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2007-2010: GLI ULTIMI RUMORI
Dopo aver lasciato la V2 Records con un pugno di mosche ecco arrivare in scivolata la Warner Bros. Records, con tanti milioni che rischiano di dare alla testa al buon vecchio White.
Ci sono voluti 10 anni per arrivare al sesto e ultimo album dei White Stripes, di gran lunga il peggiore della loro fortunata discografia. “Icky Thump” (2007) esce sia per CD che per vinile, ma con delle leggere differenze tra i due prodotti (fatto che stranamente non segnala mai nessuno) nella registrazione della title track e di Rag And Bone.
Icky Thump è un bel pezzo rock con le influenze messicane che sporadicamente segnano questo album, diviso a metà tra sperimentazione e folk. Segue una You Don’t Know What Love Is (You Just Do As You’re Told) con un bel riffone ma senza rabbia, di maniera.
La parte centrale dell’album, che comprende l’ultimo pezzo del lato A del primo LP e tutto il lato B è una debacle senza precedenti. 300 M.P.H. Torrential Outpour Blues (il peggior blues della premiata ditta), Conquest (una vergogna senza precedenti), Prickly Thorn, but Sweetly Worn e St. Andrew (This Battle is in the Air) (due pezzi folk senz’anima) sono il punto più basso della loro discografia, di questa parte si salva solo il Bone Broke, un pezzo comunque troppo lungo. Con il riff di Bone Broke i vecchi Stripes ci avrebbero fatto un pezzo punk da due minuti scarsi.
Little Cream Soda dimostra che il successo non intacca la voglia di sperimentare di White, peccato che la carica sperimentale non sia alla pari con la qualità.
Rag And Bone è uno dei pochi picchi di quest’album (nell’edizione in vinile è cantata solo da Jack) e dà anche l’inizio all’album vero e proprio. Sì perché quello che è successo prima era probabilmente frutto di qualche goliardata alcolica in fase di produzione. Spero.
Infatti il secondo LP si rivela decisamente il migliore contenendo due tra gli episodi più felici dei White Stripes, ovvero: I’m Slowly Turning Into You e Catch Hell Blues. La prima è l’unico pezzo dell’album che coniuga la spinta innovativa nel sound con il garage delle origini, il giro di organo, l’assolo distorto, la voce mefistofelica di White, tutto è perfettamente calibrato. Catch Hell Blues è invece l’ultimo grandissimo pezzo blues della band, figlio di I Fought Piranhas e Instinct Blues ma ben incastonato nel sound complessivo di “Icky Thump”, una perla.
A Martyr For My Love For You potrebbe benissimo comparire nella tracklist del secondo album dei The Raconteurs (che uscirà l’anno dopo) mentre Effect And Cause è il classico pezzo acustico a concludere l’album, l’unico pezzo folk degno di questo nome di tutto il disco.
Ma a parte quella merda stratosferica di Conquest ‘ndo stanno le mitiche cover? E c’è da chiederlo? Ma ovviamente una è presente nella versione giapponese (sigh!) ed è Baby Brother di Vern Orr, ovviamente da spezzare il fiato, mentre nella versione per iTunes (doppio sigh!) ci sono sia Baby Brother che Tennessee Border del grandissimo Hank Williams. Cosa non fa fare il denaro…
È del 2008 la collaborazione con Alicia Keys. Another Way To Die è pezzo forte del nuovo “007: Quantum of Solace” (diretto da un un mediocre Marc Forster).
Nel 2008 Jack White e Brendan Benson presentano al mondo “Consolers of the Lonely” secondo e finora ultimo album dei The Raconteurs, un album che regna supremo su tutta la produzione indie di quell’anno, più ispirato del primo ma a tratti fin troppo ricercato e rifinito, il prodotto fin qui più commerciale di Jack White.
Il riff facile e appetibile di Salute Your Solution, l’indie pop da classifica di These Stones Will Shout, il garage pop di Five On The Five, il rock da stadio di Hold Up (con tanto di ritornello da cantare a ritmo con le braccia tese verso la band), la progressione banale al piano di You Don’t Understand Me, sono i punti meno interessanti dell’album. Per carità, c’è sempre quello straordinario talento nel creare melodie già sentito in passato, ma ormai lo stupore lascia spazio alla banalità.
I pezzi decenti sono la title track che coniuga bene il riff garage al indie rock da Coachella o Lollapalooza, Old Enough è un pezzo che sembra rubato al primo album (anche se senza quella punta malcelata di malinconia perde tantissimo), Attention è un pop rock energico e ben costruito.
I pezzi forti sono l’inaspettata cover di Rich Kid Blues direttamente da “Terry Reid” (1969), secondo album di (pensa un po’) Terry Reid, conosciuto perlopiù per aver rinunciato al ruolo di cantante sia nei Led Zeppelin che nei Deep Purple, mentre la conclusiva Carolina Drama è il classico pezzo acustico con cui White ama concludere in questo periodo i suoi album.
Dopo aver interpretato brevemente Elvis nel divertentissimo e brillante “Walk Hard: La storia di Dewey Cox” (davvero brevemente), nel 2009 si cimenta nel super-progetto: The Dead Weather.
Alison Mosshart alla voce (The Kills), Dean Fertita alla chitarra (Queens of the Stone Age), Jack Laurence di nuovo al basso (Greenhornes, Blanche, The Raconteurs) e Jack White alla batteria (il suo primo amore). Insieme formano il classico super-gruppo e come il 99% dei super-gruppi propone un musica auto-celebrativa del tutto inutile.
Il lato A di “Horehound” bene o male tiene. 60 Feet Tall è di rara piattezza, Hang You From The Hevens uguale, I Cut Like A Buffalo già meglio, So Far From Your Weapon tiene il passo e si migliora un po’, Treat Me Like Your Mother è garage mascherato (era meglio lasciarlo nudo) dopo di che il nulla.
Si salva la cover di New Pony di Bob Dylan, ed è la peggiore di tutte le cover prodotte da Jack White.
Che dire, un progetto inutile tranne per le tasche dei diretti interessati, sorretto solo dalla spasmodica passione dei fan di Jack White. Il secondo album, “Sea Of Cowards” (2010) timidamente definito “superiore al precedente” dalla critica che, quasi all’unanimità, non se l’è sentita di stroncare un album con il Profeta Jack White, in tutta sincerità fa cacare come il precedente. Dura giusto una mezz’oretta, hanno capito che la cosa migliore e far felici i fan di White e delle volte sembra di sentire i Raconteurs sperimentali. Terribile.
2012-oggi: UN CHITARRISTA QUALUNQUE
Tra collaborazioni, TV e apparizioni varie avevo perso di vista Jack White così tanto da aver quasi del tutto ignorato ad aprile del 2012 l’uscita di “Blunderbuss” il suo primo disco solista.
Era agosto ed ero ad Atene, stavo facendo un interrail che percorreva tutto l’est Europa, e ogni volta che potevo fermarmi a comprare qualche album lo facevo. A prezzi stracciati ho acquistato vinili stupendi, dai Rare Bird ai Cracker, passando per Ian Dury e Joe Cocker. Arrivato ad Atene finisco in questo piccolo negozio dove stavo valutando l’acquisto di un “Safe & Milk” ristampato quando la mia attenzione si focalizza su un tizio blu su una copertina blu. Jack White? Beh, perché no?
Sostanzialmente i White Stripes sono stati la colonna sonora dei miei anni al liceo, e sebbene gli ultimi album di Jack mi avessero fatto abbondantemente cacare l’idea di un Jack White che lascia perdere le super band e l’indie rock non poteva che attizzarmi.
Che dire di “Blunderbuss”? Un disco più che sufficiente, considerando che dal 2007 mancavano all’arco di Jack delle vere frecce da scoccare, qui qualcosa c’è, ma niente da far strappare i vestiti e uscire nudi, urlando, sotto la pioggia. Sebbene il talento melodico sia tornato più forte che mai e l’indie pop di ‘sto cazzo e andato a farsi fottere assieme alla sperimentazione intorno alla merda dei Dead Weather, questo è un album debole e che segna la fine di Jack White come uno dei protagonisti della scena rock mondiale.
Notevole Missing Pieces, scorre che è una meraviglia, mentre è nostalgica del garage punk di un tempo Sixteen Saltines (anche se molto più vicina ai Raconteurs o a “Icky Thump” che a “De Stijl”), irresistibile Freedom At 21.
A vederlo non si direbbe mai, ma Jack White è invecchiato e parecchio. Posato, riflessivo, esterofilo fino all’impossibile, basta ascoltarsi Love Interruption, Blunderbuss, Hypocritical Kiss, Hip (Eponymous) Poor Boy, Take Me With You When You Go e On And On And On per capirlo.
Discrete I’m Shakin’ e I Guess I Should Go To Sleep.
Una volta persa la furia giovanile Jack White si è immediatamente posato sugli allori. Si può essere immuni al fascino del denaro e del successo, ma non lo si può essere all’età.
Sta per uscire il nuovo album che, temo, non comprerò. Su internet potete trovare i nuovi singoli che presentano “Lazaretto”, ascoltandoli non posso che dedurre che sarà un lavoro nettamente inferiore al sufficiente “Blunderbuss”, ma di certo non vale l’acquisto con tutta la roba che c’è a giro.
L’impatto di Jack White sul rock è stato deciso e limitato. Si è imposto subito per creatività, fruibilità e le vendite spropositate, non si può di certo dire che il suo peso storico sia notevole. Il garage rock dei White Stripes non ha mosso eccessivamente le acque, ad oggi i gruppi garage (principalmente della scena californiana) hanno altri punti di riferimento, piuttosto che rifarsi al blues del Delta preferiscono la psichedelia e lo space rock, niente Son House insomma, ma tanti Hawkwind e Blue Cheer.
Oltre ade averci regalato tre album garage di rara potenza (“The White Stripes”, “De Stijl”, “White Blood Cells”) e un album rock monumentale come non se ne vedevano dagli anni ’70 (“Elephant”) Jack White non ha dato altro. Non che sia poco, anzi, è stato uno degli ultimi rocker degni di questo nome, e i White Stripes la miglior band rock del post-Nirvana (nel mainstream ovviamente), ma di seminale non c’è stato niente o niente è ancora fiorito, sta di fatto che ad oggi le band più influenti nel garage rock (Thee Oh Sees, Crystal Stilts, Ty Segall e compagnia cantante) hanno già bellamente dimenticato i White Stripes.
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