Etichetta: Charisma Records Paese: Regno Unito Pubblicazione: 1973
Young man says: «You are what you eat.» Eat well.
Old man says: «You are what you wear.» Wear well.
You know what you are, you don’t give a damn,
bursting your belt that is your homemade sham.
Il mio primo CD in assoluto fu “Selling England By The Pound” dei Genesis, e rimase il mio preferito fino alla prima liceo. Negli anni SEBTP l’ho ascoltato tante di quelle volte da poterlo recitare senza canticchiarlo, sempre meno estasiato dal dipinto morale di una Inghilterra vista attraverso un occhio freddo e poco perspicace.
Ci sono stati anni in cui credevo sinceramente che Peter Gabriel fosse una sorta di mente superiore gentilmente regalata al rock, e qualsiasi cosa uscisse con sopra il suo nome la dovevo possedere e ascoltare fino allo sfinimento. Adesso i suoi album, collection e live riempiono silenti una cassa di cartone in garage, probabilmente per non uscirne per un bel po’ di tempo.
Cos’è successo esattamente non lo saprei nemmeno dire, forse la colpa sta tutta nell’aver sviluppato interessi diversi, che la musica raffinata e cerebrale dei Genesis non poteva e non può più soddisfare. Essenzialmente ascoltarmi “Foxtrot” o “Trespass” mi lascia indifferente e il più delle volte tremendamente annoiato. Laddove prima c’era un entusiasmo incontenibile per quegli intrecci perfettamente soppesati, le armonie di Banks e Rutherford, gli assoli di Hackett e il lirismo di Gabriel, adesso c’è solo una malcelata forma di fastidio.
L’album in questione è del 1973, considerato da molti esimi critici come la vera svolta della band. Il tema centrale è una confusa critica alla mercificazione del Regno Unito, con tanto di invettiva finale ai supermercati indicati come simbolo della colonizzazione del diavolo americano, niente di nuovo insomma. Corroborato da una quantità smodata di figure retoriche e giochi di parole, le liriche di Gabriel seguono il corso eclettico della musica saltellando qua e là tra una citazione aulica e delle criptiche metafore anti-capitalistiche. La musica dei Genesis è diventata un flusso ininterrotto di strumenti che si rincorrono senza però una meta da raggiungere.
Il prog inglese non è il primo tentativo nella storia del rock di legittimazione culturale da parte del rock stesso, ma di sicuro è quello più volutamente intellettuale e sofisticato, raggiungendo vette insperate di tecnicismi (Weather Report, King Crimson, Gentle Giant e Yes su tutti). Nel caso dei Genesis questa estenuante ricerca di fare del rock “bello”, esteticamente profondo e al tempo stesso fruibile a più livelli (la loro declinazione teatrale), denunciava però una serie di mancanze lapalissiane. Prima tra tutte proprio la declinazione teatrale, vetusta e molto lontana dalle grammatiche del teatro dell’epoca, inciampando in banalità e pretenziosità corrette solo dalla impeccabilità delle performance musicali.
Come in “Trespass” anche in SEBTP protagonista dei primi istanti dell’album sono le parole di Gabriel, sempre compassate e piene di magia, ma poco ci vuole perché quegli attimi costruiti con una maniacale cura al dettaglio (Hackett in sottofondo che crea una texture strepitosa, vibrante e paranoica, Banks che drappeggia armonie che giocano con il canto di Gabriel) deflagrino in una composizione inutilmente roboante e ultra-tecnica. Dopo pochi ispiratissimi minuti la musica ormai sfugge come indispettita dal tentativo di ridurla ad un vettore per un concetto, e si libera promuovendo la sua complessità armonica, cromatica e timbrica senza alcuna necessità estetica.
Questo diventa ancora più chiaro in Firth Of Fifth:
The Mountain cuts off the town from view,
Like a cancer growth is removed by skill.
Let it be revealed!
A waterfall, his madrigal,
An inland sea, his symphony.
Il buon pastore in Firth è simbolo dell’uomo conciliato alla natura, la città invece il cancro da estirpare. Nella più classica e banale delle forme di protesta tipiche della musica progressive degli anni ’70, i Genesis incastonano il loro più splendente gioiello tecnico. Nove minuti e trentotto secondi eseguiti con una perizia fuori dal comune, un meccanismo perfetto e inattaccabile, ma disperatamente autistico. Firth Of Fifth è in un certo senso l’opposto di Sister Ray dei Velvet Underground, è musica per il piacere di fare musica, è catarsi negli incastri, negli stacchi, nei cambi armonici, è un vuoto esercizio. Ci vedo una curiosa somiglianza con le filastrocche della Grecia antica, le quali venivano proferite a una velocità impossibile per raggiungere una forma d’estasi dovuta unicamente alla mancanza d’ossigeno nel cervello. Quando ascoltavo l’album al liceo Firth era la mia parte preferita, e credevo veramente che ci volesse un certo garbo nell’ascolto per apprezzarla, e che non fosse da tutti emozionarsi per quelle delicate intelaiature, quei repentini cambi di tempo, per quella grandiosità epica e fiabesca. Quella tenera saccenteria è scomparsa, non solo di fronte all’evidenza che SEBTP è un album che ha venduto più di 5 milioni di copie – credo, per cui evidentemente a qualche altro cristiano qualcosa gli avrà detto, ma è scomparsa anche dal constatare che la tecnica non è il fine a cui la musica rock dovrebbe tendere, ma un mezzo come tanti altri.
