes, il quale almeno è un pezzo elaborato bene e con un assolo finale degno di Comfortably Numb.

Ormai leggende viventi i Pink Floyd possono anche cagare sul palco, fanno sold-out a prescindere. Anch’io da perfetto coglione ogni volta che Gilmour o Waters hanno fatto visita al nostro paese me li vado a vedere spendendo cifre eticamente ignobili, e a volte anche per più date nello stesso tour.

Il più attivo resta Gilmour, nel 2006 esce come abbiamo già detto il suo miglior lavoro solista, esattamente un anno dopo la mitica riunione della band con Waters per il Live 8. La melensa On a Island che dà il nome al disco ci propone un’idea generale del prodotto di Gilmour, favoloso dal punto di vista degli equilibri, del sound e della solita ingegneria del suono stratosferica (anche se oggi è un po’ più facile che nel ’75) ma senza sostanza. Rimandi addirittura a “The Wall” la creatura di Waters (Take a Breath), un blues acustico di qualità con This Heaven, e poi tanta roba inutile perlopiù. Un disco totalmente fine a se stesso, fosse stato fatto da un signor nessuno poteva anche interessare per un certo tipo di sonorità, peccato che quel tipo di sonorità c’è dal 1970. Cazzo.

Semplicemente una fregatura “Metallic Spheres” (2010) con i The Orb.

Ora i Pink Floyd sono un marchio prima ancora che una band, un simbolo, e per alcuni addirittura una band underground o di musica alternativa se vogliamo, quando invece sono stati una della band più esplicitamente commerciali della storia.

È un male? Io non credo, però trovo quanto meno strano che qualcuno ancora ci si batta per definire i Pink Floyd come una band sperimentale o addirittura fuori dagli schemi. Uno schema c’è l’avevano, e dal 1970 fino a “The Wall” l’hanno mantenuto con una costanza asfissiante, il che non è certo segno di una qualche forma di genialità creativa, ma di una mentalità da spietato marketing.

Un lavoro storico come “The Piper at the Gates of Dawn” non lo ripeteranno mai più. La svolta per il rock derivata da questo album è stata tra le più profonde mai legate ad un singolo lavoro, le sue idee melodiche, timbriche e compositive hanno influenzato tantissimi album successivi, e ancora oggi se ne percepisce l’ascendenza su tante scene europee o oltreoceano (tutta la scena californiana contemporanea, tanto per dirne una). Un discorso diverso va fatto per “The Dark Side of the Moon”, campione in fatto di vendite e porrà dei nuovi standard per la qualità del suono, ma sono solo questi i suoi meriti. Invece “The Wall” è un disco rock ben scritto, ben ideato e con un messaggio molto forte (“siete tutti brutti e cattivi e avete trattato me [Roger Waters] come una fottuta merdina!”) ma sopratutto è un’incredibile show live, il più memorabile della intera storia del rock dopo quelli di Woodstock..

Beh, basta così, so che ho saltato migliaia e migliaia di cose e avrò cannato qualche data e qualche nome, però chissene, ora sono stanco e vado a letto.
Alla prossima.

4 pensieri riguardo “Pink Floyd, la discografia (parte terza)”

