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Rock da quarantena – una selezione per la sopravvivenza

Tre playlist per tutti i gusti:
1) Per chi vuole una quarantena spigliata, tutta rock ‘n’ roll e pochi fronzoli.
2) Per chi ha voglia di esplorare nuove contaminazioni musicali.
3) Per chi sente che la fine è vicina ma gli manca la giusta colonna sonora.

E poi non dite che non vi penso.

Come sono cambiati i miei gusti musicali

Doveva succedere. Purtroppo è successo prima di avere un’attrezzatura minima decente, ma sono povero e me ne strafotto. In un futuro, quando sarò ricco e famoso parlando di Kim Fowley e Bessie Smith, avrò lo studio tipo Stephen Colbert con i BCUC come band permanente dello show e la cocaina scorrerà a fiumi manco fossimo ad un tè con Keith Richards.

 

I riff che me lo tirano

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Specifico fin da subito che provo un profondo e sincero disgusto per tutte quelle rubriche tipo: “ i 10 riff che ti cambieranno la vita!” Manco fossero materassi delle Eminflex. Però anche io possiedo un cuore, e nei momenti di infantile tenerezza mi capita di cogliere la bellezza della vita in un semplice riff. Peccato che non abbia il tempo per scrivere una roba raffinata, per cui eccovi una lista dei riffoni che me lo fanno tirare oggi, giovedì 5 Aprile, alle 5:40 del mattino.

The Bats – North By North

Banale sì, ma c’è forse un riff più figo nell’intera storia rock neozelandese? Non sono un fan sfegatato di Bats, Clean et similia, eppure ci sono dei pezzi che sono dei gioielli per l’incredibile tensione che sottintendono.

Negli anni sono arrivato a credere che tutto il miglior pop rock venga dall’Oceania (ascoltatevi l’ultimo dei Chook Race o i The Stevens se volete rituffarvi in una adolescenza tutta brufoli e indifferenza). North By North è la canzone perfetta per ogni viaggio in auto della vostra vita, scorre a velocità di crociera, così che non vi sfugga nemmeno un dettaglio di quel fastidioso ronzio interiore che è la memoria.

Gūtara Kyō – ロマンチック / Roman Chikku / Romantic

L’album d’esordio dei Gūtara Kyō dura 16 minuti e fa un casino della Madonna. Crasi ideale tra Can e GG Allin, la band giapponese targata Slovenly Records è forse una delle realtà più abrasive del garage rock mondiale. Boh, c’è da dire altro? Fanno casino, urlano in giapponese, suonano di merda, io direi 10/10 e si può passare al prossimo.

The Kinks – Top of the pops

Presa di culo della classica canzone da classifica rock inglese, Top of the pops dei Kinks si staglia in un album decisamente pazzesco come “Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One”, e lo fa per potenza (sembrano quasi i Mountain a tratti) ed efficacia dei tópoi riciclatissimi dell’hard rock, un po’ come fece Kim Fowley nel suo capolavoro del 1968.

Per quanto non valga l’attacco malinconico e storto di Strangers o l’incredibile spleen di Lola (forse il più bel singolo rock di tutti i tempi), come nemmeno il chitarrismo adrenalinico di Rats o l’immediatezza melodica di Apeman, Top of the pops c’ha un riff che spezza le catene della mediocrità e fa risalire questo pezzo sù per le mie arterie fino al centro del mio cuore.

The Celibate Rifles – Bill Bonney Regrets

Ho dedicato una recensione all’album capolavoro dei Celibate Rifles, una band che in questo periodo sto adorando oltremisura, finendo persino a tradire uno dei miei dettami più rigidi: non comprare i cazzo di vinili. Eppure quando al mercatino ho visto quello stracazzo di 33 giri tutto patinato che indicava senza troppi fronzoli una live al CBGB dei Rifles, non ho potuto controllare i processi motori che hanno permesso alla mia mano destra di afferrare il portafoglio.

Bill Boney Regrets comincia che sembra un anthem e si trasforma in un coito interrotto di rabbia e repressione emotiva. Fate vobis.

[Che ci crediate o no non sono riuscito a trovare un link della versione studio della canzone, forse c’è su Spotify ma internet mi ha lasciato, per cui se lo trovate scrivetelo che lo copio-incollo qua senza paura. Ovviamente con dedica.]

The Rats – The Rats Revenge (Part 2)

Taluni credono che i Rats siano la prima band punk di tutti i tempi, e forse non ci vanno così lontani. Tecnicamente vicini alle Shaggs ma connotati da una folgorante vena ironica e demenziale, il loro primo 7’’ è stato retro-datato al 1963 ma in realtà è del ’65 e divenne “famoso” una volta comparso nella celebre collection di “Back From The Grave”, proprio nella sua prima leggendaria uscita. E niente insomma: spacca i culi, questa è la mia analisi estetico-etnomusicologica di The Rats Revenge (Part 2).

The Who – I’m Free

Fermo restando che tutta la discussione attorno al valore di “Tommy” degli Who ha sfangato i coglioni, vorrei qui affermare che il suddetto album è un capolavoro, non sei d’accordo? CHISSENEFREGA – oggi sono proprio in vena di analisi forbite e condite da una scrittura esacerbante ma raffinata.

Detto questo la versione a cui mi riferisco non è quella dell’album originale ma bensì quella del film. Prima di chiudere tutto e venirmi a cercare muniti delle sei facciate di “Isle of Wight Festival 1970” da spaccarmi sul groppone, lasciatemi dire questo: I’m Free è l’unica eccezione in quello che per me è un principio saldo e incorruttibile, ovvero che l’album originale è sempre meglio. Eppure stavolta Townsend l’ha fatta dai, ce l’ha messa in quel posto, perché non ammetterlo una volta per tutte invece che girarci attorno? Con quell’attacco poi, così bucolico, che introduce ad un riffone che ti sbionda.

Per dirla come uno dei grandi intellettuali della politica contemporanea: CIAONE.

Alex Chilton – I Can Dig It

Pezzo piuttosto anonimo francamente, preso dalle celebri sessions del 1970 di Chilton. Non è che sia chissà che, ma piuttosto che mettere i soliti Pere Ubu o Gang Of Four preferivo buttare lì un guilty pleasure di quelli magari meno conosciuti, giusto per cambiare.

Comunque, sebbene come detto il pezzo in sé non sia di certo la punta di diamante della produzione chiltoniana ha un bel tiro e sopratutto un riff spezza-caviglie come si deve. Da mettere come sveglia la mattina, equalizzatore ben impostato per far risaltare le sferzate di Jimmy Page (così dicono) e volume da denuncia per inquinamento acustico.

The Jon Spencer Blues Explosion – Blues X Man

Da non scambiarsi col quasi omonimo duo italiano (per favore, non fate questo errore, lo dico per voi) questo trio deflagrante ne ha nel suo carrello della spesa di riff memorabili, da Rachel alla orgasmica Back Slider (bel garage blues alla The Hentchmen), eppure vi giuro che in “Orange” del 1994 ce la mettono tutta per battere ogni record. In finale ci sono andati Brenda e Blues X Man, e con l’infallibile tecnica del lancio della moneta ne è uscito un solo e incontrovertibile vincitore.

The Fleshtones – Shadow-Line

Ricordo ancora il momento esatto in cui la puntina ha toccato il discone di plastica nero, che di punto in bianco ha preso vita come un cazzo di ufo. L’album non era neppure uno dei Fleshtones, ma una collection.

Quel riff ragazzi, quel riff. Di Conrad la canzone non c’ha niente, né la tensione paranoica né l’esaltante vena avventuriera (meno raffazzonata e posticcia di quella del maestro Daniel Defoe), eppure l’esaltazione della band da New York nel suonare questo semplicissimo pezzo rock ’n roll ti trascina con sé in una danza liberatoria.

Non so se preferisco la versione di “The Groups of Wrath: Songs of the Naked City”, quella dell’OST di “Urgh! A Music War”, o la versione dell’82 contenuta nello splendido “Roman Gods”. Basta che ci sia quel cazzo di riff, non importa come lo suoni, per me è ipnotico peggio della batteria di Moe Tucker in Sister Ray, è come farsi una canna bere whiskey e guardarsi un porno in 4k mentre te lo succhiano.

Visti dal vivo per la prima volta l’anno scorso all’Hana-Bi non eseguirono Shadow-Line come nessuno dei loro pezzi più famosi, ma ‘fanculo al cazzo, se c’è qualcuno che se lo può permettere quelli sono i Fleshtones!

Lo so, lo so. Ma la radio? E le recensioni? Purtroppo sembra proprio che il lavoro mi stia rompendo parecchio i coglioni, ma ehi, magari presto potrebbero esserci delle novità. Magari un podcast solo parlato di approfondimento. Magari dei video su YouTube (giusto per inimicarmi per sempre il 100% di chi scrive di musica in Italia). Insomma, saranno cazzi.

BONUS RIFF!

Come ti cracko Spotify e te la mando in culo, caro mio musicista del menga

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Il terrore delle multinazionali.

Quando si parla di pirateria su internet finisce sempre in caciara. Oddio, anche quando si parla di ricette per la torta di mele il rischio di trovarsi la mail intasata di minacce è reale, su internet riusciamo sempre ad esprimere il meglio di noi. Comunque sia: Spotify, blablabla.

