The Rolling Stones – Between The Buttons

The Rolling Stones
Etichetta: Decca 
Paese: Regno Unito
Pubblicazione: 1967

Everything is going in the wrong direction.
The doctor wants to give me more injections.
Giving me shots for a thousand rare infections
And I don’t know if he’ll let me go

Me ne accorsi un anno fa più o meno, che già faceva freddo. Subito dopo essermi sparato “Between The Buttons” metto sù “Sticky Fingers” e già dal riff di Brown Sugar mi rendo conto che manca qualcosa. Mi metto a giocare con l’equalizzatore per un po’, eppure già arrivato ai dolci solchi di Wild Horses quella strana sensazione continua. Manca qualcosa. Forse è il surround. Magari è la manopola che regola i toni alti che si è allentata di nuovo. Io non sono un tipo da ballad, e sebbene Wild Horses sia costruita a regola d’arte per farti venire il magone, come la sequenza del cappottino rosso in Schindler List, mi lascia comunque indifferente. Quella volta però c’era qualcosa di nuovo, quella fastidiosa sensazione di vuoto, come se il suono fosse troppo pulito, modellato su insensibile plastica. Così mi venne un’idea.

Metto sù “Beggar Banquet” da Stray Cats Blues. Ascolto attento. La prima cosa che penso, lo giuro su Frank Zappa, è: cazzo come ci stanno bene quel cazzo di mellotron e il piano. Ci sono più Velvet Underground qui che nell’ultimo dei Parquet Courts. Che poi si dice sempre Heroin, ma io ci sento I’m Waiting For The Man invece. Opinioni. Che arrangiamento, che densità sonora. Cambio, metto Bitch da Sticky. Bel riff eh, però basta insomma. Sì, c’è più tiro del solito ok, suona più “rock” in un certo senso, concluso lo storico e controverso contratto con Decca gli Stones suonano più cattivi, più tirati e ovviamente più volgari, però l’ambiente sonoro è piatto, tirato a lucido e con le cazzo di chitarre davanti a tutto il resto (inoltre Mick Jones è come il cheddar, mi risulta sempre più indigesto con l’avanzare dell’età).

Di nuovo cambio, stavolta tocca a Please Go Home da Between. Non mi era mai piaciuta tanto. Non mi basta più tenere il tempo con il piede. La chitarra a destra stile Bo Diddley vibra finché non diventa un miraggio desertico alla Link Wray, la batteria a sinistra martella ipnoticamente, persino la voce si perde a tratti, il contesto sonoro è impreziosito da Wyman e dall’oscillatore suonato da Brian Jones. Brian Jones. Che idiota. In “Sticky Fingers” non c’è Jones. Who’s Been Sleeping Here sta scorrendo sul piatto e io mi rendo conto di quanto Jones oltre ad aver chiaramente dato un importante contributo alla band come fine musicista, ne era invece il principale interprete dell’ambiente sonoro, un paziente costruttore di oscillazioni, temi impercettibili eppure fondamentali per il concetto, vibrazioni febbrili, rifiniture tutt’altro che masturbatorie. Brian Jones stava agli Stones come Blixa Bargeld a Nick Cave.

Dite quello che vi pare ma anche se Jones non appare, il suo spettro si aggira ancora in Gimme Shelter, nella cura maniacale di quella atmosfera vertiginosa che caratterizza l’apertura di “Let It Bleed”. Lo si sente ancor di più con l’ascolto in successione di “Sticky Fingers” e “Exile On Main Street”. Ho sempre considerato Exile come una sorta di compendio della grandezza degli Stones, eppure mentre All Down the Line scorre piacevolmente di sottofondo lo sento ancora, quel vuoto. 

“Between The Buttons” è decisamente il capolavoro dei Rolling Stones, ad oggi riesco a vederlo molto più chiaramente, e lo dico sebbene sia consapevole che sia stato in pratica il loro unico grande flop durante il periodo d’oro del rock inglese. Ovviamente continuo a considerare “Aftermath” uno degli album fondamentali per comprendere il rock, ma in Between esiste una coerenza di fondo inedita per la band, oltre che una cura al dettaglio che non svilisce la forza dei singoli pezzi.

