È la prima volta che torno su una recensione ma non sarà di certo l’ultima.
“Tomorrow’s Harvest” è considerato quasi all’unanimità come uno degli album più belli di questo 2013. Quando l’ho recensito a Settembre (trattandolo malino e dandogli un simpatico 6/10) era uscito da credo meno di un mese, ma dato che tutti me ne avevano parlato con toni decisamente entusiastici l’avevo comprato in tempi record.
A me l’elettronica non mi ha mai fatto impazzire, questo è vero, in generale sono rimasto un po’ indietro almeno con i punti di riferimento. I miei album preferiti sono quelli di Schulze e dei Tangerine Dream, non so nemmeno se si possa considerare prettamente elettronica “Autobahn” dei Kraftwerk o “The Journey” dei Kingdome Come di Arthur Brown, però quella roba mi sfizia abbastanza.
I Boards sono diventati un nome nel 2002 con “Geogaddi”, un disco che mi sono ritrovato quasi inspiegabilmente tra le mani verso i quindi anni e che ho odiato con tutto me stesso. Riascoltandolo quest’anno in un percorso di riscoperta musicale, legato certamente al fatto che non ho una lira in tasca e quindi mi tocca rispolverare anche quei CD o LP rinnegati tempo addietro, mi sono dovuto decisamente ricredere sul valore musicale e tecnico dei due fratelli scozzesi, ma non sulle impressioni personali.
I Boards sono bravi, ovvio, fin qui ci arriva anche un critico del Buscadero, ma toccano delle corde ben precise che ha me, evidentemente, non dicono niente. Un mio collega all’Uni era allibito dalla mia impressione negativa di Tomorrow’s, dicendomi che quando lui ascoltava i brevi ambienti elettronici di quell’album addirittura si commuoveva.
Sì, ok, c’è gente che si commuove ascoltando Lady Gaga, ok, ma il tipo in questione è uno a posto, e così da Settembre a oggi il disco che ho più riascoltato è stato certamente Tomorrow’s. La mia ragazza lo adora, mia madre lo apprezza, ai miei fratelli fa cagà (ma loro ascoltano solo Led Zeppelin et similia), mio padre lo ignora. Io sono l’unico eternamente combattuto tra il riconoscere una ricerca musicale che trovo squisita e la mia una totale impassibilità emotiva.
Oddio, questa re-reviewnon è per niente una re-review! Avrei potuto cercare di recensire alcuni dei migliori dischi usciti quest’anno, tipo “Silence Yourself” dei Savages o “Light Up Gold” dei Parquet Courts, e invece sono qui a cercare di capire perché “Tomorrow’s Harvest” non mi dice niente. E lo faccio pure male.
Come posso criticare oggettivamente un disco bello ma che non mi piace? L’unico modo che ho per farlo è dargli la sufficienza e rimandarlo a chi piace l’ambient, a chi adora gli Autechre e i Fuck Buttons, a chi ama spaziare tra le lande desolate di un sintetizzatore. Quello che trattano i Boards Of Canada è una sorta di anti-kosmic rock, immergendoci in uno spazio decisamente all’opposto dell’altrettanto freddo e distante proposto in “Alpha Centauri” (1971) dei Tangerine Dream, ma tragicamente pessimista e apocalittico, ormai liberatosi dal retaggio di colonna sonora per science-fiction e anche dalla sua dimensione intellettuale alla Eno, è una elettronica che più moderna di così non si può.
Tanto di cappello al duo scozzese, peccato che con quei venti euro mi ci potevo comprare un bel disco dei Nazz, porcodemonio.
Pro: probabilmente una delle cose migliori dell’elettronica contemporanea.
Contro: tremendamente simile a “Geogaddi” e anche meno interessante.
Pezzo consigliato: è uno di quegli album che va ascoltato dal momento in cui la puntina si posa sul bordo, lasciandola scivolare assieme all’immaginazione.
Voto: 6,5/10
Io fuggo a Carloforte col mio miglior amico, quindi se non rispondo ai vostri insulti fino al 6 Gennaio sono giustificato.
Ok, i Sonics non ci credono tanto, ma per voi invece sarà meglio non fare gli stronzi.
– Deh Beppe, non romperci il plettro, è una sporca festa pseudo-religiosa corrotta dal nazional-fasci-capitalismo! –
Oooh, ma non rompete il cazzo, è una dannata scusa per stare insieme e fare dei fottuti regali (materiali, non futili oggetti ma pensieri VERI) a chi vi vuole bene ma sopratutto: non spaccate i maroni agli altri con i vostri deliri misantropi! È natale, cazzo!
Eccoci alla fine di questa mia personalissima trilogia del prog italiano.