Ma davvero le migliaia di paladini del web che adesso si schierano a spada tratta per i diritti dei musicisti non hanno mai scaricato nulla d’illegale su internet? Non hanno mai visto una puntata di Danger 5 su un sito poco raccomandabile, non hanno mai scaricato il rar di un album dei Shudder To Think giusto per sapere come suonava? Niente fumetti sfogliati col puntatore del mouse, nessun software di cui non possiedono la copia fisica? Hmmmmmmmmm.

Macché, tutti questi indignados mai e poi mai hanno giocato ad una versione crackata di Caesar III, e nemmeno si sono mai sognati di scaricarsi un bel film in 4k, e proprio in virtù di ciò adesso possono battere il pugno sul loro virgulto e villoso petto e far risuonare la loro cassa toracica con virile onestà.

La verità è che ci siamo talmente abituati a scaricare roba, dai tempi leggendari di Napster ed eMule, che continuare a farlo anche oggi dove internet non è più il Far West pare una cosa normalissima, come pagare 1 euro per il caffè al bar. Ma non è così. E non va un cazzo bene.

Prima di internet e di tutto questo streaming si masterizzavano i CD, c’erano i bootleg e un sacco d’altra roba per evitare di pagare quanto avresti dovuto per avere più o meno lo stesso prodotto che marciva sugli scaffali. Perché sì, la cultura ci rende più ricchi dentro ma per molti dovrebbe essere gratis. Nessuno poi che ci spieghi come si fa se la cultura dev’essere gratis a pagare gli artisti. Gli elargiamo una paga fissa a tutti? Oppure gli stipendi li calcoliamo in base ai like su Facebook? O in base agli iscritti al tuo Vevo? Ma tanto che te ne frega a te, te vuoi soltanto che sia gratis e tanto ti basta, che siano loro a capire come procacciarsi il vil denaro.

Anche il buon vecchio Captain Beefheart tra le sue più famose massime aveva questa: «I don’t want to sell my music. I’d like to give it away, because where I got it from you didn’t have to pay for it.» Però i dischi non li ha mai messi in vendita a 0,00$. Vedete, è bello dire che la cultura dovrebbe essere disponibile per tutti, lo è altrettanto dire che restando seduti su una panchina senza far nulla si partecipa alla pace nel mondo, peccato però che non sia vero. E poi stai occupando abusivamente il posto letto di un musicista.

Ora: non voglio mettermi a fare lezioni di morale, altrimenti cadrei nel tranello anch’io, e credo ci sia una sostanziale differenza nello scaricare illegalmente un album dei Scorpions piuttosto che uno dei Maniaxxx. La prima è che gli Scorpions non hanno tanto bisogno di altri dollaroni; la seconda è che se ascolti gli Scorpions scientificamente hai dei gusti di merda. Per cui scaricare “Love at First Sting” per poi deriderlo con gli amici è ok, scaricare un EP dei Maniaxxx, dire a tutti che sono fighi, ascoltarteli notte e giorno per poi rammaricarti se non fanno un nuovo album perché non possono pagarsi nemmeno le insalate Rio Mare per le trasferte, ecco: in questo caso sei proprio uno stronzetto.

Io posso capire l’astio verso le major e il livore nel vedere che nel 2018 i CD costano ancora un casino e nessuno sembra far nulla per migliorare le condizioni per il compratore – senza al tempo stesso funestare le speranze di guadagno dei giovani artisti non allineati con le mode del momento. Anche perché Spotify non è migliore di nessuno in questo campo, lascia le briciole agli artisti e comunque fa pochi utili (come Deezer o Bandcamp), perché alla fine della giostra alla gente di pagare per l’arte non gliene può fregare di meno.

Ci sarebbe inoltre un altro discorso da fare: non è che dietro un album ci siano solo “gli artisti” (che poi in questi anni di saturazione del mercato sono davvero pochi a potersi fregiare del titolo), ma anche tutta una filiera che permette loro di esprimersi al meglio. Chi li paga gli ingegneri del suono, i produttori, i distributori? E quanto?

Chi è dentro il meccanismo conosce quali sono gli stipendi reali (quando ci sono) nel mondo al di fuori delle classifiche e del mainstream, ma chi è fuori vede solo un anonimo file mp3 caricato su un torrent da un nickname di un tizio che sta dall’altra parte del mondo.

Anni fa era piuttosto in voga il pensiero che grazie alla libertà donata da internet ci sarebbe stata una nuova primavera musicale, piena di sperimentazione e di grammatiche innovative. La verità invece è che il fruitore medio è pigro, e preferisce andare sul sicuro, si addormenta con la sua confort music e si auto-isola in una nicchia, senza nemmeno scavare tanto affondo, per cui chiunque proponga effettivamente della musica che sposta i confini di certi generi, scompare, affoga tra l’indifferenza dei navigatori. Questo IMHO è il grande fallimento della critica musicale, chiusa nelle riviste e incapace di riacquistare autorità agli occhi dei più giovani, buona solo a proporre quello che arriva dai soliti noti, diffidente ai nuovi linguaggi perché non gli ricordano i bei tempi andati con le chitarre e il 4/4.

La kultura, poi ti kura, con premura (cha cha cha)

‘Sta cazzo di cultura, lo sapete no? Ma sì, è colpa della cultura se in Italia le cose vanno male, è che non c’è cultura, non s’insegna la cultura, non si pratica la cultura. Però son tutti che anelano cultura, che veicolano cultura, che secernono cultura da tutti i pori e fori del loro corpo, in particolare da quello che non vede mai il sole.

L’Italia è l’unico paese in cui il numero di scrittori supera di gran lunga quello dei lettori, inoltre per diritto di nascita siamo tutti Tacito, Giulio Cesare, Leonardo Da Vinci e Manzoni, per non dire Dino Zoff ecco. Eppure, sebbene il problema sia la cultura, quella degli altri e mai la nostra, negli ultimi 30 anni la parola stessa è scomparsa dal panorama politico, sostituita da diverse mode (il “contratto”, “l’anti-berlusconismo”, il “federalismo”, la “rottamazione”, “l’onestà”), tutte robe passeggere, le solite cotte estive italiane, che vedono il popolo acclamare il nuovo Re per poi scoprire di averlo sempre odiato. C’è sempre Shakespeare di mezzo, porcaputtana.

Comunque sia l’idea che ci possa essere una scelta, che si debba rinunciare a qualcosa per avere qualcos’altro, è talmente avulsa all’italiano tipo da essere considerata amorale. Io voglio Netflix, Sky, Spotify, Apple Music, Deezer, Amazon Prime, Mediaset Premium, tutto tutto, però posso pagarne solo uno, altrimenti è una truffa. Alla faccia di chi in quelle aziende ci lavora ma non fa il manager o il Wolf of Wall Street della situazione.

La scelta implica un pensiero prima, una riflessione. Scelgo quel libro perché conosco l’autore e mi piace molto, anzi no prendo quell’altro perché devo leggermi ogni tanto un classico, anzi no prendo quello perché un’opera di saggistica sulla politica contemporanea mi fa comodo per contestualizzare meglio gli eventi che leggo sui giornali, anzi no, non mi merito di essere felice, mi compro un romanzo di Giuseppe Genna. Insomma, scegliere.

Internet ci ha fatto dimenticare cosa vuol dire scegliere, cosa vuol dire desiderare, per cui bisogna applicare un maggiore autocontrollo ai nostri impulsi ruberecci. A cosa serve avere su iTunes l’intera discografia di Frank Zappa se poi ti ascolti sempre i soliti due album? Stai accrescendo la tua cultura? Oppure stai facendo il contrario, impigrendoti nell’ascolto superficiale e non attivo, nella ricerca spasmodica di un riff che ti prenda subito, di una melodia afferrabile, di una cultura di puro consumo?

Non c’è gusto in Italia ad essere coglioni

Se cracki, scarichi, ascolti roba su streaming illegali, spesso e volentieri raconti a giro la favoletta strappalacrime dei pochi denari nel tuo portafoglio di pezza. Io campo con poco meno di 700€ al mese, per lo Stato Italiano sono talmente al di sotto della soglia di povertà da fare soltanto pena, eppure i dischi che mi interessano me li compro, i libri pure e persino i film! È vero: vado spesso dall’usato, ma non c’è niente di male, oggi è così, domani migliorerà. Nessuno dice che sia sbagliato scaricare per poter avere un assaggio di quel prodotto, tastarlo per benino prima di acquistarlo magari ad un prezzo oneroso. Mi chiedo però quanti davvero passano all’acquisto, ed invece scaricano compulsivamente riempiendo intere memorie esterne di cose che non guarderanno, leggeranno ne ascolteranno mai.

Nella vita reale fra le altre cose faccio il critico teatrale, pensate che i teatri mi regalino sempre i biglietti? Oppure che il quotidiano per il quale esce il mio pezzo mi paghi sempre in tempi ragionevoli? Ma questo non significa che devo comportarmi come uno stronzo, e fare l’italianata e cercare di amicarmi quella della biglietteria, oppure procurarmi il pass di qualcun altro. Sembra che sia insito nella narrativa popolare che “furbo” sia sinonimo di “modello di vita” mentre “ligio” di “coglione”.