Ora non voglio fare le distinzioni alla cazzo: arte o non-arte, perché il rock è sopratutto intrattenimento e non roba da sedie di velluto da ascoltare sorseggiando un cocktail (urgh!), poi è chiaro che chi scrive preferisca Klaus Schulz ai Chicago o “Metal Machine Music” a qualunque album dei Farfuglio (/Foo Fighters), ma nemmeno sono abituato a negare i fatti: quando leggo le righe di passione di Klosterman per i Mötley Crüe non posso non amarli un po’ anche io proprio perché quintessenza della cazzoneria e dello show a stelle e strisce.

Ora: non so che volessi dire con questa cosa dei Mötley Crüe, non ci capisco più niente fedeli seguaci, ma quello che so (oltre al fatto che come al solito non correggerò questo post, perché non ho il tempo nemmeno per guardarmi allo specchio da mesi) è che sì: “Aftermath” è imprescindibile, “Beggars Banquet” è molto più catchy (Dear Doctor mi esalta ogni volta che l’ascolto, come ha fatto un gruppo con questa sensibilità a scrivere cose come Too Tough resterà per sempre un mistero), ma il vero gioiello di questa leggendaria band resta quell’esperienza pop-rumoristica-lisergica di “Between The Buttons”.

Non diciamo psichedelia per favore, che col Texas e gli Acid Test i Rolling Stones c’entrano come i cavoli all’apericena (oppure si usa? che cazzo è un’apericena?), non diciamo progressive che facciamo ridere perfino quelli di Rockit. Between è il lavoro più inglese della band londinese per eccellenza, peculiare proprio per la sua forte connotazione nazionale, uno sguardo disincantato verso il passato che deflagra definitivamente tra She Smiled Sweetly e Cool, Calm & Collected. Jagger non fa più i versacci, Richards non è quasi mai in primo piano, stavolta protagonista impercettibile un cromatismo che a parer mio si magna tutto Sgt. Pepper, grazie allo sforzo profuso dalla mente perfezionista di Brian Jones.

Saturo come nessun altro album degli Stones, a parte forse “Their Satanic Majesties” che per me è quasi tutto pattume (ma che oggi vive una stagione di rivalutazione ingiustificata e francamente ridicola), composto nel momento più fertile della storia della musica rock, quel 1967 che vide al massimo splendore pesi massimi come Small Faces, Red Crayola, Lovin’ Spoonful, Kaleidoscope, Godz e Fugs, Electric Prunes, Doors, Deviants, Byrds, la blues band di Butterfield, Pink Floyd, Moby Grape, Love, Leonard Cohen, Velvet Underground, un 1967 che gli Stones riescono a segnare con un’opera molto più complessa di quanto possa sembrare dopo un paio di ascolti, o nel mio caso anni. Posso dire a mia parziale discolpa di non essere mai stato il primo della classe, se buttate un occhio alle vostre spalle io ero quello che all’ultimo banco disegnava le avventure di Conan il Barbaro con i pennarelli Carioca.

Ora non è che Sticky e Exile siano da buttare, proprio qualche giorno fa (settimane? mesi? anni?) elogiavo il dialogo omoerotico tra Richard e Mick Taylor in Can’t You Hear Me Knocking, ma alla luce della densità maniacale di Between, che badate bene non è il solito barocchismo dimostrativo delle avanguardistiche tecniche di produzione tipicamente inglese, ma bensì consapevole costruzione di strati sonori che veicolano un (TRIGGER WARNING) messaggio, non posso che lanciarli giù dal balcone, cercando di prendere in testa il condomino con la passione per i Nazareth. 

