Magic Shoppe – Triangulum Australe EP

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Ieri abbiamo parlato del Boston Fuzzstival, un evento che riunisce i più talentuosi complessi new garage, psych e derivati vari del Massachusetts e dintorni. Alla fine dei conti la line-up non è che sia un granché, tante belle speranze, ma sopratutto tanto conformismo, un evento assai tragico in un genere come il garage, oggi appiattito dalla moda esplosa in California.

La colpa, probabilmente, sta nell’aver ridotto la furia iconoclasta del garage rock (penso ai Monks, ai Troggs, agli Stooges) al semplice DIY (Do It Yourself), che aveva ancora un senso nell’hardcore punk, un senso perlopiù politico o comunque di antagonismo, ma oggi nell’era di internet, di Soundcloud e Bandcamp, significa che chiunque prenda una chitarra in mano e suoni “alla Sonics” faccia del sacro e intoccabile garage rock.

Ogni tanto ci siamo trovati di fronte a band che, sebbene apprezzino il movimento in sé, cercano di esporre una offerta musicale non proprio piatta come come l’encefalogramma di Gasparri. Ho recensito Ausmuteants (adorati dai garagisti italiani, giustamente), Nun, Dreamsalon, Molochs, Running, i Thee Oh Sees prima che a Dwyer gli fondesse il cervello, robe così insomma.

Quello che voglio dire, prima che vi posti la foto di io che mi masturbo rileggendomi («mmm, oooh come sono bravo, mmm»), è che i Magic Shoppe da Boston, Massachusetts, potrebbero rientrare tra quei gruppi che non si limitano a scopiazzare Moby Grape e compagnia cantante.

Al primo ascolto di ”Triangulum Astrale” li ho scambiati per i Brian Jonestown Massacre, e mi è sembrato un punto a favore mica male. Pensai: nel girone infernale della neo-folk-psychedelic ho forse pescato qualcosa di davvero interessante?

Magic Shoppe è un progetto di Josiah Webb, già collaboratore dei Ghost Box Orchestra (altra famosa realtà bostoniana) e batterista nei Difference Engine (band shoegaze degli anni ’90), che consta di ben quattro chitarristi, più un basso e batteria, senza contare almeno una quindicina di collaboratori esterni.

Da questo numeroso brain-storming uscì nel 2010 il loro primo EP, “Reverb”: un nome, una religione. Cugini moderni dei leggendari Spacemen 3, ma senza scadere nel revival copia-incolla, questi sei ometti si produssero in quattro tracce una più tosta dell’altro. Sì, ok, i riverberi, sì ok, l’eterno wannabe Velvet Underground, ma pezzi come Dead Poplar mica crescono nel giardino sotto casa tua. L’EP sembra nostalgico, ma non lo è nella sostanza, e sopratutto si rifà alla seconda età psichedelica senza scimmiottarla.

Nel 2011 con i quattro pezzi di “Reverb” più altri quattro completano il loro primo album: “Reverberation”, piuttosto osannato dalla critica underground che lo ha ascoltato (quindi due o tre blog), ma per me uno strano intruglio di cose che non mi sarei mai aspettato dopo il primo EP, e che mi lasciano talvolta più perplesso che convinto.

Time To Go sembra una canzone uscita fuori da un bootleg di Peter Gabriel, Transparency è un mix di shoegaze e soft rock non proprio riuscito, Haunted Hollywood è brutta anche senza i miei commenti, alla fine della giostra Burn Right Through è l’unica novità degna di nota. L’album però riscontra un certo interesse, anche perché, ed è vero, non è la solita sbobba.

Sembra che si sia persa la verve iniziale, e poi nel 2014 arriva questo EP che tutto potrebbe sembrare tranne che un album dei Magic Shoppe.

Sì, l’eco dei riverberi è rimasto (come anche quell’intro che apriva ogni pezzo di “Reverberation”, qua presente solo nella prima traccia), ma il suono è più caldo e acustico. Sembra quasi che i Brian Jonestown Massacre siano passati per fare quattro chiacchiere, e tra una lager e una canna ne sia venuto fuori questo EP.

Struttura dronica, grande cura del suono (con tutti i limiti di una produzione da due lire), ottima intesa tra i musicisti e sopratutto qualcosa da dire. Trip Inside This House e Midnight In The Garden potrebbero benissimo essere uscite nel 1995, magari nel secondo album dei soliti Brian Jonestown Massacre, ma al contrario del piglio elettrico e anarchico di “Methodrone”, qua si respira un’aria più riflessiva, e probabilmente Webb tira anche troppo sul freno a mano.

Non è un caso se il pezzo più intrigante di questo lavoro sia Shangri-La In Reverse, davvero una perla rara: sitar, le registrazioni delle chitarre mandate al contrario, campane tibetane, eppure con una personalità LORO, senza dover per forza sembrare dei cazzo di figli dei fiori come i Lejonsläktet!

Con più coraggio questa potrebbe essere una grande band, retaggio shoegaze, animo alternative anni ’90, buona conoscenza della psichedelia anni ’80, e una solida àncora che li lascia ormeggiati al nostro tempo.

Stiamo parlando solo di impressioni, di idee buttate lì, ma se qualcuno con un po’ più di coraggio è in ascolto forse potrebbe cavarci fuori qualcosa di interessante. E scusate se è poco!

All The Way è il pezzo che apre il loro primo EP, gustatevelo in live:

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