Questa affermazione mi pare ancor più veritiera riascoltando certi pezzi: niente in The Battle Of Epping Forest fa pensare ad una battaglia, ma piuttosto ad una hit che in certi dinamismi anticipa il lavoro di Collins alla guida della band. Il tutto farcito dalle solite liriche che girano attorno alle questioni, insinuano dolcemente senza mai scontentare un certo gusto tutto inglese al gioco di parole. After The Ordeal sembra un pezzo scartato dalla Third Ear Band perché inutilmente complesso. [Pensando alla Third Ear Band mi viene in mente che il loro “primitivismo” e la tendenza ad una musica sempre più astratta e ancestrale sia ancora oggi molto contemporaneo (La Piramide di Sangue, Squadra Omega, Mai Mai Mai, etc.) mentre il soliloquio dei Genesis si è fermato ai tremendi Porcupine Tree, non riuscendo a svilupparsi in un linguaggio contemporaneo che non soffra palesemente di una carica nostalgica che sommerga ogni pretesa artistica.]
L’album si conclude riprendendo il tema di Dancing With The Moonlight Knight, con Gabriel che elenca una serie di prodotti prezzati al supermercato nel ricamato tappeto musicale di Banks, Collins e Hackett. Delle prime bellissime e dolci note resta giusto questo geniale commiato, Aisle Of Plenty in un minuto e mezzo riesce ancora oggi ad regalarmi una forte emozione, anch’essa però feroce e indomabile figlia della nostalgia, un ricordo di quando la musica era solo musica ed era tutta ugualmente bellissima.
Ciao, molto interessante una visione “diversa” riguardo ad un monolite del prog classico inglese, sicuramente in molti storceranno il naso riguardo ad alcuni punti di vista che hai esposto. Io ci devo un po’ pensare 🙂
Il motivo per cui non hai citato The Cinema Show riguarda il fatto che è un brano eccezionale e quindi inattaccabile? 🙂
Ciao di nuovo e complimenti per il sito.
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Mi aspettavo che qualcuno notasse la mancanza di un pezzo così “corposo”!
Se ci pensi The Cinema Show non si discosta molto da quanto detto. La prima parte è piuttosto onirica e dal sapore romantico, anche se pervasa dal solito pessimismo anti-americano (con echi di T.S.Eliot qua e là), la seconda è una sboronata pazzesca con Banks che se lo fa venir duro sul suo ARP Soloist (versione PRO ovviamente, come per Zawinul e Numan).
Detto questo la composizione è maestosa, per me non ha niente a che vedere con The Battle Of Epping Forest per esempio, ma si trascina dietro tutti i limiti dell’album e di quella stagione musicale, straordinariamente fertile certamente, ma un po’ sopravvalutata negli anni da chi l’ha vissuta in prima persona.
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Pensavo di aver già commentato ma non vedo nulla , quindi, in maniera stringata, mi ripeto:come puoi anche solo permetterti di muovere critiche negative ad un album del genere? :))
Siamo circondati da talmente tante schifezze che pagherei per ritornare a sentire musica cosi anche oggi.
Firth of fifth da sola vale più di tutta la discografia degli ultimi 10 anni .
Bel sito, ciao 🙂
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Perché sono malvagio! Ecco spiegato l’arcano!
Serio: album della fattura e della bellezza compositiva di SEBTP non ne fanno più, anche perché il periodo d’oro del prog è durato davvero davvero poco. Personalmente ritengo esagerato l’elogio sperticato che si fa di quel periodo, ma comprendo pienamente chi da un punto di vista critico premi l’eccellenza, laddove tecnica ed esecuzione si assestano su livelli stratosferici. Però essendo questo un ragionamento che dovrebbe portare i Toto e gli Europe tra le più grandi band di tutti i tempi, diciamo solo che preferisco altre parrocchie.
(Secondo c’è un sacco di roba bellissima a giro, solo che è molto più difficile trovarla, perché oggi sistemi come iTunes, Spotify, Deezer e YouTube premiano le major e i fenomeni di massa, senza il filtro delle vecchie riviste o dei programmi radiofonici non abbiamo più quella scrematura che permetteva agli artisti underground di emergere.)
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Non citi neanche una volta lo straordinario lavoro di Collins alla batteria su questo album,che trova la sua apoteosi nella cavalcata pazzesca di Cinema Show.Non ti posso perdonare.
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Hai ragionissima, Collins nel suo periodo di grazia assoluta. Il mio bias deve essere dovuto all’aver così tanto parlato dei Genesis da adolescente che considero Collins e Gabriel come dei grandi anche quando sbagliano, figuriamoci nei ‘70. E pensare che in cuor mio apprezzo anche il suo periodo solista, forse a causa di Michael Mann, non lo so, però ci volo di brutto anche adesso. Poi vabbè, il discorso critico è un altro paio di maniche…
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