Dopo averne criticato gli aspetti più banali e dopo aver elogiato i grandi album meno conosciuti, ci apprestiamo adesso a fare una noiosa e puerile lista di quei pezzi che nei miei anni del liceo consumavo (facevo playlist nelle musicassette, e no: non ho quarant’anni, ne ho ventitré) fino allo sfinimento.
Non si parla dunque di capolavori assoluti o di pezzi al limite della sopportazione per la loro componente sperimentale, ma solo di quelle impressioni positive che un genere pieno di sfaccettature come il prog spesso utilizza inconsapevolmente.
Dal jazz dei Perigeo alla sperimentazione dei Dedalus, dai riff heavy dei Blue Phantom al musical di Tito Schipa Jr., il prog ha intrinseco la possibilità di abbracciare tantissimi generi, tanto che anche band come Gentle Giant che Tool sono assolutamente prog senza avere però nient’altro in comune.
La mia playlist non tocca nemmeno per sbaglio i veri capolavori del prog italiano (anche perché sarebbe semplicemente una lista di tutti i pezzi degli Area dal 1973 al 1978), e un po’ seguendo il leit motiv di questa trilogia raffazzonata è la mia impressione di un periodo che, nel bene e ne male, ha segnato la musica underground italiana.
Stavolta evitiamoci le solite seghe a cielo aperto e andiamo dritti alle songs proposte da questo blogger insopportabile.
L’Uovo di Colombo – L’indecisione
‘Sti cazzi. Allucinante giro di hammond, energia non indifferente in anni come quel 1973 dove il prog italiano si stava stanziando su forme sempre più auto-celebrative, e dove la forma sovrastava non di poco i contenuti. Il prog de L’Uovo è di una accezione ancora rock, e nei suoi voli pirandici non satura l’ambiente come gli Hunka Munka, né si formalizza eccessivamente. Una versione breve e molto più heavy e rock (senza eccessi psichedelici) degli Alphataurus.
Blue Phantom – Diodo
Avevo già parlato di questa band, ma ripetersi non fa mai male, al massimo solidifica quelle prese di posizione nette che fanno tanto bene in tempi in cui “relativizzazione” significa che ogni idiota può scardinare a suon di insulti su Facebook anche le leggi fondamentali della termodinamica. In realtà Diodo non anticipa l’heavy metal, come invece avevo sentenziato con un bell’eccesso di entusiasmo a Gennaio, ma piuttosto la deriva della distorsione verso la drone music. Formazione sconosciuta sorretta dal genio di Armando Sciascia, da recuperare a tutti i costi.
Reale Accademia di Musica – Padre
Uno dei pezzi pregiati della stagione 1972, anche se non tutti potrebbero essere d’accordo. In effetti su questa scelta sono molto titubante perché tra il prog auto-celebrativo per eccellenza c’è proprio la Reale Accademia di Musica! Ma la come i Pink Floyd di Roger Waters cambiarono molto nel soft rock sopratutto grazie ad una meticolosità nella registrazione ormai storica, questo album della Reale Accademia (“Reale Accademia di Musica”) fa più o meno lo stesso nell’Italia prog del 1972, alzando non di poco lo standard.
Free Action Inc. – Aunt Trudy
Il rock spensierato, corale e terribilmente hippie dei Free Action Inc. a me ha sempre fatto impazzire. I meno auto-referenziali di tutta la stagione prog italiana, uno sguardo disincantato verso Broadway e un rock gioioso ma non semplificato attraverso una prospettiva punk. Come avrete già intuito questa mia lista non sta assolutamente andando al di fuori di quelli che sono gusti strettamente personali, non voglio convincervi che questi siano i migliori singoli del prog italiano, sarebbe anche piuttosto difficile, ma è quel che della stagione prog mi è rimasto particolarmente impresso, e questo folle e corale pezzo dei Free Action Inc. è qualcosa che ti entra nel cervello per non uscirne mai più.
Il Punto – Il tallone di Achille
Seconda traccia da “Ettore Lo Fusto”, disco che fa da colonna sonora all’omonimo film del 1972 diretto dal grande e quasi-dimenticato Enzo G. Castellari. La psichedelica visione di Castellari dell’Iliade è qualcosa di atroce quanto miracoloso, e le musiche de Il Punto c’entrano benino, peccato che da una prospettiva di musica per film non sono costruite per essere raccordate alle immagini, quindi sono del tutto inutili. Ma senza considerare gli aspetti filmici il prog rock de Il Punto spacca oltremodo.
Buon Vecchio Charlie – Rosa
Un bell’album coronato da alcune idee meravigliose, tra queste la bonus track Rosa. Invece della solita menata su Gesù o sul proletariato (temi portanti di buona parte della produzione italiana fino ai CCCP) stavolta un bel lamento d’amore, tipicamente pop, ma dipingendo un uomo fragile che ha amato una donna di grande intelletto, tale Rosa, e che adesso deve fare i conti con la sua vita di cazzone insensibile (ma che insensibile non è). Mi piace il fatto che si trovi nel mezzo di un album pieno di esaltanti momenti tecnici e spicchi nella sua tragica semplicità.
