Jümp The Shark – IUVENES DOOM SUMUS

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Come se la passa il jazz in Italia?

Dal punto di vista degli strumentisti benissimo, abbiamo degli interpreti di caratura internazionale che fanno invidia alle grandi scuole americane (esattamente come ci invidiano la Pizza e i mandolini) ma forse è sulla sostanza che dovremmo lavorare un po’…

Vi ricordate quando gli album jazz venivano acquistati a anche da chi di jazz non ci acchiappava? O quando quegli stessi album comparivano nelle classifiche delle riviste non specializzate, quando potevi benissimo trovarli a casa del tuo amico che ascoltava solo Led Zeppelin e Pink Floyd? Ecco, le cose so’ due:

  • se ricordate tutte quelle robe siete vecchi
  • se non le ricordate avete più o meno la mia età (24 anni) e sapete benissimo che il jazz in Italia, ad oggi, è una cosa per pochi, una roba d’élite, e non è una cosa buona.

So che qualcuno leggendomi imputa tale condizione all’analfabetismo musicale dilagante, ma personalmente credo sia una grossa puttanata. Squadra Omega, Architeuthis Rex, La Piramide di Sangue e in generale gran parte dell’esperienza psichedelica occulta italiana dimostra abbondantemente il contrario, un mondo dove jazz, rock, minimal, drone e noise si esprimono senza la ricerca di una maggiore fruibilità (anzi, è proprio la loro natura criptica l’unica chiave di lettura) riuscendo comunque a stanare i fan di Zep e Pink Floyd di cui sopra, ma anche quelli di Sun Ra e Mingus, senza cadere però nell’auto celebrazione.

Ovviamente ci sono le eccezioni. Piero Bittolo Bon, a mio avviso, è tra queste.

Parte di quell’ammasso di genialità senza freni di El Gallo Rojo, Bittolo Bon è il contrario del formalismo e dell’auto celebrazione, ma non è nemmeno un maniaco dell’”inascoltabilità”, di una musica estrema che non lascia via di scampo all’ascoltatore, questo perché il suo jazz è dannatamente ironico, ispirato, gioviale.

Già dal nome del progetto, Jümp The Shark, si capisce come il mondo a cui il sassofonista si riferisce non è così distante dal nostro (noi sfigati che ascoltiamo Ramones e Swell Maps), quel salto dello squalo che è ormai entrato nel linguaggio popolare di chi mastica televisione, e quindi di chi vive anche al di fuori di una torre d’avorio per soli addetti ai lavori, è un sarcastico brücke tra accademia e cultura pop.

Per questo terzo album (“IUVENES DOOM SUMUS”, titolo bellissimo fra l’altro) Bittolo Bon è accompagnato da Gerhard Gschloessl al trombone, dalla chitarra di un grande Domenico Caliri, dal vibrafono “zappiano” di Pasquale Mirra, Danilo Gallo (Guano Padano) al basso e un vivace Federico Scettri alla batteria, un ensemble affiatato e con mille sfumature (anche timbriche), che spazia dal free jazz più esplosivo fino ad una sperimentazione auto-ironica, mai cervellotica eppure di effetto (in questo senso è esilarante quanto interessante Another Venetian Self-Referential Tune).

Sebbene attento all’avanguardia, quella che Bittolo Bon prende in considerazione è la meno scolastica possibile, raggiungendo un sound talmente dinamico e coinvolgente da essere, delle volte, addirittura rock.

Non fraintendete, non intendo dire che in “IUVENES DOOM SUMUS” troverete dei pezzi degli Who o una cover dei Deep Purple, ma che l’approccio musicale è quello di una garage band che vuole prima di tutto divertirsi, anche se qui la questione non è assecondare o osteggiare la British Invasion, ma è assecondare Ornette Coleman e “Cannonball” Adderley, portandoli negli anni ’90 dominati dalla TV e dai giochi a 8-64 bit. È rock come lo intendeva Lester Bangs, musica democratica, e non è un caso se il buon Bangs reputava “dei nostri” pure un certo John Coltrane.

Dopo il folgorante esordio del 2009 “SUGOI SENTAI! GATTAI!!” (con una folle Heavy Metal Miss Jones uscita fuori dal periodo migliore di Zappa) e “OHMLAUT” del 2011, questo “IUVENES DOOM SUMUS” è l’ennesimo passo avanti per Jümp The Shark verso un jazz lontano dalle polverose accademie e dalla seriosità dei “maestri”, verso un’idea di musica che tenendo a distanza le banalità riesce comunque a coinvolgere tutti.

