Etichetta: Slovenly Paese: Spagna Pubblicazione: 2020
«Giuseppe ho un dubbio, ma tra quello degli Algiers e quello dei Black Country, New Road, qual’è il disco che spacca più i culi?»
«La tua è una domanda molto tecnica AssDestroyer09, ma per tua fortuna ho la risposta qua pronta per te: Sanlsidro!»
Capace di evocare le lande psichedeliche e febbrili di Cervantes, “A lo pesau, a lo bajo y a lo llano” segna l’esordio solista di Isidro Rubio sotto lo pseudonimo di Sanlsidro. Non cercatelo su Google, ci penso io ad inquadrarvelo.
Nato a Valencia è da sempre uno dei mattatori della scena garage spagnola, fondando i Wau Y Los Arrrghs!!! ed esordendo nel 2003con un 7’’ bello tosto dal titolo programmatico: “Demolición” (Kawanga! Records). Dopo un po’ di gavetta Sloveny si accorge di loro e dal 2009 comincia un bel rapporto che perdura tutt’oggi, tutto a vantaggio di noi fedeli discepoli dei Sonics. Nel 2009 Rubio si unisce come batterista ai Venereans, un gruppo di garage punk parecchio storto, violento e politicizzato (non proprio una formazione memorabile a dirla tutta), e dopo qualche scappata con Gravedigger V e il mitico King Khan, di recente lo si trova spesso alla corte di Johnny Casino aka John Spittless, leggenda vivente ed ex-membro degli australiani Asteroid B-612 che da ormai parecchi anni risiede a Denia, in Spagna.
Difficile che i garagisti di lungo corso cambino repentinamente rotta dopo almeno un lustro di sudore e scosse elettriche, ma succede. Greg Ashley si è di recente reinventato cantautore e anche di lusso, firmando nel 2017 quella gemma sconosciuta di “Another Generation of Slaves”, Rubio dal canto suo si è lanciato in qualcosa di meno definibile, qualcosa che gioca sui confini, facendo innamorare i cuori di pietra dei critici catalani.
“A lo pesau, a lo bajo y a lo llano” ha un titolo che evoca ricordi battistiani, ma senza lanciarsi in un poliedrismo spicciolo l’esordio di Sanlsidro è coerente dall’inizio alla fine, ipnotico nelle sue reiterazioni, senza strafare e con una idea estetica molto chiara. Il ripescaggio della psichedelia texana, probabilmente passato da canali che qui conosciamo benissimo, mescolato ad a un pizzico di Tim Buckley, una spruzzata di Nino Rota e quel che basta di garage rock (che spunta fuori all’improvviso, come nel finale elettrico di Miratge), esprime tutta la peculiarità di questo progetto, intimo, personale e mistico.
È vero, un difetto quest’album ce l’ha, ed è pure in bella vista! La prima traccia, Calamata, è di gran lunga la più esaltante di tutto il disco, crea un bel dislivello col resto delle canzoni, e poi… è molto derivativa di una nostra scena, quella psichedelica occulta. Ve la ricordate la psichedelia occulta italiana? Io me lo ricordo quando i membri della Piramide di Sangue pur superando in numero quello degli spettatori paganti ci fecero un set di un’ora e mezza a Prato che avrebbe fatto arrossire gli Idles per intensità. Coperta senza troppo entusiasmo dalla critica (se non fosse per Blow Up e in piccola parte anche Rumore), le prime influenze oltralpe cominciano a fruttare, dimostrando quanto quelle sonorità e quelle idee abbiano colpito un’immaginario collettivo ovunque abbiano posato, anche solo per un attimo, l’amplificatore.
Sanlsidro però non fa un album di cover degli Squadra Omega, dopo Calamata le influenze spagnole e quelle già citate trovano una forma originale e personalissima. Già nel ritmo rilassato di Unicorn embolat l’ascendente mediterraneo trova congruenza con un misticismo che non è quello evocato da Mai Mai Mai (in particolare nelle sue proiezioni durante i live) o dalle voci di Porta Palazzo a Torino, e non è nemmeno un richiamo ai classici come nel bellissimo “Eleusis” degli Architeuthis Rex, i riferimenti sono altri, tipo il chitarrismo del gitano Manuel Molina Jiménez dei Lole y Manuel (tra i maggiori ispiratori del nuevo flamenco degli anni ’80) e altre cose che faccio fatica a cogliere tanto mi sono aliene. La Spagna è un mondo che devo esplorare, non solo musicalmente.
Non ci troverete suite da 30 minuti, questo è un album costruito comunque attorno a melodie anche se delle volte appena accennate, è un disco dove i timbri sono più importanti delle parole, in cui “psichedelia” fa rima con “introspezione”, mentre si attraversano paesaggi lisergici privi di tensione e dominati da una consapevole calma dei sensi.
È piuttosto chiaro che “A lo pesau, a lo bajo y a lo llano” non sia un capolavoro tout court, ma si inserisce con grandissimo carattere in un filone stagnante come quello psichedelico, dove negli ultimi due anni ci si arrovella sulla sperimentazione fine a sé stessa (The Heliocentrics) oppure ci si rimbambisce col revival. Una vera e propria pietra miliare della storia recente del rock psichedelico spagnolo, una sorta di instant-classic che senza alcun desiderio di fare scuola propone delle sonorità davvero peculiari e piene di potenzialità.