Biglietto per l’Inferno – Confessione (strumentale)
Sono per le bonus track, non è una novità. Questa versione strumentale di Confessione sebbene orfana della voce di Claudio Canali (e dei suoi testi profondamente anti-clericali) rende giustizia alla grandiosa abilità tecnica della band, il mio pezzo strumentale preferito del prog italiano.
Perigeo – Looping
Pura tecnica, non asservita al Dio mastrurbatorio però, gradevolissimo e importantissimo per il 1975 “La Valle Dei Templi”, un esempio più unico che raro di un jazz-prog davvero fruibile da tutti, frizzante e dinamico come mai. Album capolavoro con una Looping da paura.
Tito Schipa Jr. – Eccoci alla Fine (Tema delle stelle e Finale)
[il pezzo comincia al minuto 6:19]
Non credo che “Orfeo 9” del bravissimo Tito Schipa Jr. sia un capolavoro, né come musical né come film (né tanto meno come doppio album in sé), ma è uno spaccato romantico, ingenuo e al contempo riflessivo e consapevole di quel periodo intriso di lotta politica, rivoluzione giovanile, concerti nel fango, e inutili e inermi vittime della droga. “Orfeo 9” spettacolarizza tutti gli elementi del passaggio tra i ’60 e i ’70 italiani, si impasta in un miscuglio Broadway-blues-pop-rocktroppo spesso ridondante, ma di grande effetto. E dunque eccoci davvero alla fine di questo percorso molto intimo e poco critico nel prog italiano, con un pezzo che per la prima volta inserisce la parola “sound” nel contesto musicale italiano, perennemente più ingenuo del suo corrispettivo americano e inglese, ma altrettanto incantato da quelle poche note che in sequenza fioriscono nel rock&roll.
[Grazie di cuore a Romina che nei commenti mi ha fatto notare che Schipa Jr. ha un profilo su YouTube dove ha pubblicato gran parte dell’opera sopra citata, mentre io credevo avesse fatto l’italianata di distruggerne ogni traccia sul webbe. Grazie Romina, la prova vivente che il web serve a qualcosa a parte i magniloquenti video sui gatti.]
Primo capitolo di questa mia nuova rubrica quasi-mensile (il quasi con me è d’obbligo) dove amabilmente farò una review delle riviste di review italiane. No, non lo farò di tutte, anche se ovviamente di carne al fuoco ogni mese ce n’è in abbondanza, ma io sebbene legga tutto sono tragicamente pigro quando c’è bisogno di scrivere. Pazienza.
Cominciamo alla grande con i due numeri di dicembre di Blow Up e Rumore, la prima è una rivista decisamente musicale prima ancora che rock, la seconda chiamandosi “Rumore” qualcuno potrebbe pensare sia rock (o drone! sai che figata!) ma una rivista rock non ti mette tra i migliori album dell’anno “Yeezus” di Kanye West, potete scommeterci.
Partiamo da Rumore.
Intanto vi segnalo subito il bellissimo pezzo di Maurizio Blatto con la collaborazione di Barbara Santi, ovvero “Discopanettone” che potete trovare a pagina 46, un meraviglioso excursus tra i mitici pacchi regalo che tutti abbiamo subito a Natale perché “so che a te piace la musica!” sì, ma non i Lunapop, zia. Ci sono tanti interventi di musicisti più o meno famosi davvero geniali, consigliassimo.
Dato che non voglio di certo passare per quello che lecca i culi alla gente passiamo alle palate di merda, con due recensori d’eccezione.
Ed è proprio Barbara Santi che mi casca dal pero con una tragicomica recensione dell’ultima fatica di Franco Battiato assieme ad Antony and the Johnsons. Comincia già dimostrando una certa professionalità “Sì, il dio della musica pare che esista e che li abbia fatti incontrare” va bene essere appassionati di quel dato artista o gruppo, ma addirittura l’idolatria mi sembra esagerato. Sì perché a lei “i brividi corrono lungo la schiena” di fronte a questo lavoro di cover popdannatamente commerciali, per le quali Battiato si sarà sforzato come fa da almeno una decina d’anni, ovvero tanto quanto per alzarsi dal letto e mettersi le pantofole (sempre che lui non lieviti ad un centimetro dall’indegno pavimento). Pensa te, ci stanno As Tears Go By dei Rolling Stones, La realtà non esiste di Claudio Rocchi e (udite udite) Crazy in Love di Beyoncé! Un album “prezioso”, come questa recensione a 90° gradi.
Notevole la rubrica “Singolare” di Rumore, dove si commentano gli EP e dove, giustamente, sono richieste meno parole delle già brevi recensioni. Il tuo lavoro oh grande recensore è dunque quello di sintetizzarmi al meglio cosa troverò in quei pochi minuti di musica. Macché, troppo facile, parliamo invece di tutt’altro.