Il problema non è la crack di Spotify o chi e con quali improbabili scuse si sente autorizzato a usarla, il problema è quella logica che vede i beni culturali come banali passatempo, forme di intrattenimento puramente ludiche.

Ci siamo dimenticati cos’è la dignità, era talmente bello potersi scaricare tutta la discografia dei Rolling Stones che non abbiamo pensato al tipo che ne ha curato la remasterizzazione. Il quale, probabilmente, una volta tornato a casa si spara l’intera filmografia di Ken Russell subbata da ∞zIO§Gabbo§OIz∞ il quale ha una perversa passione per il comic sans.

Il problema ancora una volta è l’egoismo, quel brutto ceffo sempre seduto sul divano, che si infervora solo quando gli entrano nel giardino, mentre lui invece in quello degli altri ci gira bellamente in bermuda e infradito. Coi calzini, s’intende. Vogliamo le cose gratis, ma non non lavoreremmo mai a gratis, né mai di fronte al successo ci contenteremo della paga minima.

Il mondo è proprio come te lo metti in testa, c’ha ragione Truppi – però senza poesia.

Io e Mac DeMarco

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Ma per quale schifo di motivo Mac DeMarco piace a tutti tranne che a me? Che poi non è nemmeno vero che non mi piace in toto, ci sono un paio di pezzi che mi prendono bene, ma niente che mi spieghi il suo enorme successo nel sottostrato indie della musica rock.

È vero che per me l’indie è una di quelle poche emanazioni del rock che al 99% mi lasciano interdetto per non dire indifferente. Non mi prendetemi per uno snob del cazzo per favore, sono umano come voi, e anche io possiedo ed ho amato “Mademoiselle” degli Underground Youth in un certo periodo della mia vita in cui i “teen drama” e romanzi come Bed di David Whitehouse erano tutto per me. Però troppo spesso indie è sinonimo di musica tecnicamente buona (mai eccelsa), liriche buone (se sei un eterno adolescente uscito fuori da una VHS a cavallo tra gli ’80 e i ’90) e sopratutto una forma mal celata di nostalgia per tutto quello che precede l’esplosione ormonale e il suo corollario di paturnie sessuali-emotive. E boh, francamente non capisco cosa ci sia di così interessante in tutto questo.

Mac DeMarco tra il 2011 e il 2014 l’avrò ascoltato centinaia di volte, ad oggi ho letto talmente tante recensioni da sapere pure come si chiama sua madre senza doverlo rileggere. Eppure ogni volta che lascio andare “Rock and Roll Night Club”, “2” e “Salad Days” riesco solo a intercettare un paio di pezzi per album, il resto scorre stoicamente.

Ma ad un certo punto, mentre sto bevendo un caffè decaffeinato e mangiando un piccolo panino con salmone affumicato e burro, parte per la centesima volta Moving Like Mike a palla dal mio stereo. Parlo di stamani mattina. Cioè: ho ancora le mani imburrate mentre scrivo. Comunque, è partita Moving Like Mike da “Rock and Roll Night Club”, col suo andare brillo e spensierato, col suo passo incerto ma gioviale ed ecco che BANG rivelazione!

Insomma sì, Mac è un indieguy come tanti, la sua è una storia di un proletario mancato con la faccia da scemo e la voglia di scherzare tarata a 1.000 24h/24, ma sopratutto (epifania!) è il nostalgico perfetto. Oggi tutta la musica nostalgica nelle sue più strampalate forme sta vivendo un successo mondiale. Il dolce rimembrare gli anni ’80 che non sono mai esistiti, se non in certe pellicole e nella musica spensierata che negava la repressione reaganiana a suon di synth e riff catchy, oggi è subentrato nella memoria collettiva sostituendo la realtà. Ragazzi nati nel ’99 che ascoltano vaporwave immaginandosi in qualche pellicola di Spielberg che non hanno mai visto e che probabilmente neanche esiste, ma che riescono a figurarsi tramite operazioni televisive di spietato consumo (o per meglio dire: di vampirismo) come Stranger Things.

Sto facendo un gran casino? Forse sì. Forse no. Non ne ho idea, faccio fatica a seguirmi normalmente ma credo di aver tirato giù due spunti che mi fanno capire, almeno in parte, perché I’m a Man, Me and Jon Hanging On, Annie e Ode To Victory colpiscano così tanto l’immaginario collettivo.

Mac non è il nostalgico classico, non fa alcun riferimento diretto a quegli anni ‘80, è del tutto distaccato dalla cultura del piagnisteo che crede che la simpsonwave sia arte, la sua musica per puro caso coglie quelle sonorità e le rimescola in un discorso sempre fluido armonicamente, come dei brevi flussi di coscienza mentre il mangianastri è accesso e l’automobile viaggia veloce e costante.

DeMarco non racconta niente di particolarmente sorprendente, la sua è una continua elegia dei pregi e dei difetti dell’adolescenza che non vuole andarsene, di quel magone che per lui non è poi niente di che, ma che inesorabilmente lo spinge a prendere quella chitarra e a premere giù sul REC. Mac DeMarco è un eroe contemporaneo perché riesce a vivere questa condizione senza scrivere dei sermoni sulla Verità e la Depressione, è uno sconfitto che non sa di esserlo, anzi: che proprio non gliene frega.

Non è colpa dei talent o del pubblico se la musica in Italia fa schifo

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Scrivo questo post dopo una serie di considerazioni su quest’altro comparso sul blog La Grande Concavità. Vi invito leggerlo ma se non vi andasse vi faccio un breve riassunto: l’autore cerca di spiegarsi il progressivo disinteresse verso la musica in Italia e punta il dito contro il pubblico, a suo dire sempre più assopito dalle nuove tecnologie e dai talent televisivi.

Sebbene comprenda a pieno il suo punto di vista, anche perché abbiamo tutti notato quanta gente preferisca fare video o foto ad un concerto piuttosto che ascoltarlo, credo che la colpa di questa di questa disaffezione sia invece causata al 90% dai musicisti stessi.

Avendo anche commentato sotto quel post vi riporto alcune considerazioni già presenti il quel commento.

Il Commento (Revisited)

Oggi abbiamo migliaia di possibilità di ascoltare musica durante la giornata (qualsiasi essa sia e proveniente da ogni parte del globo) e non siamo costretti a viverla come un rito se non ne siamo appassionati. Per me l’ascolto di un disco qualsiasi, da Ty Segall a Iannis Xenakis, è un momento di totale immersione, ma non deve esserlo per tutti!

Fino a qualche anno fa ascoltare musica nei locali o in radio era spesso l’unico modo per ascoltarla se non avevi molti soldi, o se le uniche musicassette che avevi erano quelle dei Matia Bazar che ti aveva regalato la zia a natale, oggi tutte quelle persone che non erano appassionate di musica ma ne volevano solo un po’ per conciliare la giornata, sono libere e quindi anche più disinteressate quando i suoni della band sul palco o su Radio Fiesole non gli stuzzicano il cervello più di tanto. Chi invece è appassionato di musica ora può ascoltarla e ricercarla senza limiti spazio-temporali e fruirne come più gli aggrada, e non solo: può espandere i propri interessi come mai prima d’ora. Fino a un decennio fa avere la discografia dei Residents era impossibile, trovare album come “Cauldron” dei Fifty Foot Hose o tutta l’opera di Francis Poulenc era un’impresa titanica, oggi spesso basta un click.

Si è persa la pazienza dell’ascoltare attivamente? No, semplicemente chi prima era costretto a sorbirsi lato A e B senza fiatare ora può farne a meno, e sono le stesse persone che lo avrebbero fatto anche prima se possibile. Naturalmente c’è il rischio di perdersi qualcosa che magari negli anni avresti riscoperto (qualche volte è capitato ad ognuno di noi!) ma per questo esistono i forum e i social network, indove trovare appassionati alla musica che ascolti è diventato facilissimo, anche se sei un cultore di robe astruse come Merzbow, e in una discussione su questo o quell’altro album può uscire fuori il nome di quel pezzo che avevi prematuramente cancellato dalla playlist.

Diciamo che oggi la quantità di stimoli è sì aumentata a dismisura ma non ne è aumentata proporzionalmente la qualità. È lì sta al critico e all’artista il compito di educare e appassionare l’ascoltatore.

Difficile che ci sia una cultura dell’ascolto in un paese dove non si insegna musica se non ai pochi che l’hanno scelta come percorso scolastico (o per i quali hanno scelto i genitori), è vero che si applaude per inerzia (già lamentava questa pratica un certo Freak Antoni nel 1978!) ma non solo ai concerti, anche a teatro dove uno spettacolo complesso e culturalmente stratificato di Antonio Latella è messo sullo stesso piano di uno parrocchiale sulla vita di San Francesco da un pubblico ormai sterile, ma non per colpa sua ma perché sono pochi gli artisti in Italia che fanno dell’arte una missione.