  1. Cosa succede? Non vedo alcun commento! Strano, considerando che si parla di un gruppo piuttosto rinomato.. Poco male, è deprimente leggere insulti e polemiche inutili di qualche fan accanito e rompipalle. Scrivo perché ho trovato la tua analisi schietta e imparziale. Analogamente a te, i Pink Floyd sono stati uno dei primi complessi che ho conosciuto, mi hanno colpito, sono stati il mio gruppo preferito per un paio di anni, infine, cominciando ad ampliare le mie conoscenze musicali, ho capito di doverli rivalutare. È vero che attualmente sono diventati un simbolo, che sono stati gonfiati in ogni modo, ma per il mio modo di concepire il rock (che è diverso dal tuo, ma ci arriverò tra poco) talvolta hanno prodotto lavori di grande valore, anche senza la presenza di un artista geniale e folle come Barret.
    Si è provato spesso a definire il rock, credo (mi è sembrato così) che tu, come Lester Bangs , lo consideri una forma di protesta, in cui il messaggio si antepone alla forma, proprio per questo motivo giudichi MMM il disco più grande del rock (non fraintendermi, è grandioso, io però avrei serie difficoltà a scegliere il più grande album della storia, dunque sospendo il giudizio), essendo probabilmente il miglior messaggio della beat generation, il Vaffanculo per eccellenza. Io, invece, considero il rock un mezzo, una forma musicale attraverso cui trasmettere qualcosa direttamente e semplicemente, comunicare con il massimo livello di libertà che si può concedere a un artista, differenziandosi così dalla musica classica, che ha invece una funzione essenzialmente evocativa ed è un’arte davvero seria. Nella tua recensione scrivi del pop in senso quasi dispregiativo, come se esso sia per logica contrapposto al rock, una sua forma volgare, se in quest ultimo non c’è contestazione lo concepisci distante, se nel pop è presente una qualunque forma di contestazione, la giudichi ipocrita; per questo motivo ritieni alcuni suoi generi, come ad esempio il progressive, il soft rock, effimeri e futili. Sarebbero invece da apprezzare anche quelli, perché sebbene sia vero che sono diventati fenomeni di moda più che musicali hanno comunque dato nuove e libere forme di arte. Tornando poi ai PF, senza considerare i mediocri lavori solisti, e tutti i dischi dopo The Wall (inconsistenti, piatti), non credo si possano definire un gruppetto scadente, non sono tra grandi sperimentatori musicali, ma si tratta sempre di una squadra interessante, che qualche lavoro di buon livello lo ha fatto, anche nel momento super-pop. Lo stesso Waters, che risulta a mio parere troppo “demolito” dall’analisi, per quanto sia giusto ridimensionarlo, far capire che non è un intellettuale, un letterato, un profeta, è stato senza dubbio un ottimo comunicatore, testi degni di nota e belli nella loro semplicità, concepts profondi sono stati scritti talvolta anche da lui, più o meno consapevolmente e coerentemente , ma questo quanto è importante? Qui mi fermo. Ho scritto molto, avrei potuto pure dire di più, ma sarebbe stata un’esagerazione, visto l’argomento. Non ho alcuna intenzione e presunzione di farti cambiare idea riguardo questo gruppo o riguardo alla musica in generale, spero però di aver reso chiaramente la mia posizione riguardo al rock e alla sua forma più popolare, ritengo possa essere condivisibile, o quantomeno comprensibile. Mi farebbe piacere sapere la tua.

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    1. Gran commento, finalmente!

      Meriti una risposta organica, quindi comincio da dove hai cominciato tu: sì, ho tentato una analisi schietta e imparziale, peccato che sia approssimativa e inconcludente. Subito dopo averla scritta (considera che ho scritto tutte e tre le parti tutte d’un fiato) avrei voluto approfondire tante affermazioni lasciate là quasi per caso, ma nel mio profondo covavo la segreta speranza che un commentatore venisse ad insultarmi su qualche cazzata, così da poter instaurare un dialogo che giovasse a me e alla recensione.

      Mi piace Bangs, ovviamente, ma non mi rivedo nella sua visione estremista del rock. Il rock può anche non portare nessun messaggio ma essere ottimo (Oblivians), ma può anche essere destrutturato alla radice e preferire l’idea alla forma (“Trout Mask Replica”), quello che rende di una certa Qualità il rock è la qualità delle idee. La tecnica fine a stessa può essere vuota (Joe Satriani) o piena di significati (“Larks’ Tongue in Aspic”), e se anche la sostanza è predominate mutilando la tecnica (Stooges) dev’essere una sostanza con valore sociale, politico o comunque qualcosa di diverso dal nulla assoluto (Babyshambles). Il rock per me non è una cosa seria perché se dovessi prendere seriamente l’aspetto musicologico ascolterei solo roba stranissima e abbandonerei Who, Led Zeppelin, Ty Segall, Clash o che so io. Invece postulando la non-serietà del rock posso mettere in cima Black Sabbath, Captain Beefheart, Pere Ubu (etc.) tutti assieme senza problemi e smerlare il rock più tecnico e affine agli studi musicologici “colti”.

      Il discorso andrebbe ampliato, ma se continuo così non entrerò mai nel merito del tuo commento, quindi la abbozzo qui.

      L’accezione pop per me non è affatto dispregiativa, gran parte della musica che ascolto è pop in realtà. Ma il pop è un genere volutamente effimero, ma nel vero senso della parola, è un qualcosa che nasce per donarti un’impressione veloce e nulla più. Ma quando una band di jazz, rock, drone o via dicendo, si propone come un ensemble che vuole fare dell’Arte e poi ti fa “Bananas” o “A Momentary Lapse of Reason”, io m’incazzo, perché è semplicemente un prodotto pop (dispregiativo solo perchè le premesse erano diverse!).