L’avessero scritta nel 1971 Who’s Been Sleeping Here assomiglierebbe probabilmente ad una ballad qualsiasi, senza quel meraviglioso ingolfarsi della batteria nel mezzo, e avrebbe un Richard in primo piano, magari acustico, a coprire qualsiasi mancanza compositiva. She Smiled Sweetly sembra uscita fuori da qualche musica per parata, Jagger accompagnato da un organo da chiesetta di periferia, col pianoforte che compare a destra per sottolineare la struggente melodia, senza eccessi di patetismi o dramma, dannatamente inglese. Il pop storto di Connection possiede uno spleen formidabile considerando che dura un minuto e mezzo senza grandi cambiamenti, e dove l’urgenza delle parole si sposa perfettamente col basso percussivo di Wyman. Yesterday’s Papers è forse l’unico pezzo che non mi ha mai convinto del tutto, con le solite infiltrazioni classiche che caratterizzano il pop inglese del Merseybeat, che disprezzo con tutto il cuore perché fini a se stesse, arzigogoli che impreziosiscono una scrittura che però esprime un sacco di banalità. Ma subito dopo il lavoro del solito Wyman al piano elettrico in My Obsession fa passare ogni paura. Senza Jones questi preziosi passaggi si perderanno per sempre dietro il primato del riffone spacca-caviglie. Miss Amanda Jones vede alla destra Wyman e Richards, alla sinistra Jones e Ian Stewart al piano, un rock n’ roll col piglio del miglior Jerry Lee Lewis ma arrangiato deliziosamente.

I più attenti di voi si saranno già accorti da un po’ che parlo della versione inglese dell’album e non di quella USA, sinceramente non me ne frega molto a quale versione siete più affezionati, sono entrambe il capolavoro degli Stones per me, sebbene qualche purista sicuramente rabbrividirà a cotanta affermazione.

Bruciate le vostre copie di “Some Girl” e “Undercover” eretici, Cristo di è fermato a “Between The Buttons”.

Genesis – Selling England By The Pound

trasferimento

Etichetta: Charisma Records
Paese: Regno Unito
Pubblicazione: 1973

Young man says: «You are what you eat.» Eat well.
Old man says: «You are what you wear.» Wear well.
You know what you are, you don’t give a damn,
bursting your belt that is your homemade sham.

Il mio primo CD in assoluto fu “Selling England By The Pound” dei Genesis, e rimase il mio preferito fino alla prima liceo. Negli anni SEBTP l’ho ascoltato tante di quelle volte da poterlo recitare senza canticchiarlo, sempre meno estasiato dal dipinto morale di una Inghilterra vista attraverso un occhio freddo e poco perspicace.

Ci sono stati anni in cui credevo sinceramente che Peter Gabriel fosse una sorta di mente superiore gentilmente regalata al rock, e qualsiasi cosa uscisse con sopra il suo nome la dovevo possedere e ascoltare fino allo sfinimento. Adesso i suoi album, collection e live riempiono silenti una cassa di cartone in garage, probabilmente per non uscirne per un bel po’ di tempo.

Cos’è successo esattamente non lo saprei nemmeno dire, forse la colpa sta tutta nell’aver sviluppato interessi diversi, che la musica raffinata e cerebrale dei Genesis non poteva e non può più soddisfare. Essenzialmente ascoltarmi “Foxtrot” o “Trespass” mi lascia indifferente e il più delle volte tremendamente annoiato. Laddove prima c’era un entusiasmo incontenibile per quegli intrecci perfettamente soppesati, le armonie di Banks e Rutherford, gli assoli di Hackett e il lirismo di Gabriel, adesso c’è solo una malcelata forma di fastidio.

L’album in questione è del 1973, considerato da molti esimi critici come la vera svolta della band. Il tema centrale è una confusa critica alla mercificazione del Regno Unito, con tanto di invettiva finale ai supermercati indicati come simbolo della colonizzazione del diavolo americano, niente di nuovo insomma. Corroborato da una quantità smodata di figure retoriche e giochi di parole, le liriche di Gabriel seguono il corso eclettico della musica saltellando qua e là tra una citazione aulica e delle criptiche metafore anti-capitalistiche. La musica dei Genesis è diventata un flusso ininterrotto di strumenti che si rincorrono senza però una meta da raggiungere.

