Pere Ubu – Dub Housing

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Quando nel 1896 Alfred Jarry si presentò al Théâtre de l’Œuvre di Parigi sapeva bene quali sarebbero state le reazioni al suo Ubu Roi. Sdegno, orrore, disgusto e scandalo, non necessariamente in quest’ordine. A Jarry non interessava rivoluzionare il teatro a questo ci pensavano gli altri. A Parigi era già passato Ludwig Chronegk con la sua compagnia di Sax Meiningen e soli nove anni prima della pièce di Jarry tra i punti di riferimento rivoluzionari per il teatro c’era il Théâtre Libre di André Antoine.

Chronegk e Antoine sono due seri e colti protagonisti del nuovo teatro naturalista (più il secondo in realtà) nato sotto l’egida di Émile Zola, la grande rivalsa intellettuale della borghesia, l’inizio di un nuovo modo di vedere la realtà, e di tutto ciò a Jarry non poteva fregare di meno.

Quando nel 1975 i Pere Ubu nascono dalle ceneri dei Rocket From The Tombs siamo negli anni d’oro della disco music. Mamma Mia, singolo del terzo album degli ABBA, spopola in tutto il globo, gli Earth, Wind & Fire si auto-celebrano con una live che prende il nome di un loro successo “Gratitude”, tra i dischi più ballati in discoteca c’è il secondo album dei K.C. and The Sunshine Band. Il rock dichiaratamente estetico trova la sua definitiva consacrazione in “Alive!” dei Kiss, ma dove sono i veri rockettari?

Era l’anno delle seghe mentali, dal kraut-rock dei Neu! all’ambient di Brain Eno, fino allo sconvolgente e improbabile “Metal Machine Music” di Lou Reed, in classifica compariva soltanto il soft rock dei Pink Floyd, mentre gli Henry Cow pubblicavano il loro capolavoro. La rivoluzione ambient era agli albori, gli altri miti erano Queen, Journey e Springsteen, e di tutto ciò ai Pere Ubu non poteva fregare di meno.

Ciò che lega Jarry ai Pere Ubu non è solamente il nome del protagonista dell’Ubu Roi (Père Ubu, ovvero Padre Ubu) , ma è uno stile di vita e una genialità fuori dagli schemi usuali. Chi dice che la grande Arte è tale perché universalmente comprensibile oltre a dire una scemenza non può assolutamente capire queste due entità che proprio dell’incomprensione e della incomunicabilità fecero un’Arte tra le più universali di tutte.

Recensire i Pere Ubu è un compito difficile perché il contesto socio-culturale che gli appartiene si ingrandisce di anno in anno in maniera indiretta, ovvero tramite una progressiva oggettivazione della storia della musica. In pratica più il tempo passa e più le tematiche legate agli album dei Pere Ubu diventano chiare e fungono da imprescindibile chiave di lettura per gli anni ’70.

Quando si parla di questa band, almeno per quel che concerne i primi album, è quanto mai limitativo parlare semplicemente di rock. La new wave (il movimento a cui generalmente vengono legati i Pere Ubu) ha le sue fondamenta in “Marquee Moon” dei Television e “Blank Generation” di Richard Hell & The Voidois, ma quanto di quelle fondamenta è presente nei Pere Ubu? Assolutamente tutto, ma immerso e diluito in tanto altro.

Il problema che di solito si incontra nel parlare di questa band è nel descrivere la loro musica a parole senza risultare dannatamente criptici. Chiaramente col primo paragrafo di questa recensione mi sono giocato il 99% dei visitatori casuali o di chi voleva semplicemente “quella cazzo di recensione!” ma mi sta bene, perché dell’Arte o se ne parla in maniera esauriente o è meglio stare zitti.

Di cosa parlano i Pere Ubu?
Prima di tutto dobbiamo capire che più che raccontare qualcosa i Pere Ubu esprimono qualcosa. Quello che ne esce fuori è la vera blank generation, quella che Richard Hell ci svela con una formula semplicemente punk i Pere Ubu riescono a farcela vivere con espedienti che si avvalgono di una esecuzione “teatrale” del loro essere punk, uno spettacolo uditivo non dissimile da una pièce teatrale radiofonica.

Quando un critico etichetta una band art-rock, art-punk o cose così, di solito sta a significare che non c’ha capito un cazzo di quello che ha ascoltato, ma gli è piaciuto. In questo caso art-punk è una denominazione perfetta, se non l’unica, che possiamo affibbiare a questa band.

I suoni industriali e post-apocalittici che pervadono i primi album dei Pere Ubu sono pennellate che colgono gli aspetti più introversi del nichilismo giovanile a metà degli anni ’70; se il punk è un’arte naturalista che punta a rappresentare in modo scientifico l’età industriale (vedi il sound sporco della Detroit di MC5 e Stooges) e il disagio adolescenziale (Sex Pistols, Clash, Richard Hell, etc.) quello che fanno i Pere Ubu è descrivere l’universale partendo dalle piccole impressioni vicine al particolare.

Non vorrei che qualcuno leggendo pensasse che uso dei giri di parole solo per masturbarmi mentre mi rileggo, per evitarlo sintetizzo quanto detto affermando che i Pere Ubu sono difficili da approcciare perché il loro sound è piuttosto peculiare e unico, ma essendo l’eccezione ad un panorama musicale già delineato sono anche quelli che propongono un nuovo punto di vista grazie al quale possiamo comprendere fino in fondo il quadro generale.
Questa aura ermetica che avvolge i Pere Ubu è la stessa che immergeva Jarry e la sua Patafisica, una corrente di pensiero che non a caso sarà molto cara alla band.

I rumori fastidiosi, i suoni acidi e il nervosismo che pervade le prime opere della band americana altro non sono che la trascrizione in partitura delle paranoie mentali che ben si sposano delle volte con un certo senso di inconcludenza.
Si può tranquillamente affermare che i più onesti cantori dell’era moderna sono proprio i Pere Ubu.

Ma ora è meglio se passiamo alla recensione vera e propria.

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Recensisco “Dub Housing” (1978) non perché sia il miglior disco dei Pere Ubu (anche i sassi sanno che il loro primo album, “The Modern Dance”, è inarrivabile) ma perché è l’album a cui sono più affezionato.
Sì, sono un cazzone, portate pazienza.

Quella che considero la migliore e sintetica descrizione di questo capolavoro assoluto del rock è la seguente:

Lo stile straordinariamente vivo di colore e di metafora, inzeppato di allusioni e trasposizioni culturalistiche, impastato di terminologie classiche o rare, come di parole di un gergo […] provinciale, per quanto di una costante acutezza e finezza, rivela, a contrasto, una sorta di voluta atonalità, come di un discorso costantemente tenuto sulla corda più tesa, prossima a spezzarsi.

Queste parole non sono di un esperto musicologo o di un critico di Blow Up, le ho tratte da una straordinaria introduzione scritta da Sergio Solmi (notevole poeta e grandissimo saggista particolarmente legato a Leopardi) al testo teatrale dell’Ubu Roi di Jarry. Mentre leggevo in treno questo passaggio non mi sovvenne nulla, ma ascoltando quello stesso giorno “Dub Housing” mi resi conto che l’humus non era poi così diverso da quello dei pazzi testi recitati da David Thomas, dalle finezze di Tony Maimone al basso, dallo spezzettato e nervoso lavoro al synth di Allen Ravenstine (il vero protagonista di questo secondo album dei Pere Ubu).

Si comincia con Navvy, forte del ritmo serrato della batteria di Scott Krauss mentre Dave Thomas interpreta un ragazzo che ciondola scomposto e che di tanto in tanto urla un “libertà!”, i nervosi interventi di Ravenstine sono semplicemente geniali, il pezzo in sé è un classico imprescindibile.

Dal dialogo tra il basso di Maimone e un giro di synth pregiatissimo veniamo introdotti in On The Surface, quasi un pezzo surf rock ma pregno della nevrosi che caratterizza l’album, il filo teso sempre in procinto di spezzarsi tra festosità e nevrosi totale è un must ricorrente nel sound di molti dei primi pezzi dei Pere Ubu.

Dub Housing esprime e racconta i suoni e le sensazioni della band durante la registrazione di questo album in questa abitazione residenziale nella quale vivevano. Se vogliamo potremmo un sintetico manifesto di questo secondo disco.

Caligari’s Mirror fa della dicotomia tra festosità e nevrosi il suo sound. Il testo tra il parodico e il grottesco fa riferimento ad un certo specchio di Caligari, probabilmente si tratta di un gioco, più precisamente di una deformazione, quella da Calibano a Caligari (uniti entrambi da diverse accezioni di grottesco), in questo modo la band citerebbe lo specchio in cui Calibano non accetta la sua natura mostruosa ne La Tempesta di Shakespeare* e avrebbe anche maggior senso contestualizzato col resto del testo (la deformazione di citazioni shakespeariane è il fulcro di gran parte dell’opera di Jarry).

Thriller! è una gemma di angoscianti impressioni sonore da vero film di serie B dell’horror, un momento anarchico che sembra uscire da alcuni dei passaggi più angosciosi di Sysyphus di Richard Wright (lo so, è quantomeno azzardato in termini strettamente musicali come paragone) ma se Wright in “Ummagumma” sperimenta seguendo fedelmente le orme del maestro John Cage, i Pere Ubu invece disegnano un quadro paranoico fatto di suoni legati alla modernità alquanto “avanguardistico”, l’angoscia è voluta e ricercata con accuratezza.

Il lato B si apre con le visioni nonsense di Thomas seguite da un rock de-strutturato alla Captain Beefheart, la sinergia tra i membri della band in questa I, Will Wait è davvero spettacolare.

Su questo tenore anche la successiva Drinking Wine Spodyody, un’orgia sconclusionata magistralmente eseguita.

(Pa) Ubu Dance Party ancora una volta è in equilibrio tra un vero e proprio party e un sound più “industriale”, è anzi il pezzo che sviluppa maggiormente questo dialogo con un riff surf-rock e una coda che è un crescendo nevrotico disarmonico.

Blow Daddy-o è un breve divertissement con il synth che si ripete come in un loop accompagnato da brevi e veloci fraseggi degli altri strumenti. Non c’è un vero inizio né una vera fine. Nel titolo “daddy-o” si riferisce ad uno slang che purtroppo si può ricondurre a molte cose, in questo caso credo sia al dispregiativo che si affibbia a chi è più vecchio di te ed è anche un po’ rompicazzo.

Le prime note di Codex ci trasportano in uno scenario post-apocalittico, Thomas esprime in modo sublime lo scorrere lento e inesorabile del tempo nella mente:
I think about you all the time
step after step
block after block
laconico ma esaustivo. Le ultime note in coda suonano come mai definitive, l’unico modo con cui poteva concludersi ”Dub Housing”.

Questa recensione è stata per me necessaria, ovviamente non esaurisce in alcun modo la questione Pere Ubu, e forse non avvicinerà nessuno a questo splendido album. Questo perché è davvero lunga, pesante e a tratti semplicemente scritta da cani, ma non mi sarei sforzato tanto se non ne valeva pena.

“Dub Housing” è uno dei capolavori del rock, della musica e non mi sento un’idiota ad asserire che lo è anche dell’Arte in generale.

  • Voto: 8,5/10

UN CONSIGLIO:
in Italia è stata prodotta probabilmente la miglior versione in vinile di questo disco. È della Get Back, sfortunata etichetta toscana legata principalmente al garage rock, la quale ha avuto la straordinaria possibilità di incidere dai nastri originali dei Pere Ubu. Con questa edizione possiamo assaporare il fantastico lavoro ingegneristico che Ken Hamann fece per rendere giustizia alla complessità sonora della band. Se la trovate acquistatela senza esitazioni. Ah, tranquilli, non sono ammanicato, quando la Get Back ha chiuso i battenti non avevo neanche diciotto anni.

[i Pro e i Contro non sono presenti alla fine di questa recensione perché credo di essere stato esauriente, quindi sì: pecco di presunzione e non è una novità]

*lo specchio di cui parlo non è nel testo originale, ma è una figura ormai legata al Calibano shakespeariano. L’iconografia di questo celebre specchio è stata introdotta nell’edizione del 1891 del romanzo Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Entrata nell’immaginario collettivo (per ben ovvi motivi) la figura di Calibano e il suo specchio sono quasi inseparabili.

11 pensieri riguardo “Pere Ubu – Dub Housing”

  1. grazie per aver colmato una mia lacuna circa caligari’s mirror. mai letto scecspir.
    sono d’accordissimo con quanto da te espresso ma io sento, nelle loro note, anche una sorta di universalità. che trascende un po’ tutto il discorso “mode” e “andazzo” della musica.
    sicuramente si richiamano al teatro, ma penso più nei loro spettacoli dal vivo che nei loro album (oddio io non ho ancora avuto la fortuna di ascoltare tutto tutto, ho i primi fino a worlds in collision e why i hate a women). e il teatro secondo il mio punto di vista è legato, per il loro modo di fare musica, all’improvvisazione. non è un caso che Thomas si metterà con due pale boys a fare altro.
    comunque quello che volevo dire è che la loro musica diventa “universale” nel senso che va al di là di un bel po’ di cose ed è per questo che diventa immortale.
    e non sfigura il disco se posto accanto a grandi opere letterarie, figurative, eccetera.

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    1. Intanto grazie per il commento.
      Su Caligari’s Mirror ho voluto dare questa mia personale interpretazione, sostenuta se non altro dal background culturale della band, sono contento che ti sia piaciuta!

      Come giustamente mi fai notare l’aspetto del teatro nei Pere Ubu si concentra nell’esibizione live, ma il suo principale sviluppatore, David Thomas, già nel particolare rapporto tra testo e cantato mette in scena un personaggio in ogni traccia (delineato un’ottantina d’anni prima nel Padre Ubu dell’Ubu Roi), con le sue nevrosi, i suoi sbalzi d’umore.

      Sull’universalità della loro musica non posso che sostenerti, sono stati la rock band che meglio è riuscita a interpretare la loro generazione, ma senza costringerla in eventi precisi o proteste di ampio respiro, in questo modo sono riusciti senz’altro ad universalizzare le loro ansie, le loro paure, le loro paranoie, delineate sempre con un velo di ironia.

      I loro primi due album davvero non sfigurano nell’arte in generale, la musica eccelsa, i testi oscuri ed evocativi, le immagini che sovvengono dai rumori e dalle nevrosi degli strumenti e della voce sono tra le più belle e profonde della storia del rock.

      Cazzo, non li fanno mica più album così!

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  2. perdona il “ritardo”…
    volevo aggiungere, o specificare, che l’aspetto più importante della loro musica è che tutto suona perfettamente “primitivo”, ma ad un aascolto attento ci s’accorge che è stato costruito a tavolino.
    una roba sublime ed incredibile già solo per questo

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    1. Personalmente ogni volta che mi metto a parlare con qualcuno dei Pere Ubu potrei andare avanti per giorni. Ma non come quelli che parlando della propria band “del cuore” (urgh!) rompendo i coglioni su quanto virtuoso sia il chitarrista, quanto sia potente il cantante e quanto pesti come un pescatore sardo il batterista, sui Pere Ubu si apre sempre un mondo che spesso travalica la band in sé.

      L’aspetto del “primitivismo” è un po’ il must dell’epoca, pensa che è ’78 il primo album dei Devo(lution)! Che poi è quello che rende il rock sempre nuovo, ispirarsi al vecchio ma con idee diverse e sopratutto guardando bene al presente.

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  3. ok, ora mi è venuta la frase giusta per spiegare quello che volevo dire prima: ad un ascolto superficiale sembra che i pere ubu “suonino” così perché “improvvisano”.
    invece (almeno io “sento” così) ad un ascolto attento s’intuisce che ogni nota sia stata studiata e calibrata per sembrare improvvisata, parte di un qualcosa appunto di improvviso ed inaspettato (baccanale primitivo).
    ci sono due considerazioni divertenti da fare per questo.
    la prima: sono più che “musicisti, artisti. nel senso che usano la musica come un mezzo e non come un fine (e rispondo a te e alle band preferite).
    la seconda: stando alle stesse dichiarazioni di Thomas (almeno io ho letto una sua intervista tradotta quindi spero che sia vero) quando registrarono modern dance chiesero quanto minutaggio potesse contenere un disco nel ’78. ottenuta la risposta (mi pare fosse 35 minuti e qualche secondo) composero musica esattamente per riempire il disco. e quindi (ecco la seconda considerazione) c’hanno preso elegantemente per i fondelli.
    ed è forse vero stando ad humor me messa lì in fondo che incede come un bel valzerino dicendo che sì è tutto uno scherzo, un joke.

    vai tranquillo a parlare quanto ti pare. grazie ai pere ubu ho inteso un nuovo modo di concepire la musica.

    PS
    i pescatori sardi sono quelli più tosti?

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    1. Ridendo e scherzando va a finire che la faccio fare a te la recensione di “The Modern Dance”, dato che ho un certo timore reverenziale sulle opere di questo livello (ho ancora in serbo recensioni di Pop Group, Television e Beefheart, ma chissà se le riterrò mai abbastanza adeguate per poterle pubblicare senza pentirmene due istanti dopo!).

      Quello che dici sulla “improvvisazione controllata” è verissimo ed è una chiave di lettura fondamentale per comprendere i Pere Ubu senza subirli passivamente.

      Nessun suono, nessuna stonatura, nemmeno i rumori, niente è mai fuori dal controllo della band, il che data la natura schizofrenica della loro musica è incredibile. Un risultato non troppo diverso dal rock de-strutturato alla “Trout Mask Replica” di beefheartiana memoria (anche se le premesse e i risultati sono diversi, lo specifico non perché penso che ci sia qualcuno a cui questo sfugga, ma perché i talebani del web sono pronti a gambizzarti al primo accenno di sgarro).

      E inoltre, da bravi rocker quali erano, ci prendevano pure per il culo, chiaramente, e noi genuflessi ad adorarli, come è giusto che sia.

      P.S.:i pescatori sardi pescano il pescespada a mani nude, senza nemmeno tirar fuori un guanto da sfida.
      (oddio, che battuta indecente…)

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  4. la tua è una proposta o una battuta indecente (riguardo alla recensione di the modern dance)?

    no guarda a me piace parlare delle cose che mi piacciono ed è raro incontrare, anche virtualmente, qualcuno che trova interessante le stesse robe mie. vivo in un posto piccolissimo quindi ti lascio immaginare quanto poco sia possibile parlare di “pere ubu” con qualcuno.

    non voglio fare il saccente o il presuntuoso sia chiaro e lungi da me voler passare per tale. mi limito a scambiare opinioni e pareri. un po’ per riconfermare il senso delle mie impressioni sulla musica e un po’ per apprendere altri punti di vista.

    a questo proposito, fregandomene dei talebani/partigiani del web (sono libero di pensare quello che voglio sui bitols? a me non piacciono e li reputo sopravvalutati. scaruffi? penso sia aiutato da qualcuno perché non può aver ascoltato tutti quei dischi. lo ha fatto? beato lui. io in 30 anni ne avrò ascoltati un migliaio. forse lo fa solo superficialmente, chi lo sa… ma chissenefrega! grazie a scaruffi ho conosciuto tanta pazza gente capace di sbalordirmi!), voglio dirti che trout mask e modern dance sono diversi.
    trout mask replica è caos, pura improvvisazione, un modo diverso di far ascoltare la musica.
    modern dance è costruito a tavolino, un grande affresco universale.
    il valore dei due album è indiscutibile.
    trout apre scenari inimmaginabili sotto ogni punto di vista “filosofico”, ma non lo dichiara apertamente nelle sue note intendo (magari quei frikkettoni volevano proprio far questo ma non c’ho avuto modo di parlare per chiarire)
    modern dance si “limita” (magari si limitassero tutti così) a coniugare parole e musica (ogni canzone può avere solo quelle parole scelte e quella linea vocale, mai sono riuscito ad immaginarmele diversamente) per descrivere il mondo. l’alienazione moderna dell’individuo (le macchine sono sempre presenti ma è più un discorso che va oltre le considerazioni marxiste del caso), la società, le nevrosi e le paure di un qualcosa di purtroppo ancora attuale.
    per me modern dance sta sopra a trout mask anche per questo. perché è una dichiarazione d’intenti, pienamente riuscita.
    e percepibile!!!
    non è vero che l’arte deve essere universale e “capibile” da tutti. non sono quelli i “geni”. perché forse quel ceh dice einstein è comprensibile a tutti? non credo.
    uno usa il mezzo che vuole, sta a noi fruirne o meno.
    quindi per me sì, i pere ubu sono stati e sono dei geni

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    1. Speravo che tirando in ballo “Trout Mask Replica” ne sarebbe uscito fuori qualcosa di interessante. Se vuoi sapere la mia in merito ho pubblicato proprio oggi la recensione.

      Un paio di considerazioni:

      – Vivo in un paesello toscano dove per underground intendono i Fran Ferdinand (quei due che li conoscono, per il resto c’è solo boy band), proprio per questo ho creato questo piccolo spazio nel web, per poter parlare con qualcuno che non sia il mio spacciatore di dischi ormai settantenne.

      – Fai bene a fregartene dei talebani del web, però ti dico per esperienza personale che ritrovarsi un blog pieno dei loro insulti è snervante, e alla lunga provoca l’ulcera (motivo per cui in questo blog riempio ogni post di precisazioni altrimenti inutili).

      – Per me la dichiarazione di intenti di TMR è superiore a quella di “The Modern Dance”. Beefheart punta a creare una musica che controlla solo lui e che travalica gli intenti e le capacità dei suoi straordinari musicisti, mentre i Pere Ubu, sebbene trattino tematiche universali come abbiamo già detto, sono comunque legati a qualcosa di terreno.

      Ovviamente qui la questione si divide, se è più rilevante una riflessione che mina alla scomposizione musicale e concettuale del rock, o una sua maggiore inflessione verso l’espressione del disagio interiore nell’epoca moderna.

      E poi cazzo, mi hai fatto scendere una lacrimuccia a: “non è vero che l’arte deve essere universale e “capibile” da tutti”, è quello che cerco di fare entrare nella testa dei talebani dell’arte in generale da anni senza successo. Se ti va leggiti la mia disamina sui Beatles, che verte principalmente su una riflessione sul valore dell’arte e della sua comprensione profonda e non superficiale.

      (naturalmente era una battuta indecente, per quanto mi auto-convinca di essere spiritoso mi sto progressivamente rendendo conto che le poche volte che accade sono ubriaco)

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  5. uuuuuuh non vedo l’ora di leggere di trout.
    i bitols già letta, e pure scaruffi. piano piano leggo non ti preoccupare e recupero.
    ho dimenticato di sottolineare che “per me” valgono dippiù i pere. perché musicalmente e tematicamente li sento vicini.
    trout sfascia lo sfasciabile

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