Insomma, potete anche tirarli fuori du spiccioli per ‘sto disco, no?

E per finire, come di consueto, qualche video:

Dal primo album eccovi Interstellar Turkish Kung Fu!

Dal secondo una avvincente Die Teuflische Quinlan (avete notato i riferimenti pop vero? VERO?)

E il promo dell’album:

Eeeee ultimo ma non ultimo…

Un breve ringraziamento è quantomeno dovuto a Alessandra Trevisan, che è stata davvero gentile a riempirmi di materiale su Piero Bittolo Bon e sul mondo attorno a lui. Ed io la ripago con questa recensione di due righe in croce. Che galantuomo.

In cucina con i Moon Hooch: ep. 1 (zuppa spagnola di lenticchie)

Ho deciso di rendere un po’ più “frizzante” il blog riempiendolo di rubriche inutili legate alle band/musicisti che seguo. ‘Ndo sta la fregatura? Semplicemente prendo i loro video su YouTube e ve li schiaffo qui, con una breve introduzione che mi prenderà, diciamo, cinque minuti del mio prezioso tempo, invece delle ORE che di solito mi servono per le recensioni (per non parlare dei GIORNI di ricerca per assicurarmi di non sparare cazzate).

Sono fiero di presentare in Italia il primo episodio di Cooking In The Cave, inquietante e malata rubrica di cucina curata da James Muschler il talentuoso batterista dei Moon Hooch.

Fuoco alle griglie.

Tenetevi aggiornati anche sui post e sulle foto pubblicate sul loro Tumblr: cookinginthecave.net!

Mope Grooves, Num Bats, The Marty Kings, Spit Shake Sisters

Se ogni tanto bazzicate su questo blog vi sarete accorti che la frequenza dei post è leggermente diminuita. Sì, beh, potremmo addirittura dire che si è azzerata del tutto, come la voce di Ian Gillian, ma c’è un motivo finalmente esente dalla mia pigrizia: gli impegni extra-virtuali. Dato che questo blog è un hobby, quindi non è un lavoro né ora né potenzialmente, ogni tanto gli faccio prendere un po’ di sana polvere (quella che gli album dei Deep Purple stanno accumulando come uno swiffer nel mio armadio).

E così invece della solita recensione vi propongo quattro album ignoranti dal sottosuolo, robaccia per feccia come me (e voi), effimera ma autentica.

a3482764700_2Lamebrain/Mope Grooves – Split (2012)

Uscito nel 2012 in musicassetta (pubblicare in musicassetta tira più della figa negli U.S.A., costa poco e fa tanto hipster nostalgico di un’epoca che spesso uno non ha nemmeno sfiorato con la memoria) vede nel lato A i bravi Lamebrain sparare un po’ brevissime perle rock, ma nel lato B vede i Mope Grooves rubare la scena con una frenesia DIY di rara coerenza. L’auto-manifesto di Mope Grooves e il realismo demenziale di My First Girlfriend sono ben più che scapestrate nenie garage punk. Il ritmo confuso e urgente di Take The Garbage Out ricorda le prime garage band, My Dick In On The Inside (Of My Brain) è un garage demenziale allucinante, il testo inoltre è piuttosto geniale «if you wanna fuck tonight/ dick is on the inside of my brain». Non è solo punk, ma è punk senza posa, senza il bisogno di esserlo ma perché lo si è. Chiude degnamente I Fell Like 15 Bucks. Recuperate queste perle, non ve ne pentirete.

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a3105976134_2Num Bats – Gentle Horror (2014)

Semplicemente la miglior band grunge in attività, con una voce alla Clementine Creevy (Cherry Glazerr) e un’indole deliziosamente punk. «To die/ you gonna die» credo sia l’inno punk più bello degli ultimi anni, una forma piacevole di dissenso contro la depressione egocentrica che spopola sul web, quell’insano bisogno di avere tutte le attenzioni su di sé suscitando pena e sconforto. Che dire dei Franz Ferdinand spurgati dai loro futili abbellimenti di I’m Broke, c’è pure un pizzico di Black Belles dove non guasta. L’indole “horror” viene fuori particolarmente in pezzi come Tommy So Hungry e Doctor 5 ma è forse l’elemento più forzato dell’album. Nota di merito invece per la “crampsiana” (almeno nelle linee di basso di Sophie Opich) The Other Angry Woman, quattro minuti davvero ben spesi. C’è ancora tanto da migliorare, ma tra le uscite di quest’anno “Gentle Horror” non sfigura eccessivamente.