Gran parte delle band che ascolto in Italia (in particolare in Toscana) sono derivative e auto-referenziali, pretendono attenzione solo perché studiano lo strumento da anni e non perché abbiano composto qualcosa di valido. Manca la sfacciataggine e la voglia di sconvolgere il pubblico, la quale non è un mero mezzo per far parlare di sé ma bensì un modo piuttosto pratico di trascinare lo spettatore nel mondo del musicista. Nelle loro liriche i Troggs parlavano di sesso e non troppo tra le righe, gli Small Faces di droga, gli Who pure e nel frattempo spaccavano tutto, Alice Cooper dava sfogo alle turbe adolescenziali con un rock che doveva shockare proprio come la vita ci shocka ogni fottuto giorno quando si è giovani e pieni di brufoli, oggi per fare un esempio nostrano La Piramide di Sangue propone spettacoli quasi tribali e psicotropi che intortano il pubblico con rimandi fortemente ancestrali e mediterranei (e infatti fanno parte di una scena musicale italiana molto fertile e con un seguito molto attivo nell’ascolto).

Se la proposta musicale in primis è sottotono non ci si può aspettare interesse da parte del pubblico, il quale può ascoltarsi mentre è in treno “Shiny Beast (Bat Chain Puller)” o “Zeichnungen des Patienten” o i Mai Mai Mai piuttosto che i For Food e poi si va vedere l’ennesima band brit-pop o post-rock di ‘sto cazzo. E parlo del pubblico appassionato, perché gli altri, i disinteressati, sono sempre esistiti e sempre esisteranno.

A New York ho trovato locali pieni e grande interesse verso qualsiasi band, lo stesso vale per Belgrado o Amburgo. Ma quelle band si sono costruite un pubblico perché c’era un’idea dietro la loro musica (vedi il fenomeno nascente del drama-rock sulle sponde californiane, o l’interesse nell’Italia post-sessantottina per il prog) e non solo tecnica.

La verità è che le persone realmente interessate all’ascolto ascoltano altro, e non una massa inconsistente di band e musicisti che non appartengono a nessuna scena perché non hanno nessuna idea, oppure peggio ancora “suonano” quell’indie del cazzo alla Stato Sociale.

Ma… e i talent?

Molto semplicemente le stesse persone che prima guardavano Sanremo, o il Festivalbar, o i vecchi programmi radio di contest musicali ora si guardano i talent. Quel pubblico, attirato dalla fruibilità di una melodia italica e dalla immediatezza di una voce forte e nitida, ci sarà sempre perché c’è sempre stato.

Se una persona non è interessata ad approfondire la sua conoscenza musicale perché deve farlo? Se gli basta Tiziano Ferro perché deve si ascoltare Frank Zappa? Come mai la cosa dà così tanto fastidio poi!

La musica culturalmente rilevante è sempre stata apprezzata da una piccolissima parte della popolazione, anzi che dal ‘900 in poi quel pubblico si è allargato a dismisura in confronto ai tempi di rockstar come Carl Philipp Emanuel Bach.

Non ci sarà mai la fila ad un concerto di Antony Braxton o dei Pere Ubu, fatevene una ragione.

E i soldi in tutto ‘sto popò di predica dove li mettiamo?

Problema tutt’altro che secondario i big money. Oggi poi ci sono circa seicento blog solo su WordPress che sanno tutto su come farvi fare soldi suonando quello che vi pare, senza stampare un disco e senza fare una live, ma con l’uso di astruse tecniche di marketing che, deduco dal numero spropositato di siti e blog che ne parlano, funzionano alla grande.

Ironia a parte è un grossissimo problema fare soldi se come mestiere fai il musicista in questo Paese. Ma qui il problema è più ampio, provate a fare i registi teatrali o i costumisti, provate a fare i pittori o gli scultori, provare a fare i coreografi, gli scrittori, gli sceneggiatori cinematografici, i fumettisti, provate a fare dell’arte il vostro mestiere in Italia. Se ci riuscite le dodici fatiche di Ercole le potete affrontare tutte alla guida di una Punto col gomito di fuori e On the Road Again in heavy rotation sulla radio.

Non è un problema di pubblico o spettatori o fruitori, lo Stato crede poco nell’arte contemporanea in senso lato e preferisce investire sulla salvaguardia del nostro glorioso passato. Quel glorioso passato che va dalle rovine di Pompei che crollano di pezzo in pezzo ogni giorno, alle chiese medievali in ristrutturazione dall’inizio della riforma Protestante, fino ai palazzi nobiliari che diventano sedi di banche e via dicendo.

Poi ovviamente c’è il modo di sfondare senza leccarle il culo alle major o senza fare il verso a Jovanotti. Si chiama Superenalotto.

Ma esattamente che cazzo dovremmo fare?

E che te le devo dire io? Io sono solo un fruitore.

Il ruolo della critica

Andrebbe invece rivalutato il ruolo della critica, proprio oggi che non c’è più bisogno di comprarsi una rivista per sapere che se ti piacciono i Throbbing Gristle oltre ad essere un probabile sociopatico ci sono altre band simili a loro, perché quella funzione è oggi esautorata da una barra laterale di YouTube, è invece necessaria una figura che contestualizzi lo tsunami di proposte musicali contemporanee.

Più che filtrare il critico può come detto contestualizzare e interpreta l’idea di un artista, perché lui al contrario del fruitore medio passa buona parte della sua giornata a studiare l’oggetto della sua critica. Difficile godersi a pieno Mahler se non si hanno nozioni tecniche anche minime di musica, se non si sa che visse nella Vienna di Schiele, nell’epoca dei Tre saggi sulla teoria sessuale di Freud, come anche i già citati Pere Ubu se non si sa cosa sia la Patafisica, se non si conoscono i principali protagonisti del post-punk, se si è mai letto J.G. Ballard o visto Taxi Driver o Shivers. Ma il critico questa robaccia l’ha studiata per voi, e se non è uno stronzo megalomane può anche spiegarvi perché è tanto fica e perché ha influenzato il vostro amato o incomprensibile artista.

Abbiamo bisogno della critica, dei siti e dei blog, magari scritti da gente un po’ più preparati della media e di me, ma per quello c’è tempo.

Fino a qualche decennio fa il commento di un critico provocava riflessioni o scontri il più delle volte produttivi, non paragonabili ai commenti a caldo sotto un video di YouTube, anche se potrebbero benissimo essere il futuro se la sezione dei commenti fosse più curata dal punto di vista grafico, e se il tenore delle discussioni migliorasse come nei forum che andavano di moda anni e anni fa.

Il luogo e i mezzi della critica cambiano, anche la forma può e deve cambiare, ma non la serietà e la credibilità, che si basa unicamente sullo studio appassionato e fottutamente approfondito.

Morale della favola

Insomma, non date la colpa ai talent o al pubblico se quello che suonate non se lo fila nessuno, se credete che all’estero vi possa andare meglio PROVATECI PERDIO, che oggi le occasioni per farsi sentire da etichette francesi, inglesi, coreane ne avete a bizzeffe. Se volete svegliare un pubblico perso nel livellare su Dash Quest piuttosto che ascoltare la vostra sbobba, fate più casino, insultateli, dipingetevi la fava di rosso e suonate con quella, il rock è anche questo, è tirare fuori le tette goffamente mentre parte quel riff, è spaccare gli strumenti – di nuovo, è urlare al microfono «siete un pubblico di merda/ applaudite per inerzia», e magari vi diranno che siete volgari, che siete in cerca di attenzioni, che siete solo dei provocatori dementi. Però intanto parlano di voi, la gente vi ascolterà, e se dietro tutte le stronzate ci sarà qualcosa di interessante gli stronzi che preferiscono i Pussy Galore a Vasco Rossi se ne accorgeranno, vedrete.

L’Algebra Del Bisogno – Piccole storie morali di droga

Music is Heroin

[…]non capiscono che lo Speed-Ball è come una complessa armonia musicale: se la cocaina sembra la sostanza che prevale, come se fosse la voce e la chitarra di un complesso, la roba invece fa il lavoro sporco, quello che non sembri percepire: è la sezione ritmica della band, il basso e la batteria… e cazzo come cambia l’effetto! È come ascoltare la Jimi Hendrix Experience senza la sua Experience: non è per niente la stessa fottutissima cosa.
bfmealli, “Le Cinque Regole”, 2015

Quante volte quando si parla di rock si parla di droga?

La storia del rock è strettamente legata alle dipendenze, un’eredità che viene da lontano, dal Delta Blues, dal country e, perché no, dal be-pop scatenato descritto con dovizia psichedelica da Jack Kerouac in On The Road.

Quante canzoni abbiamo ascoltato che parlavano espressamente di droga? Sì, è ovvio che My Generation degli Who imitava il balbettio dell’anfetamaniaco, però non è così diretta come lo possono essere Here Comes the Nice degli Small Faces, New Amphetamine Shriek dei Fugs, Now I Wanna Sniff Some Glue dei Ramones, The Trip di Donovan, metà dei pezzi dei Grateful Dead e via dicendo.

Ecco, se c’è uno che può raccontare la droga come se non meglio dei Ramones quello è un rocker che ancora non conoscete: bfmealli. Questo tipo, seguace del Capitano (come si può ben intuire da quel “bf”) da qualche tempo collabora con questo blog, ma di recente ne ha aperto uno tutto suo qui su WordPress dove, per l’appunto, parla di droga.