Il prog inglese non è il primo tentativo nella storia del rock di legittimazione culturale da parte del rock stesso, ma di sicuro è quello più volutamente intellettuale e sofisticato, raggiungendo vette insperate di tecnicismi (Weather Report, King Crimson, Gentle Giant e Yes su tutti). Nel caso dei Genesis questa estenuante ricerca di fare del rock “bello”, esteticamente profondo e al tempo stesso fruibile a più livelli (la loro declinazione teatrale), denunciava però una serie di mancanze lapalissiane. Prima tra tutte proprio la declinazione teatrale, vetusta e molto lontana dalle grammatiche del teatro dell’epoca, inciampando in banalità e pretenziosità corrette solo dalla impeccabilità delle performance musicali.

Come in “Trespass” anche in SEBTP protagonista dei primi istanti dell’album sono le parole di Gabriel, sempre compassate e piene di magia, ma poco ci vuole perché quegli attimi costruiti con una maniacale cura al dettaglio (Hackett in sottofondo che crea una texture strepitosa, vibrante e paranoica, Banks che drappeggia armonie che giocano con il canto di Gabriel) deflagrino in una composizione inutilmente roboante e ultra-tecnica. Dopo pochi ispiratissimi minuti la musica ormai sfugge come indispettita dal tentativo di ridurla ad un vettore per un concetto, e si libera promuovendo la sua complessità armonica, cromatica e timbrica senza alcuna necessità estetica.

Questo diventa ancora più chiaro in Firth Of Fifth:
The Mountain cuts off the town from view,
Like a cancer growth is removed by skill.
Let it be revealed!
A waterfall, his madrigal,
An inland sea, his symphony.
Il buon pastore in Firth è simbolo dell’uomo conciliato alla natura, la città invece il cancro da estirpare. Nella più classica e banale delle forme di protesta tipiche della musica progressive degli anni ’70, i Genesis incastonano il loro più splendente gioiello tecnico. Nove minuti e trentotto secondi eseguiti con una perizia fuori dal comune, un meccanismo perfetto e inattaccabile, ma disperatamente autistico. Firth Of Fifth è in un certo senso l’opposto di Sister Ray dei Velvet Underground, è musica per il piacere di fare musica, è catarsi negli incastri, negli stacchi, nei cambi armonici, è un vuoto esercizio. Ci vedo una curiosa somiglianza con le filastrocche della Grecia antica, le quali venivano proferite a una velocità impossibile per raggiungere una forma d’estasi dovuta unicamente alla mancanza d’ossigeno nel cervello. Quando ascoltavo l’album al liceo Firth era la mia parte preferita, e credevo veramente che ci volesse un certo garbo nell’ascolto per apprezzarla, e che non fosse da tutti emozionarsi per quelle delicate intelaiature, quei repentini cambi di tempo, per quella grandiosità epica e fiabesca. Quella tenera saccenteria è scomparsa, non solo di fronte all’evidenza che SEBTP è un album che ha venduto più di 5 milioni di copie – credo, per cui evidentemente a qualche altro cristiano qualcosa gli avrà detto, ma è scomparsa anche dal constatare che la tecnica non è il fine a cui la musica rock dovrebbe tendere, ma un mezzo come tanti altri.

Questa affermazione mi pare ancor più veritiera riascoltando certi pezzi: niente in The Battle Of Epping Forest fa pensare ad una battaglia, ma piuttosto ad una hit che in certi dinamismi anticipa il lavoro di Collins alla guida della band. Il tutto farcito dalle solite liriche che girano attorno alle questioni, insinuano dolcemente senza mai scontentare un certo gusto tutto inglese al gioco di parole. After The Ordeal sembra un pezzo scartato dalla Third Ear Band perché inutilmente complesso. [Pensando alla Third Ear Band mi viene in mente che il loro “primitivismo” e la tendenza ad una musica sempre più astratta e ancestrale sia ancora oggi molto contemporaneo (La Piramide di Sangue, Squadra Omega, Mai Mai Mai, etc.) mentre il soliloquio dei Genesis si è fermato ai tremendi Porcupine Tree, non riuscendo a svilupparsi in un linguaggio contemporaneo che non soffra palesemente di una carica nostalgica che sommerga ogni pretesa artistica.]