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a0518920768_2The Marty Kings – XVII (2013)

L’urlo alla Ron Presley di Andy Macbain in My Way è il miglior biglietto da visita possibile per i The Marty Kings, progetto collaterale ai Tunnel Of Love (come anche i The Monsieurs sempre di Macbain), un garage pop rock viscerale con influenze che vanno dal surf alla psichedelia, è demenziale, punk, goliardico, dal vivo è come assistere ad una deflagrazione di corpi umani, immagino sia chiaro che ritengo Andy Macbain tra le menti più fertili di tutto il Massachusetts e del garage in generale. Strascicato in Talk this Way o devoto alla causa di J.T.IV come in When I’m Gone, psichedelico e “barrettiano” in Little Arthur, sempre con un’ironia che lo discosta da tutti gli altri. È dannatamente evidente che Macbain lavori con più efficacia al di fuori del punk dei Tunnel Of Love, album come “XVII” e l’esordio omonimo dei The Monsieurs (2014) sono tra il miglior garage rock degli ultimi anni, da recuperare assolutamente.

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Ehm, l’unico video che ho ho trovato è dei The Monsieurs, ma vale lo stesso, fra l’altro attaccano con l’ottima Kari Anne del nuovo album.

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a0952120887_2Spit Shake Sisters – Overdope/Modern Drugs Make Aliens EP (2013)

Sono inglesi, il che è una bella novità per questo blog. Il loro garage dalla noiosa Brighton è tutt’altro che grigio come il tanto vituperato cielo inglese, ma è imbevuto di LSD e speed, sembra di ascoltare dei Dreamsalon sovreccitati, il tutto aiutato da due chitarre delle volte quasi stoner. Piuttosto banalotti, melodie orecchiabili e niente di che in fondo, ma hanno del potenziale, sopratutto considerando la virata più incazzata che potrebbe prendere il nuovo album (o almeno il video di Blasphemer sembra promettere bene). Un pizzico di Black Lips, due gocce di Ty Segall e un po’ di altezzosità regale. Stiamo a vedere.

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Al Lover – Sacred Drugs

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Sapete che dovrei fare? Recensire i Goat.
No, davvero non sapete di chi sto parlando?
Dai gente, ne parlano in tutte le riviste, cristo anche Ondarock stravede per i Goat.
Sarebbe utile una recensione di questa band, per parecchi motivi. Intanto di traffico, sai quanta gente in questo momento sta cercando conferme su quell’album, o vuole insultare gente a caso che lo ascolta? C’è un certo hype attorno alla faccenda, ma già tra una settimana potrebbe calare. Però ho un problema. Non ho il becco di un quattrino.

Quindi eccovi Al Lover e la sua ultima fatica: “Sacred Drugs”! Che dirvi se non STATENE ALLA LARGA, porcapaletta. Al Lover è l’ennesimo figlio dei fiori psichedelico preconfezionato per gli sciroccati, lo ascoltano con trasporto solamente i redattori di Noisey e gli avventori all’Austin Psych Fest (di cui Al Lover è il dj ufficiale), i quali a inizio maggio di ogni lisergico anno si ritrovano a danzare sulle note di queste cacofonie psichedeliche, imbottiti di allucinogeni dalla dubbia provenienza.

Ho delle difficoltà ad apprezzare la psichedelia fine a se stessa. Tipo gli Acid Mothers Temple. Che cazzo c’avranno di interessante ancora non l’ho capito, e ho ben cinque album loro (il self title del ’97, “La Novia”, “Electric Heavy Land”, “Absolutely Freak Out (Zap Your Mind!!)” e “Univers Zen Ou de Zéro à Zéro”) che ascolto e riascolto ogni qualvolta un amico sgrana gli occhi perché «come fanno a non piacerti?» semplice amico mio: la loro musica non ha direzione.

Questi “artisti” stanno tutto il tempo a spararsi degli enormi rasponi metafisici sui loro strumenti, senza veicolare alcun messaggio se non le loro paturnie sull’Universo che cambiano di album in album, dipendentemente dalla loro nuovo fornitore di polvere di fata. Credo siano molto più validi album come “Parable Of Arable Land” dei mitici Red Crayola, ma pure il recente “Eleusis” degli Architeuthis Rex (che non è propriamente psichedelico, ma vabbè) , dove il rumore è sempre vettore di un messaggio, dove la musica è narrazione senza il bisogno di parole. Ma a che cacchio servono musicisti come questo Al Lover, a parte aiutarti a perderti nel labirinto dell’esistenza?