Ecco amici, bfmealli è uno autentico (come direbbe Lester Bangs), uno che racconta le cose per come stanno, senza tanti fronzoli, con la provocazione tipica del rock, con una scrittura fluida ed ispirata che vi farà innamorare, te la fa semplice, ma in realtà c’è molto da scavare dietro quelle parole. I suoi racconti sono un tripudio di sensazioni uniche, quelle di chi la dipendenza l’ha vissuta sulla sua pelle mantenendo una certa lucidità nella follia.

Il suo blog, L’Algebra Del Bisogno – Piccole storie morali di droga, è una collezione di racconti a tratti surreali, che vanno dritti sul tema senza perculare nessuno, senza anatemi del cazzo, senza bigottismo o vittimismo, riuscendo a farti divertire per poi subito dopo tramortirti con un calcio sui coglioni.

Io personalmente lo conobbi leggendo le sue recensioni rock su Splinder. Mi ricordo perfettamente una sua descrizione di Heroin dei Velvet Underground, pubblicata anni fa su un blog che non troverete da nessuna parte: “La più grande canzone d’amore mai scritta”, beh, se quella è davvero la più grande canzone d’amore mai scritta, allora questo blog è il blog sull’amore più viscerale che ci sia, dove però uno dei due partner ci perde sempre.

Nemmeno ve lo dico che non è un blog per esaltati alla ricerca di un nuovo spaccino. Anzi, ve lo dico, che non si sa mai.

Ma ora la smetto, perché per quanto mi ci sforzi qualsiasi cosa possa scrivere sull’argomento sarà comunque artefatta, posticcia, se non proprio fastidiosa. L’Algebra Del Bisogno non è grido di aiuto, ma una necessità, e come tutte le cose che sono dettate dalla necessità fanno parte di una natura ancestrale che ci accomuna tutti, anche se noi, leggendo, stiamo solo scorgendo la profondità di quel pozzo.

Un blog a puttane (Verma, The Ghetto Fighters)

Purtroppo è un bel po’ che non aggiorno il blog con la solita merda che vi consiglio, ma ci sono stati dei problemi di vario genere (che perlopiù si limitano alla persistente presenza di una vita reale, quelle con i progetti, il lavoro, lo studio, sì sì, tutte quelle stronzate là).

Ho ascoltato della musica ovviamente, ma senza porgli l’attenzione adeguata per delle recensioni. Sarebbe stato inutile buttarvi qua e là delle recensioni scritte di pancia, anche se ne ho molte nel cassetto, perché avrebbe poco senso. 

Comunque sia tra tutta la robaccia che ho ascoltato volevo consigliarvi qualche ascolto.

Intanto tre band krautrock contemporanee (sì, è tornato il kraut, probabilmente sarà il prossimo revival) che dovreste ascoltarvi, i “veterani” zZz, i miei amati Big Naturals (che sono quelli, a mio avviso, più interessanti in prospettiva) e i Verma.

Verma, il krautpunk moderno

Mi soffermo un attimo sull’esordio omonimo dei Verma, del 2011, un album diviso in tre tracce dove i Tangerine Dream rinascono nella nostra epoca, dove “kosmic rock” non è più un antico suono degli anni ’70, ma qualcosa che di tangibile anche per noi. La cosa bella dei Verma, come anche dei Big Naturals, è la fortissima influenza che il loro kraut ha subito dall’ultima ondata garage psych californiana (sebbene i Verma siano di Chicago e i Big Naturals siano degli stramaledetti inglesi da Bristol).

La sezione ritmica dei Verma è incredibilmente simile a quella dei Thee Oh Sees, che infatti ho sempre denominato kraut a tutti gli effetti, questa commistione tra ignoranza garage e freddezza kraut personalmente mi esalta non poco, spero di trovare nuove band da proporvi in tal senso. Ah, “EXU”, ovvero il secondo album dei Verma uscito nel 2012, sebbene sia meno space guadagna in qualità sei singoli pezzi (stavolta ben sei), e non ho ancora ascoltato gli altri due successivi. Fanno un cazzo di album all’anno questi, porcodemonio.

Il garage sanguigno dei The Ghetto Fighters

Stooges? MC5? Oblivians? Il Ty Segall di “Slaughterhouse”? Tutte favolette della notte in confronto al casino immondo dei The Ghetto Fighters nel loro credo esordio assoluto “The Lost Recording” uscito il mese scorso e il fautore di tutto questo macello è il solito Andy Macbain, lo stesso dei The Monsieurs e dei Marty Kings.

I quattro minuti e un secondo di Hollywood sono l’apertura più devastante dai tempi di “Metal Machine Music”, e io che credevo fossimo al limite con i Running. «Hollywood, that’s were I’m from/ I went out and I got me a gun/ Now I just gotta get outta Hollywood» urla alla Gerry Roslie di Andy Macbain, e a mala pena si capisce qualcosa mentre il riff ultra distorto della chitarra devasta il senso del gusto. Continuo a pensare che Macbain sia un pazzo assoluto, uno dei massimi esponenti del garage punk contemporaneo, dal vivo è una presenza volgare, quasi vomitevole, un cazzo di genio insomma.

Beh, che dire, prima o poi ritornerò a rifocillare il blog delle cose che mi passano per la testa, ma non so bene quando. Intanto vado a fare “le cose serie”.

Ci sono troppi “capolavori”!

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Ho una lista di dieci album che voglio recensire, più tre discografie che ho già incominciato e altre robe. Però no, meglio un post sul perché non voglio più scrivere la parola “capolavoro” per un album contemporaneo, questo sì che interessa, questo sì che vi ossigena il cervello.
A questo punto credo proprio che il mio livello di incapacità di tenere un blog da “1” a “10” sia un bel “Andrea Scanzi”.

Troppe volte nelle scorse recensioni ho parlato di “capolavoro”. Sì. ok, l’unica volta che lo ricordo distintamente è quella su “Order of Operation” degli Ausmuteants, però sono SICURO che ci siano altri casi simili in altri post. Che comunque non rileggerò. Questa recente epidemia di insano entusiasmo verso alcuni album è dovuta a due fattori:

  1. trovo ridicoli e imbarazzanti gran parte degli album usciti quest’anno tacciati di tale insigne, tra cui “Commune” dei Goat (che mi piacevano e mi divertivano finché non me l’hanno menata a dismisura su quanto siano fighi) e l’ultimo dei The War on Drugs (profondo come una pozzanghera, paraculo e rifinito in sala missaggio per piacere a nonne, mamme, zie e papà);
  2. sono stranamente di buonumore, e questo mi porta a scrivere più cazzate del solito.

Tutto questo lo scrivo sul blog perché, come qualcuno ormai avrà capito, questo spazio nel web sta crescendo assieme a me, e non avendo altri mentori* se non i critici musicali che impestano le riviste che leggo e i miei commentatori, cresce a rilento. Una delle cose che ho capito in questi ultimi due anni è che un capolavoro lo si può definire in maniera corretta solo dopo la sua storicizzazione.

Di fronte ad opere particolari come il primo album dei Velvet Underground o “Trout Mask Replica” nel momento in cui erano uscite non era facile approcciarsi, c’è chi le disdegnava (i VU erano proprio ignorati, come si fa con i barboni o coi leghisti) o chi le esaltava, ma personalmente non credo affatto che il primi siano tutti imbecilli mentre i secondi tutti profeti, credo solo che entrambe le categorie fossero dei critici un po’ troppo supponenti.

L’importanza di un album si intravede nella generazione successiva, per la sua influenza positiva. Ovvio, se per Beefheart si può benissimo parlare di un album fondamentale, anche solo per gli effetti nella new wave e il post punk (ma la sua influenza si estende dai Pere Ubu fino ad oggi), ho sei seri dubbi invece sulla discografia dei Deep Purple, che sì, hanno influenzato tantissimo, ma hanno influenzato tantissima merda sopratutto.

Ci sono generi poi che secondo me si auto-escludono direttamente dalla categoria masterpiece, come il suddetto hard rock, che nella sua chiusura concettuale (riff, assolo, voce che fa «aaaAAAaaaaAAAH!», riff, assolo, coda finale di dieci minuti in live) non ha più nulla da offrire, per cui o lo superi trasformandolo in altro oppure fai revival.

Ci sono anche casi di album dimenticati di grande valore, che delle volte hanno persino anticipato delle correnti (Pärson Sound?), devo dire che ancora non so bene come approcciarmi di fronte a tali eccezioni, diciamo che per ora li ritengo solo “grandissimi album” e porto a casa (sono troppo professionale).

Avevamo anche incominciato un discorso sul concetto di capolavoro nel rock, ma il mondo reale non mi aiuta a sviluppare questo spazio virtuale. Vediamo se quest’anno le cose vanno meglio, ma immagino che tutto dipenda solo da me e non da altri fattori.

In questo 2015 ci sarà qualche re-review in più, ovvero tornerò su alcuni album che ho recensito nell’anno appena passato perché in certi casi vanno ridimensionati (“Order of Operation” per l’appunto) in altri approfonditi (l’esordio dei Nun, i Molochs, i Corners, etc…).