E infatti ecco il Maurizio Blatto di “Discopanettone” il quale ha evidentemente speso tutte le sue energie per il mitico articolo suddetto, dato che nel recensire “Festivalbug” dei Bachi Da Pietra, in undici righe non dice un cazzo. “Questo EP di tre brani, in uscita digitale o con il vinile con maglietta abbinata, è tra le cose migliori dei Bachi” toh, c’è la maglietta, lo sto già prenotando “Ritmica Tito Balestra e blues Madalena, straripano entrambi di terra piemontese e dei suoi frutti”. Sig. Blatto, i pezzi sono tre, se invece delle magliette, dei download, delle parole di Succi, farci dotti del fatto che un pezzo è ritmico, l’altro è blues e il terzo è esplicativo (???) ti fossi concentrato un attimo avrei anche capito che aspettarmi. Invece così è solo una segnalazione che potrei fare anche io dicendo: “caaaazooo, i Bachi spaccano, andateveli ad ascoltà!” il concetto è lo stesso ma espresso in modo più sincero.
Naturalmente non può mancare la recensione dell’ultimo album di Lady Gaga (ricordiamo l’intestazione di Rumore: “Dal 1992 la tua rivista indipendente di musica underground”, sì, ed io sono Bukowski, Berlusconi è Gandhi e Renzi è J.F. Kennedy).
La firma è di un recensore degno del Rolling Stone Italia, Francesco Farabegoli, che intanto dà un bel 8/10 ad “ARTPOP” di Lady-o Ga-ga, ma poi ne tesse certe lodi da far arrossire anche la nuova diva (urgh!) del pop! “Un trip solipsista di casse tuonanti, recuperi fidget da guerra, prove vocali da brivido ed estetica white trash trasfigurata in un gioco di specchi in frantumi” eccetera eccetera eccetera. Questa per Farabegoli è la sua “opera più personale e ambiziosa” praticamente “una sorta di Downward Spiral apocrifo” COOOSA?
Ma stiamo parlando dei Nine Inch Nails in una recensione su Lady Gaga comparandoli? Ma cosa ci incastrano? È come se io scrivessi una recensione dell’ultimo album degli Opeth comparandoli a “Honey” dei The Ohio Players!!! La tua rivista indipendente di musica undergroundun paio di cazzi belli e buoni.
Ci sarebbero altre perle, ma andiamo su Blow Up, che se no si offende.
Anche nella playlist del 2013 made in Blow Up compaiono qualche ciofeca ben confezionata per i soliti gonzi, come gli ultimi album di Arctic Monkeys, David Bowie e MGMT, per quello che si definisce un magazine rockci vuole una buona dose di coraggio ad inserire album così mediocri e poco rock. Va detto che Zingales tra i suoi best ci butta dentro Pet Shop Boys, Justin Timberlake e l’ultimo Paul McCartney, onorevoli nomi da prima pagina del solito Rolling Stone. Magazine rock, magazine rock, magazine rock…
Mi ha decisamente convinto la bella e esaustiva recensione di Marco Sideri sull’ultimo live di Nick Cave (“Live from KCRW”), ero un po’ indeciso ma dopo aver letto questa recensione lo desidero con tutto me stesso. Ovviamente nella versione doppio LP.
Preciso e obiettivo, fosse stato anche leggermente più sintetico sarebbe perfetto, anche perché non ci sono tante parole da spendere per “What The…” dei Black Flag, ma Federico Guglielmi conferma la sua passione (altalenante) per una musica quantomeno autentica.
Sintetico, comprensibile, decisamente autore delle migliori recensioni di Dicembre perché unisce il lato romantico a quello tecnico senza mai strafare il buon Fabio Polvani, il quale ci consiglia particolarmente il blues-rock ispiratissimo di “Devil Man” dei Blues Pills. Praticamente l’ho già ordinato.
Breve ma inteso delirio di Girolamo Dal Maso che tenta di spiegarci “Vertebra” degli Australasia: “Rock vitaminico e onirico, suonato con gusto.” STOP “Post-rock chitarristico e sintetizzatori vintage.” STOP. Un bell’inizio a telegramma ci sta sempre bene. Ma ecco qui un chiaro esempio di bipolarismo: “Bello l’artbook, decisamente vintage pure lui, potrebbe essere un Neil Young d’annata o qualche misconosciuto gruppo gotico post-wave” uguale, sembrano facili da scambiare.