Non so nemmeno come descrivervi le tracce, dovrei elencarvi l’ordine di entrata degli strumenti? Parlare di tonalità, ritmo o emozioni e sentimenti? A me sembra una melma informe adatta solamente allo smarrimento allucinogeno, un’inutile paccottiglia di suoni, ritmi world music e nostalgia anni ’60 di una San Francisco che, grazie al cielo, non esiste più.

Ah, proprio quest’anno Mr. Lover ha lavorato ad un album con i Goat.

Ma lo sapevate che negli States sono tornate le musicassette? Ma che problemi hanno? Non mi dite che è per la crisi, per favore, queste stesse band che pubblicano in musicassetta hanno sempre disponibile la copia in digitale dell’album (che costa meno), e non dite che è una questione di purezza del suono perché tra un Flac e una biro non c’è battaglia.
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Nuovo film di Dario Argento con Iggy Pop: The Sandman!

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Ma per quale cazzo di motivo devono dare dei soldi a Dario Argento per fare nuovi film? Dannazione, è praticamente l’unico regista dei tempi d’oro dell’horror italiano che si è completamente bevuto il cervello!

Ma li avete visti gli ultimi rigurgiti del Maestro? Robe come Il cartaio (che razza ti titolo fra l’altro), quel Giallo con Adrien Brody che mi ha quasi fatto venire un ulcera al cinema e (non credevo ne avrei mai più parlato) Dracula 3D. Sul serio non c’è nessuno di più capace? Davvero?

Ma poi le premesse… Un film di natale. Già. Perché Argento s’è stufato dei film «buonisti» di natale. Però cagare sulla cinepresa non lo sfianca. Mai.

Comunque sia gustatevi questo video con l’Iguana che presenta Argento e la sua ultima “opera” (The Sandman uscirà il prossimo anno):

Ovviamente vi invito a non mandargli un centesimo, piuttosto investiteli in francobolli d’epoca.

Squadra Omega – Squadra Omega

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Quando nel 2009 ascoltai “Rennes Le Chateau” non sapevo chi fossero la Squadra Omega, non sapevo dell’esistenza della psichedelia occulta (e forse nemmeno lei sapeva di esistere ancora), ma non potei comunque non amarli.

In Italia più o meno cinque anni fa c’era una valida scena shoegaze, almeno per i critici e gli appassionati, band come Klimt 1918 e Arctic Plateau tiravano davvero tanto, ma all’epoca non mi interessava il genere, ricordo solo dei vaghi e annoiati ascolti, nulla di più. Se c’era una roba che mi sconfinferava intorno al 2009 era il kraut rock. Dopo il prog canterburyano e quello italiano, ineluttabile come la spada di Damocle mi colpì il kraut, tra capo e collo, con quei ritmi martellanti, le progressioni cosmiche, le campionature improbabili dei Faust, quella musica così universale. Tra le altre cose scoprì anche Squadra Omega.

Mi sembrava la cosa più kraut che avessi mai sentito in Italia, con quella sperimentazione ordinata anche quando sembrava un vero baccanale. Però era solo un breve EP “Rennes Le Chateau”, e tra EP e mini-album dovetti aspettare fino al 2012 per avere un cristo di disco.

Ma poi a voi che cazzo vi frega delle mie paturnie, ora che ci penso… Boh, immagino sia un modo come un altro di scrivere una recensione. Dite che dovrei cominciare a pensarci prima di scrivere? Eeeeh, però sai che fatica. Meglio così. A braccio. Come viene viene. Poi la rileggo, ci inserisco le immagini, ci metto qualche citazione se è il caso (melius abundare quam deficere) e poi la posto senza rimorsi. O quasi.

Ok, torniamo a noi. Nel 2008 esce – gratuitamente – “Tenebroso”, un mp3 live di un jazz rock pesantemente lisergico (ma mica anarchico alla Harsh Toke, è tutto molto controllato, tutto maledettamente ordinato) e chiunque lo abbia ascoltato lo ama a dismisura. C’è poco da fare, non puoi mica resistere, anche perché l’energia live della band è conturbante e la sinergia tra i musicisti è affascinante, ascoltandoli sembra proprio che non possano fare altro se non quello.

Il loro «assalto frontale» questa musica «from the third eye» citando il regista indie M.A. Litter, convince appieno. Giusto per non smentire la buona nomea delle band psichedeliche kraut anche loro sono muniti di nomi criptici, tipo OmegaG8, OmegaKakka, Omega4stagioni e così via. Diciamo solo che sono un ensemble di cinque elementi (che io sappia) che tra sfiatate di sax, chitarra distorta e il ritmo martellante della batteria sono la band dal vivo più potente che in questo momento solchi i palchi italiani. Tanto vi basti.