Grazie a tutti quelli che ogni tanto passano e lasciano il proprio pensiero, spero sempre che questo sia prima di tutto uno spazio divertente e stimolante, poi magari un giorno sarà persino competente!

*tra gli altri mentori che vorrei citare ci sono: L’Uomo Ragno, Martin Heidegger, Tristram Shandy e Sid Meier.

Ora vado a videogiocare, (adoro far esplodere cose con questo pezzo):

TAO Love Bus Experience, la ridicola moderazione ne Il Fatto Quotidiano e lo “spirito del rock”

Ho sempre desiderato aprire un post con quelle immagini del cazzo su cibo e bevande che impazzano su Instagram. BANG!
Ho sempre desiderato aprire un post con quelle immagini del cazzo su cibo e bevande che impazzano su Instagram. BANG!

Con un titolo del genere vi starete chiedendo quali sostante psicotrope io assuma abitualmente. Perlopiù il tè. Deteinato.

Qualche giorno fa ho avuto una illuminate diatriba con cantautore rock italiano nella sezione commenti del Fatto Quotidiano. Come saprete la versione online del FQ è una sorta di Novella 2000 dove ci schiantano blogger più o meno imbarazzanti (si va dagli ufologi fino a Andrea “Ciao Sic” Scanzi), ma se non siete nati ieri su internet questo lo sapete già, però è possibile che non conosciate TAO, né il suo Love Bus Experience.

TAO è un cantautore milanese che un giorno lesse “Peace & Love” di Guaitamacchi e decise (intorno ai primi del 2000) di portare il verbo del rock in tutta Italia. Un po’ in ritardo forse, ma non per questo il suo non è un percorso onorevole.

Quello che degli anni ’60 TAO decide di riportare alla luce è la musica più conosciuta e abusata in tutti gli anni ’90 e i primi del 2000, ovvero il beat. Non proprio una scelta controcorrente in un mondo che ha dovuto subire la seconda ondata britannica proprio in quegli anni (il dannato brit-pop di MTV), ma lo diventa in questi tempi, in cui sia in California che in Europa si stanno riscoprendo gli anni ’60 meno alla mano (il garage rock, Syd Barrett solista, la prima psichedelia e le solite cose di cui parliamo in questo blog).

Il suo esordio discografico è “Folìverpool” nel 2005, un album di imbarazzante fattura, pop rock melodico anni ’90 con ritornelli sdolcinati e citazioni beat (Solo Lei) che trova il suo manifesto compositivo e concettuale in La Musica Ed Io, una reminiscenza del “potente rock” delle Vibrazioni o dei catanesi Sugarfree. Un ritorno agli anni del Piero Pelù di “Soggetti Smarriti” di cui sentivamo proprio il bisogno. Da quel genere non si evolverà mai il buon TAO, anche le liriche sono perfettamente coerenti con la musica e con la scena rock pop italiana, un misto di Afterhours e Negramaro, provate se avete coraggio ad ascoltarvi L’Ultimo James Dean se desiderate una agghiacciante conferma (sono l’ultimo bohémien/ sono solo l’altro eroe della solitudine/ sono l’ultimo James Dean/ uno che si schianterà/ percorrendo la corsia/ fra l’amore e l’anarchia).

Un suo grande merito però va per il modo con cui ha deciso nel solito 2005 di portare la sua musica in giro (e no, non sto parlando della sua comparsa in metà delle reti televisive italiane o su X-Factor), ovvero in un pulmino Volkswagen (il leggendario Kombinazionenwagen) la versione anni ’70 di quello che negli anni ’50 scarrozzava le band di surf rock strumentale per le coste californiane, diventato un mito generazionale negli anni ’60. Se siete miei lettori da un po’ certamente vi pruderanno le orecchie sentendo una storiella del genere, ma andiamo con ordine.

Il 7 Novembre sul blog di Pasquale Rinaldis nel FQ esce questo articolo “‘Spirit of rock’: il primo ‘rockumentario’ è firmato Tao” preceduto l’anno prima da una intervista al cantautore sempre dello stesso Rinaldis. Io conoscevo già TAO perché l’avevo visto esibirsi nel suo bus qualche tempo fa, ma non sapevo che con lo stesso ci andasse in giro per l’Italia. Di solito non commento mai sul Fatto, eppure stavolta mi è scivolato il dito sulla tastiera: 

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano

Se seguite il mio blog sapete cos’è Jam In The Van, un progetto di crowdfunding nato intorno al 2010 che riprende la tradizione californiana (nata nei lontani anni ’50) di suonare rock in un pulmino. Mi dispiaccio però che sia proprio TAO a portare questa antica e gloriosa tradizione in terra italica, anche perché come vi ho detto il suo rock non è di certo una reminiscenza di Dick Dale o del garage californiano, ma piuttosto un cugino dei milanesi Vibrazioni.

Ma ecco che, dopo poco, arriva una risposta:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (1)

E qui Valerio “TAO” Ziglioli ci dimostra, nel caso ancora non l’avessimo capito, a che livello infimo è la musica italiana. Analizziamo insieme il commento.

TAO esordisce dicendo che non sa proprio cosa sia Jam In The Van, e con questa certezza deduce che io non sappia cosa sia il TAO Love Bus Experience. Qualcuno mi spiega dove sta il sillogismo? Come fai sapere che le due cose non c’entrano un benamato cazzo se non conosci una delle due? Telepatia? Onniscienza? Sostanze psicotrope? Al limone o alla pesca?

Accortosi in corsa che forse si stava contraddicendo mi chiede un link di conferma. Scusa TAO, ma a te il bambin Gesù non ti ha donato delle mani? Larry Page e Sergey Brin non ti hanno fatto dono di Google? Blocchiamo la nostra disamina solo per un secondo e proponiamo al caro TAO, che essendo un nostalgico ha poca confidenza col web (sebbene il suo canale YouTube carichi video dal lontano 2006), un breve tutorial su come cercare le cose su Google:

1) Vai sul tuo browser di fiducia e digita sulla barra di ricerca “google”, clicca sul primo link indicato e dovresti trovarti di fronte questo:

Google

2) Ora digita sulla barra sotto la scritta colorata l’oggetto della tua ricerca:

Google (2)

3) Clicca su “Cerca con Google” e ti troverai di fronte a questo bel panorama:

jam in the van - Cerca con Google

4) Clicca sul primo link e scoprirai nell’arco di trenta secondi tutto quello che ti serve sapere per dare un giudizio sul mio commento. Ma immagino che il tuo tempo sia troppo prezioso per fare una lunga ed estenuante ricerca nel meandri del deep web.

Detto ciò, caro TAO, ma dove l’hai letto il “commento poco carino” sulla tua persona? Ti è mai sortita in mente la possibilità che dato che stavo parlando di musica io mi riferissi alla tua musica? Oppure ogniqualvolta qualcuno commenta qualcosa su un gruppo o un musicista si riferisce a lui personalmente?

“Suggerisco, prima di spararle grosse di informarti” e che purtroppo TAO non possedendo i tuoi poteri extra-sensoriali sono costretto a seguire il tutorial qui sopra! Me tapino…

Ovviamente gli rispondo:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (2)

Come vedete nessun insulto, solo un giudizio, forse troppo laconico, sulla musica. Gli dò pure un cristo di link (questo). Credo che, nel 2014, mi sia permesso dire che la tua musica è divertente e smuove i fianchi ma non va oltre una ballad dei Bisonti.

Ecco, se avesse voluto incularmi gli sarebbe bastato un bel «Il rock parla delle cose banali, la vita è banale, quindi se mi dici che la mia musica è banale è solo un complimento.» Chapeau, cazzo, m’hai proprio colpito! Sarebbe stata una risposta non solo intelligente, ma anche convincente, che mi avrebbe fatto rivalutare anche quel doppio mattone di “Love Bus/Love Burns”, ed invece:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (3)

[Prima di tutto un appunto ai giovani lettori: il “né” è una congiunzione negativa che si scrive con l’accento acuto. Delle volte queste cose possono scappare, lo so bene anche io che scrivo recensioni senza nessuno le corregga, ma in un commento di 9 righe su disqus cercate di evitare queste… chiamiamole pure “sviste”.]

Come sapete Jam In The Van è un gruppo di ragazzi che vanno in giro in pulmino e filmano le esibizioni delle band al suo interno. Ovviamente non è esattamente come il bus di TAO, trasformatosi in palco ambulante, eppure si rifanno entrambi ad una tradizione californiana degli anni ’50 (che TAO ignora bellamente), non solo, avevo specificato che il progetto di Jam In The Van nasce intorno al 2010, mentre il suo è del 2005. Perché incazzarsi? Non si sa.

Ma poi arriva una delle frasi più assurde cha abbia mai letto: “Sinceramente della attuale scena italiana non me ne frega assolutamente niente, anche perché non esiste una scena italiana e se esiste non mi ha minimamente colpito.” mi ricorda il Gorgia di Platone, solo molto più imbranato. È come se non conoscesse l’esistenza del tasto backspace della tastiera, per cui è costretto a rincorrere quello che lui stesso scrive. Dì che della scena italiana non te ne può fregare di meno e finiscila lì! È già sufficiente per giudicarti come musicista, non abbiamo bisogno d’altro! Prima di tutto esistono parecchie scene in Italia, una poi degna di attenzione internazionale (la Psichedelia Occulta), se non ti ha minimamente colpito ci fa altrettanto piacere, ma ti prego, non dire che “non esiste”, che cazzo di figura ci fai?