Anche Stefano Isidoro Bianchi è affetto da uno spiccato bipolarismo, criticando le parti strumentali di “Metafather” dei Imbogodom dicendo che “non hanno senso”, un bell’affare penserete voi, ma il voto oscilla tra 6 e 7. Qualcuno potrebbe criticarmi facendomi notare come poche righe prima parlasse di “belle e solenni ballad di folk apocalittico per nastri” (affermazione interessante, non trovate?) ma dato che sempre come ci dice Bianchi questo album fa parte di una trilogia, il fatto che qui i strumentali siano addirittura SENZA SENSO mi fa pensare che non sia esattamente il più riuscito dei tre. Ma se questo viaggia tra il 6 e il 7 ed ha intere parti musicali buttate lì a casaccio, allora i due precedenti devono essere dei capolavori inestimabili. Oppure no?
C’è anche il momento “oddio, ma a te ti pagano per scrivere SOLO QUESTO?” con una intensa recensione di Antonio Ciarletta sui Le Single Blanc e il loro “Aoûtat”:
“Ancora math-noise da Musica Per Organi Caldi con i francesi Le Single Blanc. Rispetto a Tougsbozuka qui il suono è leggermente più articolato, anche se meno incisivo. Comunque promossi.” con un bel 7. Bello incisivo, non c’è che dire.
Ovviamente c’è tanto altro di buono e molto di più di cattivo, ma io sono pigro e non mi metterò qui a scrivervi il resto.
Alla prossima rassegna stampa ragazzi, se volete segnalare qualcosa o insultarmi pesantemente la mamma potete tranquillamente farlo nei commenti.
Senza infamia e senza lode, lo collocherei in questo momento della sua carriera tra un Syd Barrett smorto e il più ispirato John Lennon, molto dei contemporanei The Mallard e White Fence e difatti anche lui come questi ultimi fa parte della rinascita (se mai c’è stata una “morte”) della psichedelia americana che ha sede fissa in California.
Jeffrey Novak è praticamente sconosciuto in Italia se non per la sua parentesi Cheap Time, mediocre tentativo di unire glam a garage come un tempo. Questo tizio rinasce in tempi recenti lasciando perdere definitivamente la vena glam (davvero, faceva schifo) e lasciando il garage ai vai Ty Segall e Crystal Stilts (che è in buone mani, fidatevi), protendendo per una psichedelia spicciola.
Lontano dalla magnificenza spesso dichiaratamente masturbatoria dei The Black Angels, lontanissimo dalla potenza e dalla genialità diThee Oh Sees e Zig Zags, è certamente più affine alla forma-canzone alla White Fence, ma se il caro Fence è comunque ancorato ad un concetto (forse) un po’ posticcio della psichedelia, Novak dal canto suo è molto vicino all’ultimo Barrett del ’70, il che perlomeno ci fa capire che il ragazzo assume dosi di rock ben tagliate.
In soldoni il tizio ci sa fare e nel 2012 pubblica questo “Baron In The Trees” (credo ispirato in parte al celebre romanzo Il Barone Rampante di Italo Calvino, che se non avete letto siete brutte persone) che finalmente sono riuscito ad acquistare ieri, e che intende essere un po’ la summa del percorso di Novak e forse la prova della sua definitiva maturazione.
Quest’anno è uscito “Lemon Kid”, ma, ehi, appena avrò il grano vedrò di procurarmelo, intanto mi cucco/vi cuccate questo. Novak non è un genio della musica, e di certo non è tra gli artisti di punta di questa nuova ondata garage-psichedelica che mi sta appassionando a livello discografico come niente nella mia vita, la sua psichedelia chiede poco e dà pochissimo.
In Baron la fa da padrone l’acidità di Barrett (presente sopratutto nella performance vocale), ma la musica è molto pop prima ancora che rock. Eppure nella sua confezione abbellita di archi (Parlor Tricks) di rimandi floydiani esagerati, di pezzi impacchettati ad arte (Watch Yourself Go) di hit accattivanti (Here Comes Snakeman) di tutti quelli che invece di prediligere la via più “estrema” della psichedelia, fondendola con drone e garage, si sono buttati su un’idea più melodica e modesta, Jeffrey Novak ne risulta senza alcun dubbio il più gradevole.
Si merita una pacca su una spalla, il tizio.
“Baron In The Trees” per quanto mi riguarda è involontariamente un classico. È un metro, un modulo, come cristosanto posso dire… ecco: un esempio di cosa si è preso dal passato e di come lo si riutilizza oggi negli anni ’10 del 2000.
Al contrario di tutte le band psichedeliche principali di questo momento Novak viene dal Tennessee, più precisamente dalla rigogliosa capitale Nashville, patria del country. E già da qui si può capire come proprio il buon Novak riesca a dare il suo meglio entro i 4 minuti (meglio se 3 o due e mezzo), con poche note ben posizionate, una melodia sempre orecchiabile e il tutto registrato decentemente.
Sebbene sia un po’ più acida la title track che chiude questo brevissimo album (anche troppo, solo 9 pezzi per un totale che sfiora la mezz’ora!) il resto si libra nell’aria con leggerezza e una buona dose di maturità.