Squadra Omega è il frutto incestuoso di parecchie band, delle quali ne conosco solo due: The Mojomatics e Movie Star Junkies. Entrambe, sempre nel periodo delle band shoegaze italiane che vi dicevo prima, suonavano folk e blues in chiave alternative rock. Sebbene il plauso della critica a me fanno scendere parecchio le palle, ma dato che a molti sono  piaciute almeno una passata su YouTube fatevela, inoltre credo che alcune (le altre sono With Love, Be Maledetto Now!, Be Invisible Now!, Apoteosi del Mistero e The Intelligence) siano ancora in attività.

Se ci sono delle date nelle uscite degli album che non vi tornano fatemelo sapere nei commenti, secondo la pagina Facebook (che vi linkerò in fondo all’articolo) della band è tutto uscito tra il 2009 e il 2011, ma il resto di internet non è d’accordo e io sono troppo poco professionale per farlo per voi.

Sebbene nella suddetta pagina Facebook esca nel 2010, per la Boring Machines che li produce esce nel 2011 “Squadra Omega” il cd self title che manda in sollucheri chi aspettava con ansia un disco con tutti i crismi.

Sebbene momenti felicissimi, come nell’egiziana fuga psichedelica di Hemen! Hetan! – Hemen! Hetan!, manca il mordente delle focose prestazioni live, la furia ancestrale che muove i fili della band. Senza nulla togliere ai magniloquenti 16 minuti e mezzo di Murder In The Mountains, che fa piangere d’invidia tutta la scena psych (con qualunque accezione, doom, metal, garage,…) americana e europea, va detto che è nella dimensione live che Squadra Omega esprime tutte le sue potenzialità, insomma dal vivo manco sanno che cazzo andranno a suonare cinque minuti prima si salire sul palco.

Al contrario di band come La Piramide Di Sangue e di Architeuthis Rex manca un collante che dia a questa meravigliosa forma una sostanza. Certo, fa figo da morire dire che la tua musica è:

Spaceage Cubist-Free-Jazz clashes with Pygmy-Percussion-No Wave-Kraut Rock causing a sonic fusion leading to a complete derangement of the senses, an assault on the frontal lobe and permanent hallucination. This is music from the third eye.

Sì, ma che cazzo vuol dire? Poco. Personalmente non sono un sostenitore della psichedelia fine a stessa, band come Acid Mothers Temple mi annoiano a morte, però Squadra Omega ha qualcosa in più, ha una vivacità e un retrogusto mediterraneo che si sposa meglio con un’idea di un rock criptico, misterioso, ancestrale. Lo provano senza ombra di dubbio le ermetiche Hemen! Hetan! – Hemen! Hetan! e Ermete (con un finale alla Hawkwind davvero eccelso).

Ragazzi, siamo sulle frequenze dell’irraggiungibile Sun Ra e della sua Arkestra, ma Sun Ra la sua filosofia cosmica l’ha espressa compiutamente negli anni ’50, cosa c’è da aggiungere o aggiornare?

Detto questo è difficile non inebriarsi della musica prodotta da questa band italiana. Del lotto “Nozze Chimiche”, il 10 pollici uscito nel 2011 e finora la loro ultima fatica (che io sappia c’è solo una live che non ho ancora trovato), ed è un passo indietro. Ci sono echi di alternative rock (Copper), un kraut folk ipnotico magistrale (Murder in the Country) però il risultato finale mi sembra meno compatto di “Squadra Omega”, come se fosse un collage di idee scartate.

Insomma ragazzi, questa è una grande band, di quelle che tra trent’anni ricorderemo sbeffeggiando quelle dei ggiovani.


Beh, dopo la recensione di Architeuthis Rex mi sono un po’ scrollato di dosso la paura di non riuscire a recensire della musica, a mio avviso, più alta del solito. Certo, faccio schifo come prima, ma perlomeno parlo di altre cose invece del solito cazzo di garage rock. Grazie per la pazienza.

  • Link utili a voi navigatori del web: se volete spulciare sulla pagina Facebook della band cliccate QUI, se invece volete ascoltare l’album in questione (dato che, fra le altre cose, ne parlo solo in due righe) cliccate con decisione QUI.

Potevano mancare i video?

Qui il secondo cd live di una edizione (quale?) del s/t:

Architeuthis Rex – Eleusis

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Sì, la solita CAZZO di immagine sfuocata tipica di band shoegaze, drone e noise.