Riguardo a come definisco la tua musica (che di rock ha solo la strumentazione) non sono “punti di vista” perché come il punk è diverso dall’hard rock anche il tuo cantautorato anni ’90 è diverso dal beat o dalla figura “rockettara” che vuoi dipingerti addosso, con tanto di furgoncino da figlio dei fiori e il capello alla Bill Haley. Se quello che suoni è tutt’altro che banale allora Tiziano Ferro è sperimentale.

Ma ecco che colpisce con la supercazzola definitiva: “lo Spirito del Rock”! E che è, il nuovo superalcolico di Marilyn Manson? Dai amico, sul serio? Mi ricorda una tizia ad un convegno che se ne uscì con «L’arte di Leonardo Da Vinci non va studiata accademicamente, perché è energia» e quando la interruppi per chiederle secondo lei quanti joule aveva L’Ultima Cena non mi volle rispondere. Questa idea di rock mi ricorda tanto «La mia “arte” fotografa la realtà, non la inventa. Questo è il linguaggio del rock. Chi vuol capire veramente ascolti. E se a qualcuno dà fastidio, tanto meglio. È ora che si svegli» di Vasco Rossi, giustificare la propria libertà di fare musica dietro parole a caso come “arte”, “anima”, “spirito”. Però in effetti con “arte” si rientrerebbe nel contesto “snob” che il buon TAO snobba, per cui forse il suo mentore è lui:

billy idol 2

Ma poi mi sovvengono anche dei dubbi sulla sua conoscenza della materia. Da quando l’indie rock è snob? Volete dirmi che gli Arctic Monkeys ora sono un gruppo di nicchia solo per intellettuali? E quelli che ascoltano John Zorn che sono, eremiti?

Ho provato a rispondere anche a questa sequenza di deliri rimanendo sempre educato, cercando di criticare la musica, non la persona (di cui, dopo questo battibecco, forse ho meno stima di prima) ma il moderatore mi ha rispedito al mittente il commento. Come mai? Valutiamo i termini della moderazione nel FQ:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (4)

Ok, niente insulti, niente off topic, niente accuse di alcun genere, ma allora perché non mi avete accettato questo (lo screenshot è dalla mia home di disqus):

Disqus Profile - Callimaco

Volete dirmi che perché ho scritto “banale” l’ho insultato? Una risposta al musicista di cui parla l’articolo è off topic? L’ho accusato di seviziare bambini? Ho persino detto che quella ciofeca immensa di “Love Bus/Love Burns” era un pop-rock accettabile, proprio per stemperare lo spirito rock di TAO (che gli annebbiava la vista mentre leggeva i miei commenti), per quale motivo non far passare il commento?

Gentile Pasquale Rinaldis, non so se è lei stesso o altri a moderare il suo blog, però chiunque sia ha dei seri problemi di comprensione del testo.

Detto questo a me dispiace parlare in toni così acidi di un musicista italiano, però TAO oltre a dimostrarsi poco incline alla lettura dei miei commenti si è pure prodigato a sparare una serie di frasi fatte sul rock che uccidono la bellezza del rock stesso, denigrandolo come vorrebbe Billy Idol ad un semplice linguaggio tra camionisti per scaricare la stanchezza della giornata.

Beh, non è così. Il rock nasce per provocare, lo si può fare in maniera becera eppure poetica come i Ramones o cercare un linguaggio più complesso come nei Pere Ubu, ma lo sostanza non cambia, che sia il primo album dei Velvet Underground o uno dei Thee Oh Sees non cambia, il rock si riconosce sempre perché ti infastidisce, di fa ridere, ti fa pensare, mentre il beat in chiave anni novanta e la poesia spicciola di TAO non è rock, è mediocrità.

TAO fa bene quello che fa, e non lasciatevi ingannare dai miei giudizi sulla musica perché io sostengo questo Love Bus Experience. Ognuno può imbracciare una chitarra e cantare, lo diceva anche Lester Bangs che il rock non è una cosa seria, e lo credo fortemente anche io, ma non per questo la tua musica diventa intoccabile. Non è che se ti senti un rocker lo sei. E non è che se il tuo rock suona come un pezzo dei Corvi riadattato dagli Sugarfree o da Daniele Silvestri allora non sei banale.

Se volete fare un po’ di casino con un chitarra, vi prego, non dite mai che lo fate per lo spirito nobile del rock, così sembrate usciti da un film con Meat Loaf, dite la verità: dite che lo fate per divertirvi e perché credete sia la cosa più bella del mondo. Niente stronzate auliche o pseudo-hippie. E se qualcuno vi dice che fate cagare vi consiglio vivamente di rideteci sù, perché il rock non è un cosa seria.

—————

E dopo tutta ‘sta manfrina eccovi dei video del buon vecchio TAO, della roba così non ve la proponevo dai tempi degli Scotch!

Un po’ di Bono e tanto pop anni ’90 con L’Ultimo!

Ecco un singolo perfetto per le radio più intraprendenti (radio Subasio, se ci sei batti un colpo!):

Un po’ di rock più politico e socialmente rilevante, roba da fra tremare i CCCP:

Nuovo film di Dario Argento con Iggy Pop: The Sandman!

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Ma per quale cazzo di motivo devono dare dei soldi a Dario Argento per fare nuovi film? Dannazione, è praticamente l’unico regista dei tempi d’oro dell’horror italiano che si è completamente bevuto il cervello!

Ma li avete visti gli ultimi rigurgiti del Maestro? Robe come Il cartaio (che razza ti titolo fra l’altro), quel Giallo con Adrien Brody che mi ha quasi fatto venire un ulcera al cinema e (non credevo ne avrei mai più parlato) Dracula 3D. Sul serio non c’è nessuno di più capace? Davvero?

Ma poi le premesse… Un film di natale. Già. Perché Argento s’è stufato dei film «buonisti» di natale. Però cagare sulla cinepresa non lo sfianca. Mai.

Comunque sia gustatevi questo video con l’Iguana che presenta Argento e la sua ultima “opera” (The Sandman uscirà il prossimo anno):

Ovviamente vi invito a non mandargli un centesimo, piuttosto investiteli in francobolli d’epoca.

Se ti piace il rock devi avere almeno un album dei Troggs

The_Troggs_(1966)

Perché mi chiedete?

Perché se ti piace il rock ti piacciono i Troggs. È così, è matematica, anzi amici miei: è biologia.

Lasciate perdere a piè pari le nozioni storiche, il fatto che fossero proto-punk dal 1964 o giù di lì, perché il punto fondamentale della questione è che i Troggs provocavano sotto tutti gli aspetti, e questo è rock.

Perché il rock è provocazione, ma nel senso più ampio del termine, ti porta al centro del ring e ti lancia addosso di tutto, dalla rabbia alla depressione, dalla riflessione sulla politica contemporanea al teatro, il rock ha questo potere incredibile di essere il mezzo musicale più democratico e potenzialmente anche quello più duttile per veicolare qualsivoglia messaggio.

Ma per svegliare il tuo interlocutore dal torpore brit pop devi provocarlo. Non necessariamente questo significa riff su riff fuzzati all’inverosimile, anche Sea Song di Robert Wyatt provoca qualcosa, e lo fa con prepotenza sebbene le sue note siano dolci e sembrano provenire dal profondo oceano dell’esistenza. Wyatt ti trascina con sé in quel gelido mondo con il suo intimo falsetto e le sue meravigliose immagini, ma la sua musica non è intellettualmente chiusa perchè non è assolutamente auto-referenziale, anzi: ti sta cercando, vuole che tu sia pienamente partecipe, e quindi ti spinge in mezzo al ring.

Questo discorso i Troggs non lo avevano capito, ma ce l’avevano nel sangue.

Quando parte Feels Like a Woman senti tutta l’energia di quella prepotenza, anche se non lo vedi sai che Reg Presley sta facendo qualche immonda smorfia, il suo canto ignorante poi è una ciliegina su una torta di per sé già deliziosa.

Wild Thing, I Don’t, Bass For My Birthday, I Can’t Control Myself, Black Bottom, Strange Movies, sono troppe le perle dei Troggs che non dovrebbero mancare in nessun scaffale o raccolta mp3 (o FLAC, se siete più raffinati di Presley), perché dopo il rockabilly infuocato di Jerry Lee Lewis e il garage degli albori dei Kingsmen e dei Wailers ci furono gli sguaiati e provocanti Troggs a buttare le basi per il rock che sarà.

Bobby Martin e Patrick McCarthy lasciano il progetto Zig Zags

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Se seguite da un po’ questo blog saprete di certo che per questo trio californiano nutro una certa passione. Ci credo nel punk metal degli Zig Zags, non solo perché credo che unire due generi così antitetici sia già di per sé encomiabile, ma perché la loro musica, il loro rock, ha una potenza e un’efficacia incredibili.