Un ottimo passatempo e un simpatico acquisto natalizio. Lo consiglio a chi tra un feedback e l’altro vuole un attimo riposarsi e tenere qualcosa di decente di sottofondo. Non c’è bisogno di ascoltarlo con attenzione, va giù liscio come il vino che comprate al Penny Market, senza infamia e senza lode.
Pro: scrollatosi di dosso il glam e buttandosi in Barrett, Novak ha trovato se stesso e della buona musica.
Contro: nessuna pretesa di alcun genere, un disco che non ha niente da dire.
La critica rock in Italia non esiste.
Esiste semmai una critica musicale, la quale però ha un difettuccio alla base: voler essere Totale.
Il critico musicale medio italiano recensisce avant-jazz, avant-rock, avant-dubstep, avant-polka e così via, senza problemi, e lo fa da quando aveva diciannove anni appena compiuti. Qualcosa non mi torna. Ma mica perché a diciannove anni io recensivo l’Uomo Ragno e i peggiori locali dove bere la peggior birra (cioè, anche per quello, ma vabbè) e non Moondog.
Bisogna intanto fare una premessa necessaria: almeno il 50% dei critici ha dalla sua un’ottima conoscenza musicologica, spesso sono anche musicisti di buon livello e sopratutto sono davvero appassionati della musica Tutta. Però non sanno esprimere un cazzo di concetto.
Lo stile del critico musicale italiano (perché, ricordiamocelo, la critica rock in Italia non esiste, ma ci torneremo magari in un altro post) si divide in due macro-categorie:
Sintesi, prima di tutto, perché chiaramente c’è poco spazio, quindi evitare di parlare della nonna o scansare l’idea di utilizzare passaggi da Chiffren der Transzendez di Jaspers.
Si deve sapere il genere (senza per forza andare nel particolare, se si posso evitare i vari avant-indierockpsichedelicofolkmetal sarebbe gradito), si devono sapere le influenze (va bene quando sono mirate, ma non tirate fuori band conosciute solo da amici e parenti, perché se no siamo punto a capo) e infine un bel giudiziopersonale.
Il giudizio personale è la cifra, Pirsig direbbe il valore statico, che vi definisce e che permette al lettore di capire per cosa protende un critico. Se so che Tizio ama il punk e abbiamo gusti simili quando leggo una sua recensione di un disco punk mi oriento bene per l’acquisto, quando invece lo stesso tizio ne scrive una di un gruppo free jazzmetto le mani avanti e aspetto il parere di qualcun altro prima di lanciarmi in negozio.
Qui scatta un altro problema, ovvero che il 90% dei critici italiani non ha gusti.
Sono arrivato a questa conclusione dopo anni di letture e ho notato che molte delle mitiche penne anni ’70 e ’80 si sono ammorbidite in modo indecoroso. E quelle che non si sono ammorbidite o sono quei giovani che dovrebbero dare fuoco a tutto, non hanno gusti, per cui gli piace tutto e recensiscono qualsiasi cosa con un entusiasmo trascinante. Però io non posso comprare tutto e sopratutto non avendo Te critico un metro di giudizio (ami qualsiasi cosa produca dei suoni/rumori) né dei fottuti gusti, dato che dici di amare gli MC5 ma adori anche gli Arcade Fire, sbavi per i Sonics ma anche per i Radiohead, ti fotteresti Arthur Brown ma anche King Krule, allora sei inutile.
Compro le riviste perché con due lire da spendere le voglio spendere bene. Nella mia finora breve vita ne ho prese di inculate micidiali grazie ai vari talentuosi critici di Buscadero, Mucchio, Rumore, Blow Up (e altre riviste metal e pop che compravo all’epoca del liceo ma che non vedono più la luce da anni). Probabilmente avessi usato i soldi degli abbonamenti comprando dischi a casaccio sarebbe andata meglio.
Gary Glitter, Utopia, Arctic Monkeys, il peggior album di Paul Weller, ma sopratutto i vari ultimi “capolavori” dei mostri considerati sacri (e che ho dovuto rivalutare profondamente) come Eric Burdon, David Bowie, Eric Clapton, Deep Purple e via dicendo, che impestano il mercato con la loro roba riciclata senza un minimo di creatività e con tanto marketing.
Per me se un critico scrive che l’ultimo dei Deep Purple (“Now What?!”, 2013) è un bel disco non capisce un cazzo di musica e di rock in particolare. Mi dispiace. Uno che considera “AM” (2013) degli Arctic Monkeys un potente e innovativo disco rock (e sottolineo: ROCK) ha un’idea di rock che non solo non combacia con la mia, ma che è chiaramente confusa e corrotta, o quantomeno soffre di disturbi bipolari.
Bene.