Fatevi avanti
ora nel sacro cerchio della dea, giocando nel bosco in fiore,
voi che prendete parte alla festa divina.
Io vado con le fanciulle e con le donne
dove c’è la veglia in onore della dea, a reggere la fiaccola sacra.

Aristofane, Le rane, Teatro di Dioniso, Atene , 405 a.C.

Nel 2012 mi imbattei in una band assolutamente fuori dai miei schemi con un nome altisonante e inquietante, li stava ascoltando il proprietario del mio spaccio di vinili preferito, il negozio era invaso da questa musica esoterica, e per quanto ci provassi non riuscivo più a ricordare per qualche dannato disco fossi entrato con venti euro in mano. Ipnotizzato da quell’andamento da messa pagana comprai quello strano manufatto. Era “Tebe”, l’album d’esordio de La Piramide Di Sangue i quali occuparono il mio stereo per parecchie settimane.

Rimasi in trance per un bel po’, come Sheri Moon mentre ascolta il disco dei Lord in The Lords of Salem, e cominciai una disperata ricerca di altro disco così particolare, che avesse quei suoni e quell’atmosfera, fu allora che mi imbattei in un album dalla cover magnetica. Rappresentava un oscuro pianeta proveniente da una qualche strana dimensione, era “Urania” di una band che non avevo mai sentito nominare: Architeuthis Rex.

Per un attimo ho sudato freddo. Cazzo, ho pensato, vuoi vedere che Antonius Rex è tornato e vuole sfornare altra merda? Forse avevo tra le mani “Neque semper arcum tendit rex” parte seconda e non lo sapevo?

Mi ci volle un po’ per scoprire che erano un duo (e che non erano i nuovi Jacula) e che erano Antonio Gallucci e Francesca Marongiu (più eventuali collaboratori) l’unica cosa di cui ero certo era che la loro musica sembrava provenire da un buco nero.

Naturalmente chiamare un album “Urania” non può che far balzare alla memoria di un italiano Arthur C.Clarke, Isaac Asimov, Lester del Rey, Rockynne, Sturgeon, insomma la fantascienza nella sua epoca d’oro, ma lo space rock drone di questa band si lega bene all’oscurità di Robert A. Heinlein, ai suoi misteri, ai suoi mostri immondi e incomprensibili.

La prima cosa che mi venne in mente ascoltando gli Architeuthis Rex fu “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream, praticamente l’opposto ideologico alla concezione di kraut o space rock dominata dalla drone di “Urania”. L’album del 1971 che si rifaceva ai suoni cosmici dei film della MGM negli anni ’50, era un volo interstellare a bordo del Bellerofonte prima di atterrare su quel pianeta proibito. Ecco, se “Alpha Centauri” rappresenta il prima gli Architeuthis Rex rappresentano lo sgomento successivo, i mostri dell’inconscio.

Eleusis” è il loro ultimo album, uscito a gennaio dell’anno scorso, dove l’Hammond e il Farfisa non ricordano per niente i giri garage della darkgaze di Has A Shadow, perché le tastiere per Gallucci servono a modellare lo spazio e non per creare melodie, mentre le percussioni tribali ci trasportano dal cosmo di “Urania” ad una terra ancestrale ma vicina a noi. Sebbene ci siano punti di contatto con gli Eternal Zio della Boring Machine, questo duo sembra più legato al black metal ambientale in tinta kraut (in una intervista Gallucci cita gli Aluk Todolo) che alla scena psichedelica.

Il mito dei misteri eleusini è il filo trainante dell’album, non ho ben capito se è un concept sul ratto di Persefone o sullo svolgimento dei riti misterici. Immagino sia importante fino ad un certo punto, perché è la circolarità il vero concetto di fondo ai misteri eleusini e al mito di riferimento, l’idea che ogni cosa ricominci, e che non ci sia morte senza rinascita.

L’album si apre con Hades una vera e propria discesa verso gli inferi che culmina nella potente Eleusis, la rivoluzione nel sound (prima cupo poi estatico) è simboleggiato da quel seme di melograno che Persefone accetta dalle mani di Ade (Pomegranates), fino alla estatica visione di Ecate (Triple Goddess). I riferimenti sono molti, potremmo anche scorgere del sotto testo (l’Ade come la morte, il melograno antico simbolo di fertilità, Ecate come un nuovo giorno e quindi la rinascita, e poi mi viene un gran mal di testa come al solito), è un viaggio completo quello di “Eleusis”, dove curiosità, paura, sgomento, speranza ed estasi si percepiscono distintamente, vi è tutto il mistero della vita umana.

La potenza evocativa di questo album lo rende uno dei prodotti più interessanti degli ultimi anni, gli aspetti esoterici qui sono un po’ più maturi che in altre band della così detta psichedelia occulta, i suoi segreti non sono mai pienamente svelati ma solo accennati.

Mentre con “Sette” i La Piramide Di Sangue proseguono un discorso multiculturale cominciato con la noise da Porta Palazzo (“SUK Tapes ad Sounds from Porta Palazzo”, album seminale composto da vari artisti uscito un anno fa) Antonio Gallucci esplora un suono meno descrittivo e più evocativo.

Se nel suo progetto parallelo denominato throuRoof Gallucci si diverte a riempire lo spazio con una shoegaze ambientale quasi del tutto avulsa dalla realtà, così aliena da annoiarmi a morte (ma magari potrebbe piacere a ernecron! [n.d.a.: ok, rileggendola mi è sortita male, è vero]), con Architeuthis Rex le idee prendono forma, non necessariamente una forma ben definita, ma è proprio questo il bello alla fine.

L’esperienza sensoriale non è una auto-celebrazione e non c’è mai un virtuosismo (nemmeno concettuale) buttato là senza un senso, piuttosto c’è un controllo incredibile sul suono e sulle emozioni/riflessioni che può far scaturire. È un album che si lascia commentare, che ha bisogno di essere condiviso per essere compreso (seppur sempre in minima parte).

Concettualmente sono molto vicini ai Mai Mai Mai in quel «noise profondamente umano» (citando Antonio Ciarletta nel numero 191 di Blow Up), ma per quanto mi riguarda “Eleusis” è la punta di diamante della psichedelia occulta italiana. Almeno per ora.

  • Link utili alla popolazione: se volete ascoltarvi gratuitamente questo gioiello allora non abbiate dubbi a cliccare QUI per la pagina Bandcamp, se volete far sapere alla band quanti capelli vi si sono rizzati ascoltando Eleusis a tutto volume cliccate QUI per la loro pagina Facebook.

E ora, come ci piace a noi, qualche video al Tubo:

Da “Urania”:

Da “Dark As The Sea”, il loro esordio del 2010:

Corners – Beyond Way

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Questa foto l’ho presa in prestito da una simpatica intervista della band su Altamont Apparel che vi linko qua: http://altamontapparel.com/articles/2014/08/19/interview-with-corners-2/

Compagni di merenda di Mr. Elevator & The Brain Hotel, Froth, Wyatt Blair e Adult Books i Corners sono una realtà molto interessante, figli anch’essi della Lolipop Records, piccolissima etichetta con grandissime idee.

Tre quarti della band sono ingeneri del suono (Billy Changer addirittura della stessa Lollipop), e la cosa potrebbe stupirvi non poco ascoltando “Beyond Way” il loro esordio del 2012, registrato così male da sembrare un’offesa al buon gusto, ma questi quattro ragazzi invece la sanno proprio lunga.

Più che garage il loro è un post punk che strizza l’occhio ai Gun Club (anche se il loro punto di riferimento sono i Velvet Underground), che si esprime in vibrazioni, echi di suoni, rimandi appena sfiorati e melodie drammatiche (il peso di J.T. IV sulla scena californiana è davvero pazzesco, finora del tutto ignorato dalla critica).

Infatti l’album in questione non vive di pezzi singoli che risaltano, o di hit da classifica, è piuttosto un viaggio nella Los Angeles dei Corners. Bad Habits esprime bene questo concetto, con quelle voci in sottofondo del tutto ignare della musica sempre più rumorosa e rabbiosa.

Chiazze di rockabilly e surf rock si scorgono in quello che verso The Greatest ormai ci sembra un sogno. Ma sono tutte impressioni, idee buttate qua e là modellate con una saggezza e una precisione micidiale, che nell’impatto generale sfugge.

Certe volte sembra quasi di sentire dello shoegaze come in Give me a Reason, ma la faccia tosta da punkers casinisti non scompare dietro ad un wall of sound, potete scommetterci.

La relazione tra liriche e musica è assolutamente notevole, considerando che in questi tempi si scarseggia un po’ di qualità nei testi (Ty Segall, Jeffrey Novak, Cronin, siete tutti colpevoli) a metà tra Brian Jonestown Massacre e Nun. Questi Corners sono favolosi, pezzi come Beyond Way sono talmente perfetti da fare male. È come ascoltare la voce dannatamente inadeguata eppure espressiva di J.T. IV in Out of the Can.

