Prima di tutto, esiste musica che non sia commerciale? Perché sebbene la celebre citazione del buon vecchio Captain Beefheart (boh, non me la ricordo a memoria, però diceva una roba tipo: dato che a me l’ispirazione arriva gratis anche la mia musica dovrebbe esserlo, super-stronzata ovviamente), la verità è che non si vive solo di plausi della critica e buffetti dello zio molesto a Natale. Quindi cosa s’intende normalmente per musica commerciale?
La definizione comune sta ad indicare tutta la musica che riscontra un enorme successo di vendite, ma dato che ogni musicista, anche il più scrauso, ritiene adeguato essere pagato per il suo lavoro, e se con questo ci diventasse pure ricco non gli dispiacerebbe di certo, questa definizione risulta più bucata di uno scolapasta. Potremmo dunque definire come musica commerciale tutta quella massa di superstar che producono musica con il solo scopo di diventar ricchi e cavalcare le mode. Ma questa è una visione nichilista del mondo e delle persone di successo che non sempre trova fondamento nella realtà. Amy Winehouse ha cantato moltissimi successi commerciali eppure non è considerata una sanguisuga come Bono Vox. Per cui siamo di nuovo al punto di partenza.
Forse non è la parola “commerciale” il problema di fondo, ma la tendenza tipicamente europea di considerare tutto quello che ha successo come fondamentalmente minore nei confronti di una qualsiasi nicchia. In parte è vero che per raggiungere numeri mostruosi come quelli di Beyoncé bisogna scendere a parecchi compromessi, sia nella complessità della ricerca musicale (che esiste, anche se asservita a costruire strutture sempre più efficienti per il fruitore moderno) che nelle liriche e quindi nel messaggio di fondo. Ma ci sono anche personaggi come Lady Gaga, che rappresentano il moderno mito del self-made-man (quando è triste che questa definizione nasca e sia rimasta prepotentemente al maschile?), riuscendo a convergere diversi stili musicali con una serie di messaggi propositivi e progressisti, nei limiti imposti dalle major, dalla TV, dalla radio e dai gusti della massa.
La massa, questo orribile termine, sentite come suona sempre profondamente negativo? La massa è ignorante, non capisce, non sa. Peccato però che nella massa ci siamo tutti, perché per essere esperti, chessò, di musica barocca, necessariamente quel tempo che abbiamo speso nello studio e nell’ascolto della musica barocca non l’abbiamo speso nell’approfondire lo studio di qualcos’altro, tipo l’economia. Per cui, secondo una prospettiva economica, siamo parte di una grande massa di persone ignoranti in economia. Questo perché siamo tutti enormemente ignoranti di un sacco di roba ma tendiamo a dimenticarcelo, allietandoci con le nostre poche specializzazioni, di cui comunque esisterà sempre chi è più specializzato di noi.
Se quindi tutta la musica è commerciale e la massa ignorante che l’apprezza altro non è che persone non specializzate nell’ascolto musicale perché hanno speso il loro tempo verso altre (e probabilmente più proficue) specializzazioni, qual’è il minimo comune denominatore della musica… diciamo pure di merda? Perché è questo in realtà che vogliamo sottintendere no? Che la musica commerciale, mainstream, faccia schifo.
Il più delle volte gli album che raggiungono le vette di Billboard ci riescono anche perché hanno saputo districarsi tra i compromessi artistici che rendono certa musica universalmente piacevole, ma questi compromessi non arrivano solo dal mercato o dalla moda, quanto anche dai metodi di produzione, distribuzione e riproduzione musicale. La storia della musica leggera moderna comincia negli anni ’40 negli USA, quando il presidente della RCA (Radio Corporation of America, la più importante e influente compagnia di Broadcasting americana dell’epoca) David Sarnoff, in una ripartizione della produzione decise che sui 33 giri andava stampata solo la musica colta (classica perlopiù), mentre sui brevi e poco costosi 45 giri si poteva far girare la musica leggera. Questo evento, assieme all’arrivo della poco costosa tecnologia tedesca, resero abbordabili alle piccole nuove etichette e ai giovani DJ i prezzi di produzione e distribuzione della musica così detta leggera. Per una serie di convergenze davvero eccezionali, tra cui l’esplosione dei moti studenteschi (cominciati nel ’65 sempre negli USA), il successo commerciale di nuove tendenze giovanili, un’esplosione culturale senza precedenti dovuta al boom economico (più altri elementi che sarebbe inutile citare senza analizzare) la musica leggera conobbe il suo momento di grazia proprio tra il 1965 e più o meno il 1971.
Esistono nella storia eventi di questo genere, sono più unici che rari, e rischiano di creare una percezione falsata del passato, mitizzando certi periodi più del dovuto. Quando si studia storia della musica sembra che tra un Bach e un Haydn ci siano stati momenti in cui c’era silenzio in tutto il mondo, e niente di rilevante accadesse quando i grandi artisti non producevano le loro migliori opere. La verità è che la storia dell’arte è sì fatta di eventi straordinari (il Rinascimento, per dirne uno) ma che non inficiano sulla qualità di tutto quello che è venuto prima, durante o dopo.
Se negli anni ’40 si è passati da un modello di musica ad un altro è dovuto all’evoluzione tecnica di registrazione, produzione, riproduzione e anche dei supporti per l’ascolto. Nei 45 giri si cominciò ad elaborare nuove strategie per rendere ogni pezzo più accattivante di quello che era uscito la settimana prima, le intro erano sempre più corte, i ritornelli sempre più semplici e orecchiabili, la sezione ritmica sempre meno jazz e più rhythm and blues. Gli anni ’50 furono un periodo di passaggio, che vide il primato dei gruppi vocali venir pian piano logorato dagli ensemble strumentali e dall’avvento della cultura giovanile (come quella surf, che deflagrò in tutto il mondo tramite il cinema underground della scuola di Roger Corman). Negli anni ’60 con il successo della British Invasion, ma sopratutto grazie all’opera di legittimazione culturale della musica leggera protratta da artisti del calibro di Bob Dylan, la musica leggera a 33 giri divenne uno standard assoluto, e così si poté sperimentare come non mai prima d’ora. Questo, assieme alle convergenze che avevo accento prima, ha permesso una stagione molto più eclettica del normale.
Era opinione comune nei primi del 2000 che Internet avrebbe avuto lo stesso impatto sulla musica del futuro. Infatti questo è accaduto, ma non per chi utilizza come parametro predefinito le vendite delle major. Si è creata infatti con internet una frammentazione inaudita della scena musicale, dove il mainstream viene costantemente contaminato da sottogeneri sempre più di rottura nei confronti del passato, tanto nella prassi tecnica quanto in quella contenutistica.
L’avvento del mp3 e dei supporti digitali, sempre più portatili e capienti, fino ad arrivare alla virtuale Biblioteca di Babele dei cloud, ha cambiato radicalmente il modo di fare musica, ma non nella forma che ci saremmo aspettati. La musica della major, come anche quella underground legata a generi vecchi e vetusti ormai, come il rock di cui spesso scrivo su questo blog, sfruttano ancora i sistemi del “vecchio mondo”: si scrive ancora musica come se dovesse essere stampata in un 33 giri o scritta in un CD! L’avvento della retromania ha scombussolato l’ordine delle cose, e a dispetto dell’arrivo di formati ultra-fluidi si è tornati a produrre vinili e musicassette, ma non stiamo parlando di numeri assoluti, quanto di nicchie più o meno grandi. Su Spotify molti musicisti propongono ancora uscite nel formato dell’album nato negli anni ’60, come mai? È forse il sintomo di una crisi di creatività che altro non è che un ennesimo segno del decadimento culturale dell’occidente? Boia, sai che palle se il post s’avviasse in questa direzione!
No, niente allarmismi apocalittici, come quelli che salutarono l’avvento del jazz, del rock, della techno e del rap (e ora della trap e domani di qualcos’altro), semplicemente i limiti di un album sembrano ancora confortevoli paragonati all’illimitato spazio di un server. Escono ancora singoli che vivono da soli senza l’album di riferimento (penso al successo mondiale di This is America di Childish Gambino) ma per esempio è sempre più frequente trovare artisti che saturano il proprio pubblico di riferimento di con decine di uscite tutto l’anno (un tempo sarebbe stata una spesa inutile, e un sovraffollamento di proposte simili nel mercato avrebbe comportato una discesa nell’appeal di tale artista). Sembra proprio che la troppa libertà non generi maggior creatività. Al contempo la fluidità della musica ha permesso ai generi di contaminarsi sempre di più, e alle persone di poter ascoltare la musica che preferiscono e di scoprirne altra senza l’ausilio delle riviste specializzate.
Sulla crisi della critica digitale ne ho già parlato in questo articolo, per cui torno subito a bomba sulla questione della fruizione. Prima l’ascoltatore casuale di musica era costretto ad ascoltarla in radio, in TV e nei locali, senza avere un reale controllo su di essa se non tramite l’acquisto degli album che gli sembravano più affini. Oggi invece tramite strumenti che mappano i suoi gusti, come YouTube o i vari servizi di musica in streaming, si trova persino delle playlist personalizzate sui suoi ascolti abituali! La musica leggera sta diventando così sempre più efficiente nel sollecitare le preferenze dei fruitori casuali. Questo non impoverisce il panorama musicale, che anzi grazie alla profusione di nicchie sempre più facili da scovare grazie ad aggregatori come Reddit, è sempre più complesso e pieno di alternative per ogni gusto, anche il più pervertito e permaloso.
Siamo arrivati fin qua senza citare il primato del video nell’età digitale! Ancor più che negli anni ’90 del boom di MTV, oggi i video musicali sono opere a sé, prodotti ricercatissimi che propongono una nuova serie virtuosismi e tecnicismi che ne sostituiscono altri di natura strettamente musicale. È infatti inevitabile ritrovarci ad ascoltare musica su supporti con schermi ad alta risoluzione come i nostri smartphone, e questo dialogo è desinato ad evolversi nei prossimi anni. Il modo con cui questa naturale accoppiata cambierà la musica è impossibile da immaginare. In fondo la musica è una costruttrice di immagini nemmeno tanto astratte, giusto qualche mese fa stavo ascoltando assieme ad un mio amico la quarta di Mahler con la direzione di George Szell, ed entrambi avevamo avuto la sensazione di vivere un viaggio in una valle desolata, piena di intricati enigmi e stupendi panorami. L’idea che la musica del futuro possa incanalare questa forza immaginifica per sperimentarci sopra mi stuzzica non poco.
Insomma ragazzi, non esiste un modo per definire la musica di merda, perché semplicemente è musica che non vi piace, e se avete piacere nella ricerca e nello studio della musica probabilmente per merda intenderete tutto quello che passa in radio e TV. Fatevene una cazzo di ragione. Non è che passate i fine settimana ascoltandovi la discografia di Micah P. Hinson prima di andarvelo a vedere live al Bronson perché non c’avete un cazzo da fare, è perché vi piace! Ecco, ad altri magari piace di più leggere, guardarsi la TV, cucinare, scopare. Fatevi meno seghe mentali su quello che ascoltano gli altri e fatevi più seghe su quello che piace a voi.