Etichetta: Ricordi Paese: Italia Pubblicazione: 1974
Edoardo Bennato è stato, per una breve ma intensa stagione che va dal 1968 al 1977, una delle voci più autentiche e peculiari del rock italiano. Ha cominciato da bambino con suoi due fratelli nel Trio Bennato, per poi riallacciarsi alla musica nei suoi primi anni universitari in quel di Roma. Carismatico rielaboratore di grammatiche stantie, Bennato ha fin da subito presentato una precisa e sincera attitudine per la musica rock quanto per musica popolare italiana, mettendo in mostra le ipocrisie del sistema musicale nostrano per poi, nella sua lunga carriera, finirne divorato con tutte le scarpe.
Dopo aver scritto diverse canzoni per molteplici interpreti, tra cui vale la pena ricordare quella tamarrata micidiale di Perché… perché ti amo (eseguita dai Formula 3 di Radius), con le liriche di un Mogol in piena crisi creativa (con te, con gli occhi nel vento/ con te, e senza rimpianto/ con te, così come sento con teeee), Bennato esordisce come solista nel 1973 con “Non farti cadere le braccia”. Sebbene il supporto dell’amico, collega e sostenitore Bruno Lauzi, e diverse future hit da Radio Nostalgia (Un giorno credi, Campi Flegrei e ovviamente Non farti cadere le braccia) il disco non spicca il volo come sperato e s’incaglia ben presto nel fondo classifica.
Le idee però non mancano, le melodie di Bennato infatti sono molto orecchiabili, forse le canzoni sono un po’ troppo melense, vuoi per l’arrangiamento a tratti magniloquente di Roberto De Simone (citato nella finale Rinnegato), vuoi per la tensione un po’ “battistiana” che si respirava in quegli anni in tutte le produzioni (non a caso la presenza di Massimo Luca), ne venne fuori in pratica un disco un po’ sconnesso con l’immediatezza del suo autore, troppi filtri dai quali era difficile capire in cosa consistesse la cifra di Bennato. I critici ne erano entusiasti, il pubblico un po’ meno.
La Ricordi non demorse e spinse Bennato a produrre un nuovo 33 giri per l’anno successivo. Stavolta però è Bennato stesso in primo piano. L’album in questione è uno sfogo di natura politico-sociale, un lungo sproloquio che mescola un registro intellettuale a uno di strada, immediato e strafottente così com’era lui, senza troppe raffinatezze in sede di missaggio e con la chitarra acustica sguainata. “I buoni e i cattivi” è a tutti gli effetti un capolavoro a tutto tondo, tranne per un inciampo che rompe immediatamente l’immersione nel flusso bennatiano, ovvero l’intromissione in seconda posizione di Un giorno credi – era l’unica hit rivendibile dallo scorso album.
Questa volta la produzione è di un vero rocker italiano, Alessandro Colombini, uno che ha prodotto Adriano Celentano fresco del successo con i Rock Boys di Enzo Jannacci. Colombini capisce fin da subito l’urgenza dell’artista di mettersi in luce come autore assoluto e così gli lascia tutto lo spazio di fare quello che gli pare, facendogli strimpellare la sua dodici corde e suonare l’armonica e il kazoo e se necessario anche le percussioni. Bennato urla, parla, balbetta (senza le pretese generazionali alla Who), asseconda la musica come se ne fosse posseduto, fa il buffone, mette in ridicolo se stesso per canzonare ciò di cui canta con ironia beffarda e tagliente. Il nostro figliocco spirituale di Hasil Adkins attacca l’album con una sfuriata di armonica (Ma che bella città) e butta le fondamenta di quello che molti ad oggi chiamano “concept” ma che secondo me è più un lungo sfogo che un ragionamento compiuto. Ciò che rende coese e coerenti le canzoni è invece lo spirito iconoclasta, mai sazio di una insofferenza sardonica verso i simboli nazionalpopolari (La bandiera), che si ribella alla retorica dei buoni e dei cattivi (Bravi ragazzi, Uno buono, Arrivano i buoni), che di fronte alla fine preferisce la miseria economica a quella morale (Tira a campare).
L’Italia di “I buoni e i cattivi” è in fase di smaltimento, i sogni di grandezza del dopo guerra si scontrano con una miseria umana che lascia rovine in ogni dove. È un’Italia dove «tutto è un arrembaggio», in cui i prodromi delle crisi contemporanee si celavano sotto il tappeto dell’ottimismo che pervadeva la società nel lanciarsi sugli anni ’80, con un’avidità che oggi paghiamo carissimo. Alla fine della grande distruzione ecco che politici e mangiafuochi di professione si spartiscono la torta (Salviamo il salvabile), lasciando a noi le briciole di un welfare insostenibile, di uno Stato che ha pervaso ogni aspetto delle nostre vite, che promette mirabolanti soluzioni a problemi creati ad hoc da lui stesso. Bennato non è un raffinato politologo e va bene così, il suo è lo sguardo dell’uomo comune, è la rabbia di chi non capisce tutto ma capisce abbastanza per sentirsi distante dai giochi di potere così come da quello della democrazia. Tutti concetti che oggi risuonano tristemente nella politica e nel paese che ben conosciamo.
Questa attitudine dissacratrice si confermerà in grande spolvero anche nel 1977 col suo quinto album: “Burattino senza fili”, l’unico altro vero capolavoro di Bennato (se escludiamo la straordinaria esibizione dal vivo alla RTSI del 1979), e sarà la sua più fortunata cifra, laddove troppo spesso l’alternativa era un melodismo nostalgico, che nel migliore dei casi riusciva comunque a decifrare una realtà di periferia non solo della città ma anche dell’anima.