Fidatevi, i Corners sono molto più di quello che sembrano.

Non ho citato i Nun a caso, data la deriva elettronica del nuovo album uscito a Giugno di quest’anno (e qui si sente prepotentemente l’influenza di Billy Changer sulla band, se vi va ascoltatevi se ci riuscite “2 in 1” firmato Tracy Bryant/Billy Changer) , un capolavoro new wave con i contro cazzi di cui avremo modo di parlare un’altra volta.

  • Link utili: se morite dalla voglia di ascoltarvi questo strano e curioso album cliccate con veemenza QUI per la pagina Bandcamp, se volete mandargli tanti poke (ma si usa ancora?) cliccate dolcemente QUI per la pagina Facebook della band.

Moon Hooch – Moon Hooch

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Questa è la volta buona che mi incazzo sul serio.

Sapete chi sono i Moon Hooch? Beh, un giorno tre studenti della prestigiosa New School for Jazz and Contemporary Music di New York scoprirono di avere un alchimia speciale, due sassofoni e un batterista che non ci sta di testa decisero di fare dubstep senza un cazzo di dj tra le palle. Praticamente la band che dal vivo sta bruciando tutti i palchi di New York da almeno tre anni.

Dinamici, virtuosi, incazzati e schifosamente snob, più suonano e più si spogliano, persi totalmente nella loro musica viscerale e incessante. Bene, a questo punto vi chiederete che ci incastra una mia incazzatura con tutto questo. Facile: l’ultimo album dei Moon Hooch fa cagare.

Oggi recensisco il meraviglioso s/t dell’anno scorso, ma quest’anno è uscito “This Is Cave Music” e dunque parleremo anche di questo obbrobrio (o lo insulteremo e basta).

Questo incontro alchemico tra dub, jazz e house loro la chiamano cave music, grazie al leggendario Mike Doughty (già, quello dei Soul Coughing) diverranno ben presto delle leggende non più dell’underground ma una band capace di infuocare rocker come appassionati di house music.

Secondo una filosofia banale ma geniale al tempo stesso i Moon Hooch si concentrano nel riprodurre la musica normalmente legata a synth e all’elettronica (o ai dj) con una strumentazione più materiale che mai.

Un bel pensiero, abbandonato decisamente in “This Is Cave Music”, dove la band vuole (e lo dice esplicitamente) “sfondare”, tentando di accalappiarsi un pubblico più vasto con della musica proporzionalmente sempre più di merda.

Ma questo non è un ragionamento di pancia, sia chiaro, perché la questione del pubblico vasto e menate varie le ho scoperte dopo aver ascoltato l’album. Ribaltando il concetto con cui i Moon Hooch avevano creato un sound unico ed esplosivo sono diventati banali e ripetitivi, la loro carica live si è persa quasi del tutto e la sperimentazione musicale è diventata sempre più masturbatoria e meno stimolante.

Ma parliamo di “Moon Hooch” e del suo immane casino.

Se le virate del sax in Tubes spaziano dall’anarchia ad un dub veloce e pulitissimo (sostenuto dalla tecnica perfetta di Mike Wilbur e Wenzl McGowen) il drumming nevrotico di James Muschler è un perfetto colante, quando non si scompine del tutto in un dinamismo febbrile come in Number 10. Il suo lavoro di piatti in Number 2 è delizioso, mentre Wilbur si lascia andare ad improvvisazioni al limite e McGowen mantiene la sezione ritmica solida, roba che dal vivo ossigena il cervello, credetemi.

Number 9 è il pezzo d’apertura e anche un po’ la marketta dell’album, energico ma appetibile, un manifesto di un modo di intendere la musica che, quantomeno, cerca di essere originale.

I virtuosismi non mancano mai, come pure le influenze (in Number 1 c’è un che di Raphael Ravenscroft) i momenti dub sono stupefacenti, in particolare quanto si mescolando ad un jazz quasi accademico come in Low 3.

Inutile ma esplicativo della rivoluzione concettuale nell’album successivo la ammaliante Mega Tubes con una tale Alena Spanger alla voce.

I Moon Hooch sono stati una ventata d’aria fresca a New York, del tutto avulsi da una scena in particolare ma con la voglia di crearla con loro e la loro cave music al centro. Peccato che al primo appuntamento per la riconferma abbiano perso il treno, e questo mi fa davvero incazzare. 

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E ora, come di consueto, qualche video!

Spizzichi del talentuoso Muschler da solo con la sua batteria:

Godetevi la nuova “estensione sperimentale” portata in tour l’anno scorso: