Etichetta: MUDDGUTS
Paese: USA
Pubblicazione: 2019
Dylan Hadley fa parte di quel giro magico che ha ridestato interesse nel rock underground, ovvero White Fence, Mikal Cronin, Ty Segall e tutta la banda. In un’intervista per KEXP John Dwyer ha raccontato della fantastica impressione che gli fece la Hadley come cantante e batterista per la sua band, i Kamikaze Palm Tree, probabilmente una delle realtà più divertenti del panorama rock mondiale – eppure ancora semi-sconosciute.
L’altro 50% della band è rappresentato dal bassista Cole Berliner, anche lui di casa a Los Angeles. L’alchimia tra i due musicisti è roba da mille e una notte, quando i Kamikaze Palm Tree suonano è come se si rianimasse l’intera Magic Band di Captain Beefheart ma a tratti, concedendo alle melodie (storte) uno spazio, per quanto angusto. Dylan Hadley è un po’ Drumbo e un po’ Brian Eno, volto della band ma anche funzione estetica, non solo per i costumi sempre molto elaborati, formali ma con quel che di freak che rompe una perfezione altrimenti stucchevole, l’estetica è anche nella voce acuta e in quelle cadenze da filastrocche alla Kevin Ayers/Syd Barrett. Si vola belli alti con i paragoni, eh? Però sono strumenti utili per descrivere un album pieno di ingenuità compensate da una forte personalità.
“Good Boy” è un disco coeso, costruito per un pubblico già svezzato, alla ricerca di un rock meno prevedibile ma ancorato ad una forma sperimentale che non vada oltre la new wave. Non voglio dire che lo sguardo della band sia fissato verso una strada già percorsa tante volte, ci sono elementi interessanti che qua e là fanno capolino e rinsaviscono l’udito del veterano. La musica dei KPT non è mai pesante, non è mai pretenziosa, le smanie artistiche si sentono eccome, ma non eccedono in nessun modo, ogni pezzo ha la sua giusta durata, e anche se ci scappa qualche coda un po’ troppo lunga (God) di solito è veramente questione di pochi secondi, non c’è insomma quella necessità spesso presente nei dischi ”sperimentali” di allungare il brodo con qualche bordone a casaccio da 5 minuti, e questo è un merito e bello grosso!
I riferimenti chitarristi vanno da Phil Manzanera a Bill Harkleroad, eliminando però ogni virtuosismo catartico (non troverete insomma scariche elettriche intricatissime come quelle di Gun di Manzanera e Cale), se c’è una tensione evidente è quella che conduce verso le menti eccentriche alla Ayers, ovvero non sapere mai cosa aspettarsi dal pezzo successivo, se non che non si andrà comunque fuori dalle righe. Questo almeno fino al finale con Run Around, dove viene evocata la PJ Harvey di “To Bring You My Love”, ma solo per poco.
Gli apici dell’album si esprimono quando Hadley e Berliner giocano a fare la Magic Band di Andy Warhol, pezzi come Tucans Nose, Sharpie Smile, Wants More e Good Boy, sono buffi congegni sonori con sezioni ritmiche sconclusionate che ritrovano ordine nel ritornello sempre leggibilissimo, chitarre inconcludenti che si risolvono in riff lineari per poi perdersi di nuovo in un turbinio spiritoso e mai severo. Difficile stupirsi per un fruitore abituale, non è materiale così incandescente, ma perché rompere tutto quando hai del talento melodico? C’è una gran bella attitudine in questo disco, tanta voglia di mostrare una personalità che non sia solo derivazione, che riprenda la lezione dei geni stralunati del rock di petto, con faccia tosta e con un pizzico di autoironia. Senza la puzza sotto il naso di band certamente più talentose come i Parquet Courts, ma con un livello di consapevolezza più che adeguato, i KPT rappresentano una delle più curiose esperienze del rock californiano, sicuramente una delle più originali dopo che Oh Sees, King Gizzard e Segall non fanno che ripetersi da un po’ di tempo a questa parte. Un album passato quasi in sordina, eppure di gran lunga uno dei migliori del 2019 e forse degli ultimi anni.