      Progressive e soft-rock sono stati i miei primi amori e non li rinnego, ma c’è modo e modo di comporre musica prog e soft-rock. King Crimson, Genesis, Rare Bird, Gentle Giant sono dei monoliti indiscutibili, ma come i Pink Floyd soft-rock di “Atom Earth Mother”, solo che se voglio tentare una analisi critica non posso farla limitandomi al sottogenere di appartenenza, ma al contesto storico-sociale-musicale. Per esempio: sfido chiunque a dirmi che “The Wall” non è tra i più grandi album pop-rock della storia, se dovessi consideralo limitandomi all’ambiente delle classifiche e di MTV sarebbe l’album perennemente primo in classifica per quanto mi compete. Ma considerando la storia (uscito ben tre anni dopo l’esordio dei Ramones, nel mezzo della rivoluzione perpetuata da Television, Pere Ubu, Devo e così via), le questioni sociali (Reagan e la questione Russa, la vittoria dei conservatori in UK mentre i Floyd parlano del fatto che odiano il pubblico e robe così) e di una musica che ormai vede nel prog e nel soft-rock anni ’70 la musica commerciale e masturbatoria per eccellenza (dopo la disco-music ovviamente) allora il discorso cambia.

      I Floyd sono tutto tranne un gruppo scadente, la loro grande pecca è la ridondanza dei lavori dopo il periodo d’oro conclusosi probabilmente tra il ’70 e il ’73.

      Sulla questione Waters sono stato forse troppo spinoso, è vero, va detto che dopo tanti anni passati a leggere biografie e interviste l’ho trovato sempre più odioso. Mi ricorda Stan Lee. Borioso e egocentrico all’infinito, il che vorrei fosse chiaro: NON CAMBIA IL MIO GIUDIZIO SULLE QUALITÀ COMPOSITIVE, non è che se uno mi sta sui coglioni allora mi fa cagare come artista, anche perché se no Lou Reed non lo ascolterei mai, ma proprio mai. Ecco, considera che Reed per me è molto più mentecatto di Waters (per quanto ho potuto apprenderne leggendo le solite biografie e interviste). Quello che mi sta sulle palle di Waters è il continuo auto-riferimento in tutti i pezzi dei Pink Floyd (per lamentarsi di cazzate, oltretutto), oltre al fatto di sapere benissimo che dietro “The Dark Side of the Moon” non c’era niente, ma ad ogni intervista spara una cazzata diversa sui significati che avrebbe introdotto nell’album (e così facendo per me svilisce i testi leggeri, inconsistenti, ma dolcissimi di alcuni pezzi di Dark Side).

      Devo dire che senza il tuo commento non mi sarei accorto dell’eccessiva aggressività con cui mi espresso nei riguardi di Waters, credo che una volta dovrei recensire “Amuse to Death” per inquadrarlo con meno acredine.

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  2. Grazie per questo e altri ottimi articoli che sto scoprendo sul tuo sito.
    Non hai citato un disco importante e interessantissimo (già solo per i credits sul retro della copertina), anche se effettivamente si potrebbe discuterne la paternità (o maternità) e di conseguenza la pertinenza all’interno di una discografia dei Pink Floyd: Fictitious Sports di Nick Mason e Carla Bley. Che ne dici?

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    1. Questa discografia è stata scritta 5 anni fa e si nota, mancano delle cose e i miei giudizi in alcuni frangenti non sono ben elaborati. “Nick Mason’s Fictitious Sports” non è un album di Mason, è un album di Carla Bey con Nick Mason e una manciata di grandissimi musicisti, gente del calibro di Gary Windo e Robert Wyatt, Howard Johnson, Christopher Spedding (dei Nucleus!), Michael Mantler e altri che non ricordo. È in tutto per tutto un album della Bey, giusto le influenze canterburyane sono di Wyatt, e comunque la ricerca timbrica e armonica è molto lontana dal resto della produzione di Mason. Bell’album, anche se è un bel po’ che non gli do una ripassata! Magari lo rispolvero per scriverci qualcosa, dato che effettivamente non è che poi sia famosissimo.

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