L’album si conclude riprendendo il tema di Dancing With The Moonlight Knight, con Gabriel che elenca una serie di prodotti prezzati al supermercato nel ricamato tappeto musicale di Banks, Collins e Hackett. Delle prime bellissime e dolci note resta giusto questo geniale commiato, Aisle Of Plenty in un minuto e mezzo riesce ancora oggi ad regalarmi una forte emozione, anch’essa però feroce e indomabile figlia della nostalgia, un ricordo di quando la musica era solo musica ed era tutta ugualmente bellissima.

 

 

 

Frank Zappa, Gang Of Four, Miss World

La faccio breve: in questi mesi ho avuto parecchi cazzi da pelare, per cui non rompetemi il gatto. «Vabbè, però avrai sicuramente ascoltato un po’ di musica!» Vero, però poco rock ’n roll, e sopratutto pochissima roba uscita di recente ma quasi ed esclusivamente riascolti di vecchi album. Potrei scrivere di Sage Francis, Thundercat, della Camerata Nordica o di Mahler, ma sono abbastanza sicuro che quello che ne verrebbe fuori sarebbero una cascata di banalità e stronzate colossali, e dato che per quello c’è già il Rolling Stone non vedo perché mi ci dovrei mettere pure io. Alla luce di tutto ciò vi lancio qualche brevissima istantanea (perché non sono recensioni) e due o tre riflessioni estemporanee, leggere come l’aria.

Frank Zappa - Apostrophe'Frank Zappa
Apostrophe
(1974)

Tra Settembre e Dicembre mi sono ripescato tutto lo Zappa dai “Lost Episode” targati 1959 fino a “Joe’s Garage” del ’79, in una sorta di delirio nostalgico per i tempi che furono quando al liceo scoprì questo pazzo baffuto. In un moto di rivalutazione sentimentale mi sono persino ritrovato ad apprezzare “Cruising with Ruben & The Jets”! Quasi mi stavo per sparare un album dei Climax Blues Band in questo clima riappacificatorio e dolciastro, e devo dire che stava andando tutto benone, ascoltando “Over-Nite Sensation” credo di aver avuto persino un’erezione durante l’assolo di Zomby Woof. Poi però è successo, di nuovo. La magia è scomparsa e tutt’un tratto Zappa mi è sembrato uno dei peggiori bastardi della storia del rock. Tutta colpa di quel pasticcio commerciale e ruffiano di “Apostrophe”.

La musica di Zappa dal 1974 si è trasformata da provocatoria a idiota con un colpo da maestro. Completamente rincretinito dalla sua stessa grandezza Zappa ha cominciato a riciclarsi e a spostare la sua attenzione verso la perfezione estetica dell’esecuzione, producendo una quantità incontenibile di musica fine a se stessa, caratterizzata  nei momenti migliori da lunghissime elucubrazioni elettriche, altrimenti ti toccavano oscene derive pseudo-sperimentali (“Francesco Zappa”), e in generale tutte le sue canzoni divennero metafore più o meno dirette su quanto ce l’avesse lungo.

Non è che tutto quello che sia uscito dopo il ’74 sia merda chiaramente, ci sono parecchi pezzi che si salvano dal generale appiattimento della produzione zappiana, ma sono monadi, brevi esternazioni di un genio un tempo incontenibile.

Anche nei suoi album meno riusciti prima di “Apostrophe” Zappa conservava comunque una fortissima coerenza concettuale, completamente mandata a puttane per favorire la catarsi delle live, lunghissimi flussi di coscienza che cominciavano e si concludevano nell’esaltazione delle sue doti di chitarrista. Riascoltare le soluzioni timbriche di “Hot Rats” complicate oltremodo in St. Alfonzo’s Pancake Breakfast e Father O’Blivion mi ha fatto tornare la colazione sù per l’esofago. Dopo aver parodizzato tutta la storia del rock Zappa ha fatto il giro e, senza rendersene conto, a cominciato a parodizzare se stesso.

trasferimentoGang Of Four
Entertainment!
(1979)

È incredibile quanti gruppi di merda debbano le loro migliori intuizioni a questo album. Di tutta la prima fondamentale ondata post-punk i Gang Of Four rappresentano il giusto equilibrio tra sperimentazione e ballabilità. Intellettuali ma funky, con riff catchy ma anche feedback lancinanti, pensate che negli anni ’80 venivano considerati un ascolto difficile, oggi invece sembrano i più fruibili di quella eccezionale sfornata di punkers intellettualoidi.