Come avrete letto sopra sia il bassista che il batterista lasciano tutto solo soletto quel genio di Jed Maheu, il quale è già impegnato con altri progetti collaterali ma spero bene non voglia cancellare l’esperienza Zig Zags, per quanto il sound della band fosse straordinario non solo si può migliorare ma si può anche rinnovare

Nel caso non aveste ancora recuperato il loro primo LP fatelo, senza pregiudizi, Jed Maheu è il miglior prospetto di una scena californiana che ha perso qualche pezzo (Jay Reatard e ora pure i Thee Oh Sees), che sta cambiando (il nuovo album di Ty Segall, la commercializzazione di Cronin, la psichedelia banalizzata di Jacco Gardner), ma che trova la sua miglior espressione in band “diverse” come Harsh Toke e Zig Zags.

Stairway To Heaven mi ha stufato!

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Rappresentazione concettuale della più celebre canzone rock di tutti i tempi.


Posso dirlo?
Davvero?
Nessuno di voi utenti del web mi stuprerà con del riso crudo per una tale bestemmia?
Non ci credo. Però lo dico.

Stairway to Heaven m’ha sinceramente rotto il cazzo.

Non sono di certo qui a fare il bastian contrario o scemenze del genere, questo tipo di blogging puerile non fa per me. Non sono qui nemmeno per contestare la qualità della canzone in sé (anche se il mito di una oggettiva superiorità su qualunque altro pezzo mi sta sulle palle), ma proprio il suo feeling col sottoscritto. Un post inutile, lo so, grazie per avermelo fatto notare.

I miei gusti musicali sono molto cambiati negli anni, migliorati (forse) e ampliati, però è difficile dimenticare i primi amori. Il prog inglese dei Genesis di “Selling England By The Pound”, i Pink Floyd (ma solo dal 1970 in poi, pensate che mi stavo perdendo!) e poi, ovviamente, l’hard rock sempre di stampo britannico di “In Rock” dei Deep Purple e gli immancabili Led Zeppelin.

Io adoravo i Led Zeppelin, erano come quattro lucenti divinità dorate, che ci poteva essere MEGLIO dei Led Zeppelin? Niente, cazzo. Anzi, se qualcuno proponeva qualcosa (qualsiasi cosa, nemmeno necessariamente musicale, tipo chessò: Madre Teresa) i Led Zeppelin gli erano indistintamente superiori, musicalmente, moralmente, eticamente, grammaticalmente, in qualunque senso.

Però c’erano due album, solamente due album di tutta la loro discografia che segretamente non sopportavo: “Presence” (detto anche “macchèmerdaè?”) e “IV”.

Immaginatevi per un odioso adolescente di un Liceo artistico cosa volesse dire una roba del genere. ‘Sti cazzi che lo spifferai a qualcuno, manco al mio miglior amico, sarebbe stata un’esclusione sociale pazzesca, già il mio «preferisco persino Lucky Starr di Asimov a quel finocchio di Harry Potter» mi aveva reso popolare come un professore di matematica, figuriamoci se avessi toccato l’album INTOCCABILE per eccellenza!

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Che poi a me “IV” (o “Zoso” o ZoSo”, come vi pare maledetti fanboy) non è che facesse cagare tout court. Insomma gente, abbassi la puntina e parte Black Dog, mica zucchine. Poi Bonham lancia con la sua solita veemenza Rock and Roll, e io ci provavo gusto. Ma poi arriva The Battle of Evermore. Che. Palle. Sul serio, mi sembrava di morire, mi contorcevo sul letto cercando di passare indenne quei quasi-sei minuti che sembravano dodici, dai cazzo, non potevano non piacermi, erano i fottuti Led Zeppelin! Poi la botta. Stairway to Heaven.

Vi dico subito che io il lato B di “IV” l’ho ascoltato una volta, come per “Fireball” dei Deep Purple, e m’è bastato, anzi: m’è avanzato. Pensate quello che vi pare, non me potrebbe fregare di meno, mi faceva cagare allora e mi fa cagare adesso. Vabbè, ora Four Sticks e Going to California non mi fanno più vomitare, però non esiste che io posi il piatto con una sincera voglia di risentirle. Da un bel po’. Ma parliamo di Stairway.

Lasciamo perdere vi prego le stronzate. Hanno copiato qualcosa dagli Spirit? E anche se fosse? Il 90% delle canzoni fondamentali degli Zep sono plagi, ma ne parlammo già in un post a loro dedicati (noterete delle sostanziali differenze con questo post, potete giurarci) quindi vi dico solo che non me potrebbe fregare di meno. Se la senti al contrario parlano di Satana e ti invitano a comprare gli album dei Kiss? No, però ti dico che le puntine non crescono sugli alberi. Uomo avvertito…

Detto questo a me Stairway to Heaven non piaceva nemmeno quando ero un fan sfegatato degli Zep. Il super-riffone e i berci animaleschi di Plant non mi attizzavano più, l’assolo celoduro di Page non mi eccitava, sinceramente quel pezzo primo in tutte le classifiche del mondo mi grattugiava il ravanello, e non poco.

Dov’erano i cambi e il dinamismo di What Is And What Should Never Be? Dov’era il blues sofferto di Since I’ve Been Loving You? Cristo, m’accontentavo anche di una caotica Celebration Day! Porca zozza, ma anche una rampante Gallows Pole mi stava meglio! – fra l’altro conosco un tizio il quale, giuro su mia madre, asserisce senza dubbio alcuno che Gallows Pole sia il miglior pezzo dei Led Zeppelin in assoluto.

La cosa che proprio non mi andava già era la struttura del pezzo, telefonatissima ma tirata per le lunghe come nei dischi dei Nazareth, e poi il sound…

Saranno le mie orecchie ad essere anormali, sarà che ho ascoltato la musica ad un volume esagerato fin da piccolo e sono diventato prematuramente sordo, non lo so gente ma il sound di Stairway to Heaven mi sembra così perfetto da non poter far altro che figurarmelo come un meraviglioso oggetto di design, interamente di plastica, con una forma estetica ineccepibile ma senza alcun fottuto utilizzo pratico. Eppure è il più venduto di tutti i tempi. E occupa pure parecchio spazio.

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Non che gli Zep fossero sporchi, anche se all’epoca mi sembravano perché, ovviamente, non avevo ascoltato molto altro, eppure Stairway mi sembrava proprio una roba esagerata e da tamarroni, non c’erano le palle di un Herthbreaker, era sciocca e banale in modo esagerato.

Oggi quando riascolto QUALUNQUE album di QUALSIASI band che mi attizzavano in quel periodo mi prende l’ansia. Non vedo l’ora di cambiarlo per un pezzo di plastica nera qualsiasi, Swell Maps, Thee Oh Sees, Mulatu, cazzo mi va bene pure Mimmo Cavallo ma basta con Led Zeppelin, Deep Purple e Genesis vi prego!

Per me Stairway to Heaven è il rock come NON mi piace (più), prima di tutto è barocco, c’è più barocchismi in quegli otto minuti che di tutta la Val di Noto, ha un testo che porta il demenziale in una nuova dimensione dove banalità e scontatezza sono gli unici due valori universali condivisi, l’assolo diventocieco è l’onanismo della chitarra che prende il sopravvento senza motivo, senza dire niente, senza voler trasmettere nulla se non l’erezione immane che Page si sta menando. Ecco, Stairway to Heaven è un rock, anzi, un hard-cock-rock perfetto, del tutto retorico e svuotato di qualsivoglia intento artistico o provocatorio, è stantio all’inverosimile. Mi ci volle un po’ per capire che è proprio l’hard rock ad essere così, ed è da quella modesta rivelazione che ho ripudiato tutti gli album che adoravo e ho cominciato a dubitare seriamente del valore finora per me inopinabile di quelle band.

In fondo è proprio quel tipo di rock che affossa il genere rendendolo solo un’immagine, un’estetica non ponderata ma superficiale, un sound piatto ed estremamente dogmatico.

Molti mi chiedono come faccio ad ascoltare “Metal Machine Music” senza impazzire. Beh, la risposta a secco è «perché in effetti, per quanto possa essere raccapricciante, mi piace» ed è fin troppo sincera. Ma il punto principale (oltre a tutte le riflessioni che ho sinteticamente spiegato nel post dedicato all’album di Lou Reed, e alla stimolante discussione con Sandro59 che ne ha ampliato non poco la profondità) credo sia: perché non è la solita solfa.

Anche gli album più brutti dei Residents (eh sì, anche loro ne hanno fatti di bruttini di recente) valgono un miliardo di volte qualsiasi sfiatata di Plant e compagni, rei di aver creato un genere che per moltissima gente è il Rock con la “r” maiuscola mentre invece è una dannata gabbia espressiva, dalla quale possono uscire solo dei «baby-baby-baby-mmm», qualche dannato riferimento tolkeniano e quei cazzo di assoli brit-milà-da-attrito che hanno largamente rotto i coglioni.

Bene, da domani posso chiudere il blog.

O forse è meglio farlo stasera.

Sul presto.

A seguire la prova che con Stairway To Heaven non riesci nemmeno a rimediarci un po’ di figa: