The Litter – Distortions

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Quello che vi propongo oggi è un acquisto sicuro, anche se non di eccelsa qualità concettuale.

Sì perché credo che ogni tanto ci sia bisogno di far girare sul piatto un disco che alla fin fine non abbia chissà quali pretese, ma che faccia quel pizzico di rumore che comunque ci allieta la giornata.

E di rumore “Distortions” ne fa, dato che Warren Kendrick lo volle chiamare così perché l’intero album è caratterizzato dall’uso smodato del fuzz-tone.

Il garage dei The Litter è elettrico oltre ogni immaginazione, le casse sembrano emettere fulmini mentre le tracce si susseguono, il che credo sia un ottimo incentivo per l’acquisto di un album di fottuto rock, no?

Cos’altro hanno questi The Litter? Beh, nulla.

“Distortions” esce nel 1967 sull’onda del successo del 45 giri “Action Woman / ”Whatcha Gonna Do About It”, pubblicato da un’etichetta a me sconosciuta (la Warick). Se consideriamo quanto il garage aveva dato fino al ’67 il disco dei The Litter non sorprende né colpisce per una qualche idea in particolare, sono i soliti cinque ragazzini bramosi di fama che indossano vestiti di dubbio gusto e suonano come un Woody Guthrie impasticcato.

L’anno prima uscì dei The Seeds il loro primo album omonimo, una pietra miliare per il rock, un garage a tinte acide che spesso anticipa il punk (No Escape), era uscito un album pieno di ironia e contenuti serissimi come “Black Monk Time” dei The Monks (Complication), The 13th Floor Elevators, Electric Prunes e Blues Magoos tenevano alto il vessillo psichedelico mentre i Sonics spianavano la strada per il punk duro e puro (Strychnine). I The Litter nel 1967 erano in ritardo per la festa.

Un’altra cosa interessante è che “Distortions” è un album di cover, i Litter se ne fottono altamente di scrivere qualcosa di pugno, massacrano a suon di fuzz-tone gli Who, gli Small Faces, gli Yardbirds, cazzo si prendono pure Spencer Davis Group, non si fanno mancare nulla queste fighette di Minneapolis.

Però lo spirito di quei folli anni c’è tutto in questo album, anzi “Distortions” nella sua povertà concettuale è un disco che suona sporco e vivo come pochi nella storia del rock.

Mai un calo di tensione, mai un momento di noia, mai una pausa. La qualità espressa da Jim Kane, Dan Rinaldi, Tom Murray, Bill Strandlof e Denny Waite è strabiliante, e tutto in rigoroso MONO (tranne che per The Egyptian).

Questo è un album che dovrebbe far riflettere tutte quei dannati musicisti perfettini che se non registrano “da Dio” manco pubblicano un loro ruttino. Eppure a volte non servono nemmeno le idee, occorre solo quella fiamma indomabile che il rock incarna nelle sue esplosioni elettriche.

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L’album si apre con la bellissima Action Woman, un monolite del garage rock presente in qualunque collezione si rispetti su questo nobile genere. Se non ti convince un pezzo così sei messo male.

Via subito a razzo con la cover degli inglesi Small Faces, Whatcha Gonna Do About It? che orfana della voce di Marriott si riprende con delle indemoniate sferzate chitarristiche di Rinaldi. Un classe unica.

Siamo alla terza traccia e già possiamo sentirci pienamente soddisfatti dell’acquisto, perché Codine in questa veste distorta è quanto di più rock si possa immaginare. Lenta, potente, elettrica.

Somebody Help Me è un brit-rock basilare suonato da dei geni.

Substitute è la prima cover degli Who, e passa pieni voti. Anche inspiegabilmente del lotto è il pezzo che ha sofferto di più l’inevitabile scorrere del tempo (in coda c’è spazio pure per The Mummy di Tommy “Zippy” Caplan).

Si conclude il primo lato con la psichedelia stereofonica di The Egyptian.

Parte di corsa I’m So Glad con le solite impressioni elettriche col fuzz-tone che riempiono la stanza di luce.

Seconda e ultima cover degli Who, anche A Legal Matter tiene il passo.

In Rack My Mind si presenta pure un’armonica, ma niente blues o folk music del cazzo, fuzz-tone in funzione e garage incazzato per tre minuti e mezzo.

Soul Searchin’ e Blues One elettrizzano le palle con gaudio. Troppo bravi per essere vero.

Si conclude anche questo giro di giostra, ma per chiudere una chicca: I’m A Man, in una versione veloce, distorta e sporca come non l’avete mai sentita.

Il bello di questi album è che non devi scriverci sopra più di tanto, né ci vuole troppo a convincerti, ti piace il rock? Adori il rumore più sgradevole? Sotto la doccia canti The Witch dei Sonics? Beh, stronzetto, o stronzetta che sia, devi avere questa merda.

  • Pro: è rock gente, che altro volete sapere? Cazzo, certo che con i Pro e i Contro ultimamente sto proprio messo male…
  • Contro: se non ti piace il garage lo terrei lontano due sistemi solari da te.
  • Pezzo Consigliato: le prime tre tracce sono da antologia.
  • Voto: 7/10

Blues Magoos – Psychedelic Lollipop

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I Blues Magoos sono uno dei gruppi (nel bene e nel male) imprescindibili nella storia del rock.

Intanto il loro sound, quell’acid-blues in tinta psichedelica, stupisce ancora oggi per la sua straordinaria maturità (e “commerciabilità”). Se consideriamo band precedenti come gli Electric Prunes o i Chocolate Watchband (che fino al ’67 non pubblicheranno niente) già in “Psychedelic Lollipop”, album d’esordio dei Blues Magoos targato 1966, c’è così tanta consapevolezza psichedelica (concentrata in pochi minuti) da incantare.

Meno estremi dei 13th Floor Elevators, sicuramente meno politici dei Country Joe and the Fish, i Blues erano il risultato della fusione che stava avendo atto a New York, in particolare nel quartiere beat per eccellenza: il Greenwich Village.

Se da una parte c’era il sound garage graffiante e rivoluzionario dei Sonics, dei Kingsmen e altre band giovanili, il Greenwich a metà degli anni ’60 era concentrato a seguire le dispute politiche a suon di mazzate folk tra Phil Ochs, Bob Dylan e Joan Baez. Queste due tendenze opposte trovarono una specie di compromesso nel folk-rock che sorgeva nella grande San Francisco, futura sede delle serate allucinogene che in seguito conquisteranno l’America.

Ecco dunque i Blues Magoos, una band che nasce in un ambiente molto lontano da quello psichedelico californiano, ma che saprà trarre dagli input che li circondava il primo vero successo dell’era psichedelica.

Il fatto che i Magoos siano, per quanto mi riguarda, così fondamentali per comprendere la storia del rock sta proprio nel sound di “Psychedelic Lollipop”, un’avanguardia che senza essere sperimentale ebbe un successo incredibile per l’epoca, e che di fatto aprì le porte alle centinaia di band psichedeliche che sopraggiungessero da lì a pochi mesi.

Se i 13th Floor Elevators sono stati rivalutati a posteriori ovvero quando il primo movimento psichedelico si spense (per evolversi in altro), i Blues Magoos ebbero un effetto immediato che scosse il mondo del rock come pochi altri.

Un errore piuttosto comune è quello di categorizzare la band sull’onda garage, il che a mio avviso è impreciso. Certamente i Blues derivano ANCHE dal garage, ma è quella magica combinazione che scaturisce dal contesto musicale multiforme del Greenwich Village che identifica il loro rock, il quale farà da base a band come Jefferson Airplane e Grateful Dead. Inutile cercargli una targhetta identificativa del cazzo tipo: folk-psychedelic-blues-garage-rock, sarebbe solo uno dei tanti modi per rendere ancora più ridicola la critica rock di quanto già è.

Se c’è una critica reale da muovere verso i Blues, ed è una macchia indelebile, è quella sui contenuti, praticamente inesistenti, che per fortuna verrà presto smacchiata dal resto del movimento psichedelico. È importante leggere con alto tasso critico questa band, perché se la psichedelia viene sdoganata musicalmente con “Psychedelic Lollipop” lo stesso non si può dire per l’aspetto culturale, che si farà breccia con una certa difficoltà nell’America puritana e che esploderà definitivamente grazie ad altre band.

Sempre su questi termini c’è anche da valutare l’immagine dei Blues Magoos, costruita artificialmente con una astuta operazione di marketing, che una volta esaurita la sua carica iniziale soccomberà inevitabilmente nei confronti di chi oltre l’immagine aveva anche dei contenuti.

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L’album si apre con la splendida (We Ain’t Got) Nothin’ Yet, l’allucinato organo elettrico suonato da Ralph Scala ricorda i momenti felici dei Question Mark & The Mysterians, ma siamo già qualche passo avanti nella composizione. Uno dei pezzi garage più pregiati dell’epoca, premiato con un simpatico plagio da parte dei Deep Purple.

Segue una ballad, uno di quei momenti in cui di solito dormo, Love Seems Doomed (ovviamente classica citazione subliminale di “LSD”) ha però alcuni interventi elettronici che impreziosiscono l’ambiente sonoro.

Visto che di blues questi ragazzi ne masticavano non poteva mancare una cover del grande John D. Loudermilk, la sua famosa e ritmica Tobacco Road parte con un blues infernale per poi trasformarsi in una corsa blues-rock, ed infine esplodere in una cacofonia psichedelica che assale l’ascoltatore del 1966 come una bomba atomica esplosa dritta dritta nel cervello. Pochissimi avevano ascoltato ed apprezzato i Red Crayola, forse anche meno i The 13th Floor Elevators, ma a tanti si aprirono le porte della psichedelia grazie ai quattro minuti e mezzo di Tobacco Road.

Ecco il Greenwich Village con la cover di Queen Of My Night di David Blue. Un basso suadente, una voce da juke-box e l’organo allucinato di Scala completano una hit dal sapore antico.

Il lato A si conclude con una grandissima cover: I’ll Go Crazy, del maestro James Brown, che in mano a questi ragazzini diventa un pezzo garage sporco e sudicio alla The Music Machine, piccolo colpo di genio da poco più di un minuto.

Si riprende l’ascolto con un’altra cover, Gotta Get Away anticipa per certi versi il sound dei primi Small Faces, garage ancora una volta, filtrato dal blues e dalla vena beat (intuibile dal testo) del Greenwich. Grandissimo pezzo.

Portentosa Sometimes I Think About, un lento blues strutturato come i migliori pezzi blues rock che in pochi anni verranno allungati nelle live per delle ore, un prototipo questa Sometimes impreziosita dai soliti interventi all’organo di Scala.

One By One si rifà ad una tradizione brit-pop da singoli alla radio, poca roba.

Si torna al blues con Worried Life Blues, bell’attacco con l’organo e la chitarra che fraseggiano sul morbido blues di Big Maceo Merriweather. Ogni tanto il ritmo viene spezzato da delle sferzate garage che durano troppo poco per essere apprezzate a pieno.

Si conclude il giro con She’s Coming Home, un ultima cover non più blues, un veloce pezzo garage rock che però suona un po’ studiato, ma comunque di pregio.

“Psychedelic Lollipop”, se escludiamo il titolo, ha dato poco tecnicamente alla psichedelia, ma è stato l’album che l’ha sdoganata dal suo piccolo giro facendola diventare il principale fenomeno culturale della seconda metà degli anni ’60.

Per il resto i Blues Magoos non riusciranno più a piazzare un colpo come questo, abbastanza credibile il secondo album “Electric Comic Book” (1967) ignobili i successivi.

  • Pro: un album che ha fatto la storia.
  • Contro: se escludiamo due o tre pezzi potete benissimo viverci senza.
  • Pezzo consigliato: la straordinaria cover di Tobacco Road.
  • Voto: 7/10

Franz Ferdinand, Kid Congo and The Pink Monkey Birds, Boards Of Canada, The Dirty Streets

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Ultimamente, ma già da anni in realtà, acquistare dischi originali è diventata una spesa insostenibile.
Personalmente se tutto va bene riesco ad acquistare un album al mese, che non è poi così male perché c’è chi se la passa peggio. Internet aiuta, non solo con il file sharing e i vari peertopeer e lo streaming, ma anche con l’acquisto di album digitali a prezzi estremamente vantaggiosi (parlo chiaramente di band poco conosciute, le altre ti sfondano il culo con la sabbia, dannate rockstar multimiliardarie).

Di recente grazie al ritorno in auge del vinile le mie possibilità di ascoltare tutto quello che passa in giro si sono moltiplicate a dismisura. Non perché costino meno, ma perché posso passare intere giornate dal mio pusher di fiducia a far girare dischi sul piatto senza doverli comprare una volta ascoltati. Mica male, nevvero?

Se escludiamo i Boards of Canada, le altre tre recensioni che seguono sono state possibili grazie a questa pratica, tipica fra l’altro nel gentile mondo del vinile.

Le prime tre recensioni sono tre dischi molto chiacchierati dunque ero davvero curioso di ascoltarli!

Anche stavolta, come nell’unico caso precedente, le recensioni sono moooooolto più corte del solito perché, per quanto mi riguarda, c’è poco da dire.

Franz Ferdinand, “Right Thoughts, Right Words, Right Action: Trovo incomprensibile come si parli ancora di brit-pop. L’invasione, la seconda, è stata qualitativamente assai povera. Il fatto che ci sia ancora gente che crede davvero che gli Oasis siano una buona band non mi sfiora, in fondo c’è chi crede che Fabio Volo sia uno scrittore, che dobbiamo fare? I Ferdinand arrivarono assieme ai Kaiser Chief e i Klaxons, un’invasione di mediocrità salvata da alcune idee interessanti degli ultimi citati. Questo ultimo album prosegue sull’inevitabile discesa della band, cominciata con un pop che strizzava l’occhio a forme prog tascabili, passata con “You Could Have It So Much Better” a sfornare singoli piuttosto appetitosi, e dopo di che il nulla, che ben si conferma con questo ennesimo disco fotocopia (con sempre meno inchiostro). Se vi piacciono può starci, però è un disco terribilmente modesto.

[voto: 4,5/10]

Kid Congo and The Pink Monkey Birds, “Haunted Head”: qui siamo di fronte ad un disco interessante che devo riascoltare con calma. Kid Congo è sinonimo di qualità, è il suono infatti è di qualità, ma lo è anche la musica? Ascoltando “Haunted Head” si rimane affascinati dal gusto dark del garage di Kid, ben studiato, forse troppo. Non c’è la goliardia dei Cramps, o la vivacità di un Return to the Haunted House dei Fleshtones, sembra quasi che l’album si concentri più sull’atmosfera che sul rock, il che sinceramente alla lunga stufa. Il disco comunque va ascoltato essendo una delle proposte più chiacchierate dell’anno (e non da Rolling Stone, tanto per intenderci). Insomma, ditemi un po’ anche voi che ne pensate!

[voto: 5/10]

Boards of Canada, “Tomorrow’s Harvest”: tutti parlano di questo album. Perché? Non ne ho idea in realtà, devo dire che ancora una volta i Boards si confermano tecnicamente (e tutti si stanno facendo i segoni mettendoli in confronto ai Fuck Buttons) però non capisco bene cosa dovrebbero comunicarmi quest’ultimo lavoro. “Leggerezza”, “speranza”, queste sono alcune delle parole utilizzate per descrivere il viaggio musicale accompagnati dai synth dei Boards, però, dannazione, che noia. I nostri sono tempi piuttosto complessi, pieni di tensioni internazionali, disgregazione sociale, la crisi economica, le rivoluzioni, invece per i Boards i problemi sembrano essere altri, anzi: non ne esistono proprio. Questo è un album per viaggiare forse al di là dell’ansia esistenziale del 2013, peccato che se davvero fosse così allora i toni dovrebbero essere più “allegri”, se invece fosse un viaggio più introspettivo un po’ più gravi e meno pop. Sinceramente i Boards of Canada, per quanto mi riguarda, fanno una musica simpaticamente estetica, ma nulla più.

[voto: 6/10]

The Dirty Streets, “Blade Of Grass”: sì! Questo è un buon acquisto! Tranquilli, è la cosa più lontana dal capolavoro che possiate immaginare, però è roba buona, autentica, senza pretese. Vi ricordate quelle fighette degli Answer? Band hard-rock-revival vestita come una cover band dei Deep Purple infighettati oltremodo (praticamente il male)? Bene, questi sono l’opposto, anche se fanno la stessa merda. Però gente, questa è merda di qualità, hard rock anni ’70 fatto bene, pochi cazzi. Undici pezzi a fuoco, nessuna pausa, nessuna melodia melensa (oddio, una in realtà ci sarebbe…), ovviamente se non vi piace il rock auto-referenziale e per fare le pulizie di casa ascoltate i Faust, allora questo album non fa per voi (insomma: uomo avvertito…).

[voto: 6/10]

Una piccola postfazione sul voto.
In alto troverete una pagina “la guida ai voti” dove spiego con che metro giudico gli album, in questo caso però vorrei specificare la diversità delle due sufficienze tra i Boards of Canada e i The Dirty Streets. I primi hanno una buona tecnica, sono musicisti proiettati verso il futuro mentre i Dirty rimembrano ancora con una certa nostalgia quei ’70 andati perduti. Però, come detto nella breve recensione, i Boards sfruttano questa tecnica senza dargli una direzione concettuale, è musica prettamente estetica, che ha poco a che fare con l’argomento principe di questo blog: il rock. I Dirty invece rockeggiano a tutto spiano, peccato che siano fuori tempo.

Due 6, ma con significati e valori piuttosto diversi.

Ipotonix – Storie di un mondo a-parte

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Dopo un mese di balli latino-americani e discoteche all’aperto con folle adoranti il Casto Divo tutti abbiamo bisogno di spurgarci con del sano rock.
O di bestemmiare, dipende dalla sensibilità.

Comunque tra una birra e l’altra ho avuto modo di ascoltare un po’ di roba a giro, tra cui questi Ipotonix.

“Storie di un mondo a-parte” oltre ad essere il titolo del loro primo EP uscito quest’anno è anche il manifesto involontario di un modo di fare rock. Sì perché il rock inteso come comunità in Italia è un po’ un tabù, così è più facile rifugiarsi in un mondo a-parte, un altrove dove i nostri suoni e le nostre passioni si esprimono sorde a tutto quello che ci circonda.

Eppure il rock è emanazione del suo tempo, dei suoi moti, delle sue speranze e anche delle sue focose e futili espressioni sociali. Cazzo, i Velvet Underground rappresentavano una intera comunità underground, gli MC5 addirittura politica, è impossibile scindere i White Stripes da Detroit come è impossibile slegare Nick Cave dalla poesia contemporanea americana.

In Italia questo è più difficile da percepire anche se con le tecnologie di cui oggi disponiamo non è più un alibi. Fin da subito abbiamo scopiazzato le impressioni musicali che ci arrivavano dagli USA attraverso l’Inghilterra (con notevole ritardo), però un minimo di contesto, diocristosantissimo, glielo vogliamo dare?

Gli Ipotonix non fanno eccezione, convergendo in sé molte caratteristiche del brit-pop/rock di ultima generazione (più Radiohead che Klaxons, più Gotye che Franz Ferdinand). Il loro primo EP è composto da impressioni che hanno il valore di essere unite da un sound ben preciso, il quale però non è contestualizzabile (porcodemonio!).

Molti sostengono che l’unicità sia un elemento positivo per l’arte, ma è chiaro che questi “molti” si drogano dalla mattina alla sera di UnoMattina e X-Factor, bevono TG1 a colazione e hanno un poster di Pippo Baudo in topless sopra il letto.

L’opera d’Arte non assume il suo valore specifico nell’unicità (nemmeno come elemento in sé, come ci insegna la Pop-art) ma nel contesto con cui dialoga. Essendo l’Arte comunicazione deve saper comunicare in un linguaggio comprensibile, o quantomeno deve contenere una chiave di lettura che ne permetta la decifrazione.

Il rock è una forma di comunicazione più bassa dell’Arte quindi i suoi elementi di lettura sono molto più limitati, essi in seguito possono anche essere spezzati e creare una diversa idea di rock, la quale però potrebbe potenzialmente rivelarsi in antitesi con il concetto di rock stesso – sì, ora la finisco di farmi le seghe.

Gli Ipotonix in questo senso non fanno rock, ma un riflesso di esso.

Se gli strumenti ci sono tutti e le strutture sono quelle manca però la forza di collante sociale o di rottura che contraddistingue questo genere che vive solo di estremi.

Il Teatro Degli Orrori propone un rock già sentito nel secondo hardcore e quindi ha perso essenzialmente il treno con il momento storico in cui quella musica aveva un motivo preciso per esistere, in pratica è una imitazione di rock.
I Fleshtones, sebbene facessero revival, lo contestualizzavano e finirono per definirsi super rock perché sapevano di aver iconizzato il rock delle origini come nessuno prima di loro aveva mai fatto.

Fare rock non è semplicemente prendere una chitarra in mano, entri all’interno di una comunità che ha una storia breve ma densa di eventi fondamentali. Puoi farne parte (Fleshtones) o anche rinnegarla (il punk) ma non puoi esprimerti a-parte, perché se no non riuscirai mai a comunicare quello che credi sia importante che gli altri ascoltino.

Ovviamente se vivessimo in un mondo dove la gente non compra quello che le major impongono sarebbe meglio, ma questo non fa che nobilitare ancora di più chi fa rock davvero, senza compromessi.

Ah, già, gli Ipotonix, la recensione, eccetera eccetera, come sono sbadato, se continuo così entro la fine dell’articolo sarò cieco.

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Guidati dalla voce e dal sintetizzatore di Davide Orsi gli Ipotonix si muovo attorno ai Radiohead e ad impressioni che derivano perlopiù dal soft rock britannico degli anni ’70. Il sound a tratti ci appare in effetti un po’ ammuffito ma non così tanto da farci desiderare delle scimmie di mare per natale, il synth spazia sfiorando momenti jazz quasi alla Sun Araw o quasi industrial alla Fuck Buttons (senza ovviamente la loro vena dark e noise), peccato che con i “quasi” non si combina poi molto.

L’EP si apre con il ritmo serrato ci City Line – Primo incontro, uno strumentale che rivisita le atmosfere del primo Mike Oldfield. Una traccia che, va detto, è piuttosto notevole per una prima demo.

Segue Reazione Chimica, un pezzo che D.Orsi ha perfezionato nel corso degli anni, qui entra in gioco la voce ma sopratutto il sax di Marco Marotta, il sound complessivo risulta come una specie di inedito brit-pop-jazz.

Supertramp non ha nulla della famosa band inglese, una accozzaglia di idee appiccicate una dopo l’altra dalle quali si esce piuttosto storditi. Il momento più basso dell’EP.

Naturale Coscienza di Sè sembra una cover dei Radiohead col sax.

Si riprende con City Line – Secondo incontro, e della prima parte resta solo il sound perché le atmosfere si fanno più scure, richiamando ai momenti più felici di Moroder; un taglio a tratti epico, poi manierista ma senza masturbazione. City Line in realtà nasce come un pezzo unico, ma questa divisione ne accentua i cambi di tono e i diversi mood, in assoluto i due pezzi pregiati dell’EP.

Si conclude con una cover: Missing Pieces di Jack White. Stentano quasi tutti in realtà, ma le sferzate garage della chitarra di Giuseppe Taormina valgono il prezzo dell’EP (e ricordano i wall of sound dei Thee American Revolution).

Cosa ci rimane alla fine dell’ascolto?
Buona musica (City Line), buone idee (Reazione Chimica), un po’ di confusione dovuta all’inesperienza (Supertramp) ma manca l’anima, la forza sciamanica che ti fa alzare dalla sedia completamente posseduto dal demone del rock, che ti fa spaccare sedie e desiderare che ci sia ancora altra birra in frigo.

È anche vero che con queste basi si mescolasse anche un po’ di sano rock allora… beh, allora sarebbero cazzi.

  • Pro: per essere una band nata da così poco hanno già un bel affiatamento.
  • Contro: ma che genere è? Non saprei proprio a chi consigliarlo!
  • Pezzo consigliato: le due City Line sono un lusso per questo EP, che senza sarebbe stato anche da 3,5/10.
  • Voto: 5,5/10

Ultime considerazioni:
mi sembra dovuto, almeno per onestà intellettuale, farvi partecipi della mia microscopica partecipazione alla realizzazione di questo EP, avendone curato una sorta di “post-produzione” (per la quale, difatti, compaio nei ringraziamenti). Ovviamente ciò non ha in alcun modo interferito con la recensione, tanto che a Davide ne ho mandata una diversa, mentre qui ne pubblico un’altra. Che fottuto bastardo, eh?

Ty Segall – Sleeper

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Sono di quelli che ama il fatto che la musica sia così varia da trovar appassionati a qualunque sua declinazione.

Non mi stanno sulle palle i fan di macchiette come i Tokyo Hotel, tanto meno quelli che hanno la fissa per David Bowie, quelli che amano solo la techno, quelli che si masturbano sulla dub-step o che credono che il rock inizi e finisca con i Led Zeppelin. La musica ha il potere di unire tutti, cazzo, perché pestarci i piedi a vicenda? C’è spazio per tutti.

Però odio i detentori dell’assolutismo nel rock.
Il rock è una creatura semplice, senza pretese di alcun genere, semplice da suonare come da capire. Tutte quelle variazioni che essenzialmente vengono meno alla sua idea di autenticità, democrazia del linguaggio e forte empatia per me sono interessanti, ma non sono rock. Sono un purista di merda, pazienza, come dicevo prima: c’è spazio per tutti in questo Fango che ci ostiniamo a chiamare Terra.

Vedete, è inutile riempire le pagine di critica musicale (parlo ovviamente a quei giornali che dovrebbero trattare di rock) con le menate dei Fuck Buttons, o sul secondo album di David Lynch, o sull’ennesima prova da maestro di Roy Harper, ogni album merita almeno un 6 perché ci sono delle dannate chitarre elettriche o perché ha qualche stupida pretesa intellettuale che oggi va tanto di moda.

I The Litter non ne avevano di pretese e restano molto fighi, stesso per i Sonics, gli Stooges, insomma tutte quelle band che hanno fatto rock con l’anima e una mano sul cazzo, quel rock che ti fa sentire vivo. Chi più chi meno.

Ty Segall dopo cinquemila dischi, trenta band e otto miliardi di concerti si è capito essere un rocker che fa parte di questo bel imprinting, un sano garage con vampate di portentosi feedback come mai si erano percepiti da un dannato pezzo di plastica nero su un piatto girevole.

Se il mondo girasse per il verso giusto i suoi album sarebbero attesi da molta più gente di quella che aspetta la nuova cagata dagli spompati Franz Ferdinand, o addirittura la nuova fatica dei Travis!

Dopo un anno dove il rumore ha fatto da padrone (“Slaughterhouse”) e si è perfezionato come purezza del suono e nella composizione (“Twins”) Segall cambia tono. Succede quando ti muore un genitore, un padre, che la vita per attimo cambi di tono.

Il resto dei musicisti rock di grido si dividono tra indifferenza totale e menate intellettualoidi. Segall semplicemente cambia tono, resta il sound (anche se acustico e non elettrico), resta l’acido e il garage da borghese impigrito, ma ci fa percepire quel cambiamento così intimo senza lagnarsi per sessanta minuti su quanto la vita faccia cagare. Si chiama rock, comunque.

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Sleeper” non vale un laccio delle mie scarpe, non è un capolavoro, probabilmente avrete seicento dischi migliori di questo in casa, ma le dieci tracce di questo album sono di un rock autentico, uno che così oggi lo fa solo lui e pochi altri prescelti.

Ovviamente siamo lontani da album come “The Sun Dogs” dei Rose Windows, forse uno dei capolavori usciti quest’anno, ma nemmeno un “Here Come The Sonics!!!” è un capolavoro, eppure è il mio album rock preferito, come la mettiamo? Fare un buon rock non significa mai fare per forza della musica di un certo livello, significa semplicemente aderire a quei principi di autenticità, democrazia del linguaggio e empatia. È così semplice che ogni anno usciranno sì e no cinque album che rispettano a pieno questi principi, ma per me sono davvero ROCK.

Anche stavolta Segall va a segno, un suono acido ci accompagna per tutto l’album, sferzate acustiche semplici ma potenti, litanie garage di pregiatissima fattura (quello che mi aspettavo da “MCII” di Cronin, che sebbene lustrato a lucido dai critici sordi fa cagare oltre ogni diritto di replica) dieci melodie perfette, un cazzo di piccolo fabbricante di pillole musicali micidiali, un tale orecchio malato è solo da acclamare onestamente.

Sì, non fa lunghe suite da dieci ore, non parla di Bush, non ha violoncelli, sitar o clavicembali, fa solo delle dannate canzoni da tre minuti ciascuna, adesso che pure in Italia ci sono band di spessore (La Piramide Di Sangue, Squadra Omega, In Zaire e via dicendo) un disco così può sembrare banale come l’ennesimo album inutile dei Gogol Bordello, ma qui c’è roba autentica, roba suonata con una passione palpabile che le band da classifica si sognano la notte.

Se il rock è la vostra ragione di vita non potete non avere tutti gli album di questo idiota californiano. Insieme a quelli dei Thee Oh Sees, se possibile.

E sì, la recensione è corta, perché di fronte ad album così c’è solo da stapparsi una birra assieme a qualche amico, farsi due risate e chiacchierandoci sopra, niente cervello, nessuna pretesa, solo del semplice e mai innocuo rock.

  • Pro: se non lo avete capito dopo tutto quello che ho scritto…
  • Contro: preferisco il Segall che mi prende a schiaffi a suon di feedback lancinanti registrati probabilmente in cucina mentre frulla delle viti d’acciaio. Ma tanto tra due mesi questo mette su una band e lo fa davvero.
  • Pezzo consigliato: Sleeper.
  • Voto: 6,5/10