Anche loro come Pere Ubu, Throbbing Gristle, Young Marble Giants rispondevano ad una tensione collettiva verso l’apocalisse, perlopiù divisa tra chi ne faceva una battaglia politica e chi una sociale. Chiaramente i Gang Of Four non erano gli Scritti Politti, e così la loro rabbia generazionale si scagliò principalmente contro la musica commerciale.

Questa comune visione di un mondo allo sfascio, dove le industrie chiudono e il sogno capitalista sembra trasformarsi per molti in un incubo, aveva generato una serie di singoli nell’ambiente post-punk piuttosto espliciti. Gli Ubu avevano nel primo album un pezzo come Chinese Radiation, i Throbbing Gristle un singolo come Zyclon B Zombie, i rarefatti Young Marble Giants invece Final Days. In “Entertainment!” non c’è un pezzo corrispettivo  a quelli appena elencati, perché tutto l’album tende per sua natura verso una dimensione paranoica. Il prezioso corollario di immagini nelle liriche, cantate con fare un po’ altezzoso da Jon King, costruisce un mondo giovanile arido e pericolosamente apatico, chiuso all’interno di una discoteca senza porte in cui i Gang Of Four suonano a loop i loro pezzi.

In effetti la band sembra in trance per tutta la durata del disco, persino mentre la batteria di Hugo Burnham sembra in alcuni momenti riprendere il drumming nevrotico e claustrofobico di John French.

Incredibile la conclusione dell’album, tanto immensa e irraggiungibile da rendere ogni tentativo futuro della band di ripetersi a quei livelli puerile e futile. Due voci che si ignorano per poi trovarsi causalmente dopo una nebbia di effluvi elettrici, mentre la sezione ritmica martella come nei Neu!, sono la summa del lavoro di compressione e spigolatura del sound new wave proposto dalla band inglese. Anthrax è più una performance che una canzone vera e propria, potrebbe benissimo essere parte integrante di uno spettacolo di Roberto Latini e nessuno se ne stupirebbe nemmeno un po’.

a4037505322_10Miss World
Waist Management [EP]
(2017)

Non so nemmeno come l’ho scoperto questo Ep. Probabilmente cliccando a caso qua e là in un momento di noia – uno dei pochi concessomi in questi mesi. Ve lo dico chiaro e tondo: non esiste nessun motivo al mondo per cui dovreste ascoltare “Waist Management. Le canzoni sono banali, il garage pop che ci troverete è indietro di dieci anni in termini di freschezza, e di quattro canzoni una è un riempitivo bello e buono. Però, mi venissero le pustole nei condotti uditivi, è la cosa che ho più ascoltato da Settembre a Dicembre. Perché? Boh.

L’idea di base di Miss World è che lei è una ragazza incredibilmente gnocca, che vende la sua compagnia e il suo corpo per campare ogni giorno alla bell’e è meglio. In Buy Me Dinner giura d’innamorarsi di un tizio sposato se gli offrirà il pranzo, in Put Me In A Movie afferma che tutti i suoi amici vorrebbero metterla in un film (di che genere ve lo lascio intuire a voi), in Click And Yr Mine Miss World «fell in love in Internet» e non si rialza più. Lip Job, come avevo detto, è un riempitivo sulla fellatio.

Non so cosa sia successo, ma la storia di Miss World mi ha conquistato. Mi è anche venuta voglia di riascoltarla. Adesso.

PROSSIMAMENTE SU QUESTO BLOG:
1) Una recensione del primo storico flop dei Rolling Stones;
2) La tragica ed emotiva recensione del primo CD rock della mia vita: “Selling England By The Pound”.

(Tranquilli, le ho già scritte. Più o meno.)