L’inconscio e la musica della macchina di metallo

Articolo di: bfmealli

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Se l’inconscio avesse un suono quello sarebbe il feedback della chitarra. E se l’Ego di questo strumento venisse filtrato da quel Super-Io che è il musicista allora il sibilo incontrollato dei pick-up troppo vicini all’amplificatore, sarebbe sicuramente l’Es. Non è un caso che tale tramestio venga percepito dalla massa come mero rumore, rigettato dai più come fastidio acustico e nulla più quando invece, alcuni artisti, ne hanno fatto un complesso argomento di studio musicale.

Prima che divenisse di dominio pubblico – tanto è vero che Paul McCartney si accreditò la paternità di essere stato il primo ad usarlo in una canzone – il feedback era qualcosa da evitare: la parte più fastidiosa della chitarra elettrica, quel difetto che invece la chitarra acustica non poteva giocoforza avere.

Per questi motivi posso tranquillamente affermare che Metal Machine Music sia il disco più psicanaliticamente interessante di tutto il panorama rock. Oltre alle premesse suddette prendo in esame anche le uniche parole presenti nel disco: le note di copertina scritte di proprio pugno da Lou Reed. E’ interessante, dunque, l’analisi che l’autore fa del suo disco come rock reale su cose reali mentre critica quel movimento ultimamente imbarazzante quale l’heavy metal rock etichettandolo effetto periferico nonché distorto di quella realtà che questo album possiede.

Se poi prendiamo un attimo in esame il privato di Lou Reed, nel 1975, anno di nascita di Metal Machine Music, ci troviamo davanti ad un povero musicista derelitto scarnificato, strafatto, insoddisfatto ed infelice reduce del suo ultimo disco di studio che lui stesso definiva mediocre (testualmente: “E’ incredibile. Più faccio schifo e più vendo. Se nel prossimo disco non compaio affatto arriverò al numero uno”) più due live ordinatigli dalla casa discografica; tra trans e pere di amfetamina scandiva la propria settimana con gli anni dei suoi fans ma, nonostante tutto, sentiva che doveva dare qualcosa a sé stesso, all’artista che pensava di essere: doveva dimostrare che i primi due dischi dei Velvet Underground non erano un caso isolato e, soprattutto, non erano prevalentemente merito di John Cale (anche se rimarrà sempre emblematico il distinguo che il gallese apportò alle composizioni di Lou Reed che, da band folk-blues con tematiche in netto contrasto col flower power di quegli anni, i Velvet Underground divennero la band di riferimento del Rock).

Così Lou Reed intuisce che persino la chitarra può mentire, può essere ipocrita, può nascondere e può venderti. L’unico modo per poterla davvero comprendere per quello che è realmente è il feedback: ovvero il corrispettivo strumentale di una seduta psicanalitica. In questi quattro lati di 16 minuti e 10 i dispari e di 15:55 i pari c’è l’inconscio che vaga come il flusso di Molly Bloom nell’ultima parte dell’Ulisse: niente punteggiature, nessun capoverso, nessun ritmo, nessuna nota; i pensieri sono sconnessi così come lo è l’ondata di rumori, non ha riferimenti, non ha una direzione, è memoria ed essenza. E’ per questo motivo che nell’intervista di Lester Bangs Lou Reed non fa provocazione asserendo che in questo disco puoi sentirci passaggi di Vivaldi, di Beethoven e di Mozart, qua dentro c’è tutto e di più, nella stessa forma distratta, distorta ed astratta che hanno i sogni.

E questo album usciva, guarda caso, solo pochi anni prima che esplose quel movimento rumoristico che fu chiamato No-Wave, dove il feedback veniva alzato come bandiera distintiva. Anche se fu un totale disastro commerciale tanto da venire ritirato dal commercio solo tre settimane dopo l’uscita, voglio credere che sia grazie a Metal Machine Music se poi il feedback è stato “accettato” dai musicisti come parte integrante della chitarra, nonostante la maggior parte dei chitarristi continui ad usare il feedback come elemento di disturbo e non come segmento di coscienza dello strumento.

Il secondo singolo degli Who, che precede di dieci anni esatti Metal Machine Music, Anyway, Anyhow, Anywhere, ha, a metà canzone, durante lo strumentale, come colonna portante un feedback switchato (che poi sarebbe diventato uno dei marchi distintivi di Pete Townshend) che sovrasta la sezione ritmica; sarà stata la giovane età del rock e della chitarra elettrica ma, come venne distribuito, i negozianti rispedirono al mittente quel disco reo di contenere un rumore infernale a metà canzone. Mi piace pensare che il vero motivo dell’incomprensione sia stato averlo riconosciuto più che un errore tecnico come un lapsus.

Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui:L’algebra del bisogno.

3 pensieri riguardo “L’inconscio e la musica della macchina di metallo”

  1. Vi piace proprio eh, questo Metal Machine Music? 🙂
    Anche se non ho la minima voglia di riascoltarlo, trovo molto positivo il fatto che abbiate rivalutato, con punti di vista molto interessanti, un’opera odiata e dimenticata dai più.

    "Mi piace"

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