Questo post è una presentazione di una mia nuova e sempre simpatica rubrica dove andrò a elogiare o sputtanare senza rimorsi, con pochissima modestia (lo so che sono la feccia delle società, non ci sono problemi, mi sta bene così) e con tutta la rabbia di chi ha speso più di venti merdosi euro per “Glitter” di Gary Glitter, tutti gli articoli che troverò meritevoli della mia funesta ira.
Comincerò presto perché nei numeri di dicembre di Rumore e Blow Up ci sono delle chicche gustosissime.
Se avete quest’album e avete già letto un paio di tonnellate di recensioni e volete leggervi pure questa allora sappiate che siete messi maluccio.
Se non sapete cosa sia questo album proseguite nella recensione come se niente fosse.
Di “Trout Mask Replica” ne sentirete parlare come “il più grande album di tutti i tempi” o come “le mie scoregge suonano meglio e puzzano meno”. Quando ci si trova di fronte ad un opera che divide e polarizza la discussione in modo così deciso bisogna innanzi tutto fare ordine.
La cosa migliore sarebbe questa: fregatevene di cosa ne dice la g-gente, compratevi ‘sto dannato disco e mettetelo sul piatto, fatelo girare ben ben e accostate la puntina con estrema lentezza per gustarvelo in santa pace. Oppure scaricatelo da iTunes e fatelo partire sul vostro asettico iPod. Ecco, ascoltatelo con leggerezza, con divertimento e senza troppe seghe mentali. Se vi piacerà, bene, se non vi piacerà, chissene, avanti il prossimo!
Ma, ehi, quando devi tirarci sù una critica costruttiva allora non puoi mica svignartela così bello mio.
È facile dire: l’ho letto su Wire, è un fottuto capolavoro, quindi zitto e muto!
Come è altrettanto facile affermare: non sa di un cazzo, è fatto per ridere, perché dovrebbe essere il disco più figo del rock se non suona nemmeno rock???
Però queste non sono discussioni in merito ad un album, ma bisticci idioti senza direzione.
La critica musicale non ha apprezzato all’unanimità TMR alla sua uscita. Gran parte degli elogi venivano dalla critica rock più “estrema” e riluttante ai soliti nomi che vivacchiavano in alto alle classifiche, e anche da una parte della critica jazz con forti accezioni fortemente sperimentali.
Nel corso della storia l’album in questione è stato pian piano riconosciuto universalmente come un capolavoro unico e irripetibile, e sono pochissimi (sempre che esistano) i critici musicali che mettono in dubbio la caratura di questo disco.
Ma ovviamente la critica musicale non è tutto, anche se in questo campo è la voce più autorevole (sopratutto quando un album è ormai storicizzato e può essere valutato in modo più oggettivo).
Probabilmente la parte più complessa nel valutare oggettivamente un album risiede nel momento in cui ti rendi conto che quell’album ti fa cagare.
La prima volta che ascoltai TMR mi piacque, quindi non faccio testo, ma è più comune che avvenga il contrario data l’unicità compositiva che lo diversifica in modo così violento da tutta la produzione rock fino al 1969, e che ancora oggi trova pochi esempi egualmente al limite.
Detto ciò io ho mal digerito al primo ascolto i Little Feat, i Creedence Clearwater Revival e addirittura (e non mi vergogno ad ammetterlo) i Gun Club. Sono tre esempi di fruibilità completamente diversi e certamente più accessibili di TMR come anche di approccio al rock, e sebbene all’inizio li trovai non adatti a me (per non dire insopportabili) ne riconobbi subito il valore storico. Ho voluto fare questo esempio perché in questi mesi sto riascoltando ed rivalutando proprio queste tre band (dei Gun Club ho acquistato tutta la discografia nell’arco di un mese!), ma per alcune non ci sono stati cazzi, mi annoiano a morte a prescindere dal loro valore storico.
Il nocciolo della questione è: ma che valore storico ha TMR?
Beh, sarebbe lunga, ma mi limiterò alle mie impressioni da totale imbecille sul web col suo bel blogghino da sfigatello.
Se escludiamo Ella Guru,Moonlight On Vermont e Sugar ‘n Spikes, le uniche tre tracce a presentare una forma quasi melodica o tradizionale a tratti, il resto dell’album è un volo che viene delle volte erroneamente definito psichedelico (oppure di matrice blues) quando invece è solo free-form e anarchia jazz-rock totale.
Tutto parte dalla seminale mente di Beefheart, che sperimenta su un pianoforte che non sa suonare idee, concetti e impressioni del tutto fuori da ogni schema compositivo, lasciando che Drumbo (all’anagrafe John French, il batterista della Magic Band) cercasse di dare un vago senso compiuto a quegli schizzi anarchici.
Oltre le leggende, che potete leggere più o meno ovunque, la cosa che deve saltare all’orecchio è come Beefheart in modo del tutto tirannico (come ogni regista che si rispetti e non ho usato la parola regista a caso) costringe la sua band a delle sessioni di lavoro da gulag russo, lasciando che la sua creatura prendesse il sopravvento sulla razionalità e sul controllo che normalmente hanno i musicisti sulle loro composizioni.
Le poche interviste di Beefheart rilevano come il concetto alla base del Capitano fosse quello di eliminare le singole personalità, proponendo un lavoro stanislavskiano di musicista fuori dalla musica che sta suonando, diventandone parte concreta.
In fondo il concetto non è così complesso come può sembrare, la situazione in cui versano i musicisti violentati da Beefheart è quella di un drogato che prova un senso di totale unità con l’universo che lo circonda pur essendo al di fuori di sé.
Questa operazione, sebbene anarchica, è sostenuta da una tecnica e da un controllo eccellente, spesso ai limiti possibili. Nessuno la fa fuori dal vaso, le due chitarre poste una destra e l’altra a sinistra provocano l’ascoltatore (sono le impressioni di Beefheart, le idee anarchiche fuori da ogni concetto prima ideato) mentre la batteria di Drumbo, posta sempre al centro (a parte in piccole idee particolari come in The Blimp (Mousetrapreplica)), è il collante necessario (e aggiungo: la parte razionale) per mantenere stabile questo monumentale e azzardato progetto.
Ci sono anche tantissimi momenti morti (il primo che mi viene in mente è la pausa tra Hair Pie: Bake 1 e il bellissimo attacco di batteria di Moonlight On Vermont) ci sono anche momenti in cui Beefheart canta senza accompagnamento (tramite il collage di strofe cantate singolarmente, come in Orange Claw Hammer) e addirittura c’è una registrazione della band mentre mangia (nei primi istanti di Fallin’ Ditch).
Difficile definire tutto questo come un album prettamente rock, o addirittura un album di musica in generale. L’esperimento di Beefheart è una doppia provocazione, sia al musicista esperto che al fruitore occasionale. Al primo mostra i muscoli (Sugar ‘n Spikes) e anche la possibilità di andare oltre la tonalità e alle leggi che regolano il limitatissimo mondo del rock (che poi è il principale motivo per cui questo album è considerato così fondamentale), al secondo propone un ascolto più partecipato, più sensibile, perché TMR non è affatto un album costruito per emozionare o cose così, la sua sensibilità non sta nel farti fare due lacrimuccie o a farti incazzare contro il Reagan di turno, ma cerca piuttosto di estraniarti da te stesso per raggiungere il Capitano nella sua jam infernale.
Anche nei testi risulta difficile trovare un senso comune, si va dalla rievocazione dell’olocausto di Dachau Blues alle immagine sessualmente contorte di Neon Meate Dream of a Octafish, il tutto ispirato da una ricerca squisitamente dadaista (forse delle volte anche tramite la tecnica del cadavere squisito).
Il metodo di Beefheart si allontana decisamente dalla serietà degli esperimenti free-jazz o del rock definito underground, perché se da una parte il controllo tecnico e concettuale sull’opera è totale, dall’altro il Capitano sta sbeffeggiando goliardicamente i limiti auto-imposti del rock.
L’infinito accostamento di idee, suoni, raccordi e distorsioni fa di TMR una raccolta geniale che, per forza di cose, è anche all’avanguardia di tutti i generi che il rock toccherà negli anni successivi.
Credo sia difficile fruirlo come un album dei Pink Floyd, ma immagino che questo dipenda anche dalle personalità (a me, per esempio, mi piace molto ascoltarlo mentre studio o scrivo), ma penso non ci possano e non ci debbano essere dubbi sul valore di questo capolavoro del Capitano, ben oltre il precedente e eccellente “Safe As Milk” (1967) e certamente mai più ripetutosi a questi livelli.
[Deh, forse per qualcuno questa recensione potrebbe anche apparire breve e incompleta, ma essendo il web assediato da ottomila recensioni (soltanto in italiano) di questo album credo di aver effettuato una sintesi dei motivi per cui TMR è un fottuto capolavoro abbastanza precisa e leggera, senza tirare il ballo il Dasein di Heidegger, senza masturbarmi sulle componenti tecniche e senza insultare nessun critico di Blow Up, Mucchio, Buscadero, Rumore o-che-so-io. Quindi: ‘fanculo, comprate questo album, e se non vi piace peace & love.]
…se volete leggere quella che ritengo sia la migliore recensione in assoluto cliccate qui. È stata scritta nel 2008 dal miglior blogger mai esistito, anche se da tempo disperso (si dice rapito da degli alieni).
[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]
Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.
Ho pensato: ci siamo!Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.
Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]
La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).
La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. “Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.
Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.
Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.
Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto. “10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.
Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.
Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.
In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.
Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?
Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.
Pro: la miglior band garage contemporanea.
Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.