Ogni tanto mi piace tornare sui miei passi per riscoprire gioie e dolori del passato. Nel caso specifico riascoltare “Bananas” è stato… come dire… non mi viene… ah, sì: ‘NA MERDA.
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Billy Squier – Don’t Say No
Ho sempre pensato che se avessi bruciato il vinile di “Don’t Say No” di Billy Squier, una qualche divinità benevola mi avrebbe fornito una devastante spada di fuoco, con la quale avrei posto fine al male assoluto (quindi a MTV). Ed invece fece solo una gran puzza, sciogliendosi e contorcendosi nella fiamma, evaporando e innalzando notevolmente la soglia dell’inquinamento in Toscana.
Al pensiero che il mondo sia pieno di zombi che adorano questo pimpato “virtuoso” della chitarra mi verrebbe voglia di fare come il vecchio di The Strain e decapitarli tutti. Ed invece, come dico sempre, la colpa della musica di merda non è mai dell’ascoltatore, lui è libero di ascoltare quello che gli pare senza che nessuno gli rompa i coglioni, la colpa semmai è dei musicisti che la producono, anzi: che la defecano questa musica da quattro soldi, a loro bisogna fargli le scarpe. È un dovere morale.
Billy Squier s’innamora della chitarra tramite gli assoli di Jimmi Page e Eric Clapton. Agli inizi della sua carriera, ancora giovanissimo, farà da spalla ai Kiss, ai Queen e ai Def Leppard. Praticamente lo aveva scritto nel DNA che avrebbe creato alcuni dei più brutti album della storia del rock.
Dei Zeppelin ha la spocchia, dei Kiss l’abilità (nel fare soldi) dei Queen la tamarraggine spropositata.
Dopo che si era fatto un nome prestando a destra e manca le sue innate abilità nello stuprare le cinque corde, la Capitol, che negli anni ottanta ci ha fornito quasi in esclusiva tutti i peggiori album della storia, gli produce l’inascoltabile esordio “The Tale of the Tape” nel 1980, ma fu nell’anno successivo che Squier produsse il suo più grande successo: “Don’t Say No”.
Sui testi di questo album sorvoliamo perché nel rock, lo sappiamo bene, non è proprio l’aspetto che di solito eccelle, se poi parliamo di hard rock c’è solo da piangere.
La fatica che provai ascoltandolo tutto è incomparabile, ogni tanto mi ritrovai ad alzare la puntina per respirare.
Già da In The Dark, pezzo d’apertura e primo singolo uscito per sponsorizzare questo abominio, ci sono tutti i punti di forza di Squier: la voce da rocker anni ’70, bello virile finché non tira qualche falsetto di improvvida femminilità, e ovviamente la sua chitarra protagonista di tremende incursioni del tutto decorative per dare sostanza al pezzo, buttate lì per stupire il chitarrista brufoloso in ascolto. La tastiera suonata da Alan St. John sembra uscita da qualche videogioco degli anni ’90, il finale con quei coretti «ah-ah-ah» fanno presagire ad una svolta disco di Squier. Billy Squier & The Sunshine Band. Non suona male. Cioè, suonerebbe comunque malissimo, ma vabbè.
Il vero pezzo forte arriva subito dopo. The Stroke. Vi sfido a trovare qualcosa di più tamarro di The Stroke, qualcosa di più deprimente nella storia dell’hard rock o di MTV. Cosa dovrebbe esprimere la musica di Squier? Rabbia? Protesta? Divertimento? Ansia? Indigestione? A me sembra qualcosa di pensato per i corridori, o per quelli che si allenano in palestra sei giorni alla settimana e il settimo lo lasciano per gli steroidi. Un rock muscolare, un cock-rock tutto bicipiti e quadricipiti.
Probabilmente non c’è modo migliore contestualizzare The Stroke come in questo geniale film del 2007, Blade of Glory:
Segue una imbarazzante My Kinda Lover, un ponte ideale tra Queen e Danko Jones, anche se perlomeno Jones ci mette dell’ironia (e così si salva la faccia), invece Billy ci crede davvero cazzo, eccome se ci crede.
Quando sfuma My Kinda Lover comincia, con il ritmo serrato di Bobby Chouinard alle pelli, You Know What I Like, anche qui il testosterone è così alto che ti crescono i baffi mente ascolti la voce di Squier, i lancinanti lacchezzi alla tastiera di St. John invece sono solo da galera. Il pezzo, inoltre, sfuma proprio nel momento culminante, lasciando il dubbio che fosse una scelta di sintesi stilistica o una semplice dimenticanza.
Ed eccoci a Too Daze Gone, con un attacco che avrà fatto piangere sangue ai Little Feat, infatti gli sprazzi di southern rock sono al servizio dell’onanismo selvaggio di questo album, una volta finito di ascoltarlo tutto probabilmente non potrai fare a meno di bere birra, scorreggiare ed insultare le donne perché osano essere donne.
Altro singolo di successo, l’atroce Lonely Is The Night, il riff tamarro alla Brian May, l’ambiguo romanticismo di Billy Squier ricorda nei suoi momenti migliori le dolci ballad di Charles Manson.
Si sente eccome Jimmi Page negli slide di Wadda You Want From Me, mentre St. John campiona qualche suono da Space Invaders o qualcosa del genere. Roba per palati fini.
Di solito a metà di Wadda You Want From Me staccavo la spina e mi sparavo gli Who, ma per fare la recensione ho ascoltato anche il resto. Che perle mi stavo perdendo.
Che dire di Nobody Knows? Neanche il più ispirato Barry Manilow poteva tirare fuori un’oscenità del genere, forse la peggior ballad che abbia mai sentito insieme a Haunted dei Deep Purple . Se per caso un giorno decidessi di scrivere una canzone del genere credo che di colpo perderei la ragazza, gli amici, l’anima, ma non i baffi.
I Need You, invece, sembra scritta da un quattordicenne in fissa con i Hanson. Si conclude alla grande con la title track (che inizia con uno sfumato in entrata… sul serio… cristo…) la quale penso rientri ad una buona posizione tra i cento pezzi più inascoltabili della storia del rock.
La cosa bella è che non solo Squier visse un periodo di successo incredibile (se lo hanno avuto anche gli Wham! lo possono avere tutti) ma la cosa curiosa è che questo finì non perché la gente si accorse che la sua musica faceva cagare, ma a causa di un video musicale!
Non la sapete? Nel 1984 era appena nata MTV e mandavano a rotazione merda (così piccola eppure già con le idee chiare!). Niente di nuovo sotto il sole, ok, ma tra tutta questa merda c’era pure un singolo di Billy, preso dal suo nuovo folgorante successo in vinile: “Signs of Life”, già segnato fin dalla nascita da una copertina abominevole. Il pezzo in questione è Rock Me Tonite, il quale sebbene fosse impreziosito dalla produzione di Jim Steinman e dalle coreografie (vomitevoli) di Kenny Ortega, fu un successo clamoroso solo per le classifiche di Billboard, mentre il pubblico che adorava Billy da Rock Me Tonite in poi volterà le spalle al loro idolo perché (attenzione attenzione!) il video gli faceva cagare.
Ed ecco come la musica vuota ed insignificante di Squier appena non riesce a vendersi con un giusto mix di pubblicità e immagine macho decade nelle fogne dalla quale è sortita.
Il video l’ho visto, è abbastanza brutto e quindi ve lo consiglio:
Va anche detto che il pubblico americano è fortunato, crede che quello di Squier sia uno dei peggiori videoclip della storia, ma evidentemente non ha mai visto questi tre:
[Se volete saperne di più non avete che da cliccare QUI a vostro rischio e pericolo.]
Spero che a nessuno di voi capiti mai l’orrore di possedere uno degli album di Billy Squier, ma se vi piacciono sul serio sappiate che il cadavere di Dee Dee Ramone si sta scopando vostra madre.
Scotch – Evolution
La italo disco è un fenomeno complesso, con una storia intricata ed una serie infinita di interpreti, conosciuti perlopiù dagli appassionati del genere.
Un po’ come tutti i sotto-generi la italo disco è una sintesi di ciò che “tirava” ai suoi tempi, ovvero nei luccicanti anni ’80 (credo si intuisca una certa tendenza alla disco music, ve la butto lì), la struttura musicale era ridotta all’osso, e tutta la magia di questo genere si basa sull’uso smodato di sintetizzatori e sequencer. Un delirio vero e proprio di effetti e suoni spesso del tutto casuali.
Molte band italiane venivano dal prog, ovviamente le più tamarre (Circus 2000, Gleemen, tanto per citarne due), tutti gli altri erano perlopiù dj di dubbia capacità compositiva e perfetti signor nessuno accompagnati da produzioni generalmente scadenti.
Gran parte del successo (brevissimo) di questa italo disco fu in Germania, terra dove notoriamente se negli anni ’80 andavi a giro con un sintetizzatore e portavi occhiali dalla montatura rosa shocking eri Gesù sceso in terra, basta vedere la loro sconsiderata passione per artisti come Moroder, Jean-Michel Jarre o i Kraftwerk. I nostri italiani, piuttosto virtuosi nell’uso vigliaccamente glamour del sintetizzatore, ebbero vita facile nelle discoteche tedesche, molto meno in quelle nostrane. Solo successivamente c’è stata una rivalutazione di questo genere, e proprio in questi anni molti giovani si stanno avvicinando con dolce e ingenua curiosità alla scoperta di questo dimenticato fenomeno commerciale.
Per sintetizzare quanto detto basta ascoltare successi (sì, lo sono stati) come Orient Express dei Wish Key, o la altrettanto celebre Forever And One Day dei 93rd Superbowl.
Tra i maggiori rappresentanti della italo disco mi permetto di citarne gli unici due di cui ho ascoltato per intero almeno due dischi (è davvero difficile trovarne a giro, prima di tutto perché prodotti in numero piuttosto limitato, e poi perché credo molti dotati di raziocinio abbiano bruciato le copie in loro possesso) Dean Harrow e i mitici Scotch.
Dean ho scoperto essere una faccia abbastanza conosciuta nel territorio della trash TV italiana (grazie Wikipedia, quando c’è da trovare la merda sei sempre ben fornita). Ha partecipato recentemente a reality show, ha condotto su Match Music un programma dove mandava a manetta discutibili successi degli anni ’80, e si fa vedere in trasmissioni dal forte contenuto intellettuale come Uno Mattina. Come musicista puntò tutto sul suo fisico e una forte caratterizzazione del personaggio ultra-mega-tamarro che portava a giro. Punta di diamante della sua produzione è certamente il video di Mad Desire, uno scempio musicale accompagnato da delle immagini totalmente sconnesse. Scene con lui tamarrissimo che passeggia intervallate da sequenze in cui tira pugni alla camera, o scene di una presunta love story senza alcuna dinamica riconoscibile, c’è pure un momento in cui va al cinema a vedere se stesso cantare (e la sala è vuota!!!).
Gli Scotch sono considerati dagli esperti del genere come una delle vette compositive più alte della italo disco. Fondati dal factotum Manlio Cangelli (fondatore anche dei sopra citati Wish Key) oggi la band la riassumiamo nella figura di Vince Lancini, il cantante.
Vince Lancini è un uomo felice, che ancora oggi riempie discoteche di provincia (molto piccole) con la sua ingombrante presenza (gli è venuta ‘na panza…) cantando su una base da karaoke i successi degli Scotch, una fine che vi assicuro comune alla gran parte delle star di questo sotto genere.
Avevo già ascoltato “Evolution” (1985), erano i primi anni del liceo che passavo principalmente tra i negozi di vinili e le fumetterie; ricordo che stavo cercando un disco dei The Castaways quando il negoziante mise sul piatto il primo disco degli Scotch. In tutto quel rigurgito inespressivo di sintetizzatori mi innamorai irrazionalmente di una canzone, Disco Band, che entrò nel mio cervello per mesi, se non per anni. Mi odiavo ogni volta che le note di quei cinque minuti di puro terrore mi saltellavano in testa, era come se una maledizione mi perseguitasse.
Per esorcizzare questo male sapevo benissimo cosa fare, ma avevo paura. Non puoi, ed è per me un imperativo categorico, parlare male di un disco se prima non lo hai ascoltato. Ma per ascoltarlo bene, per concentrarti davvero su quello che stai ascoltando, lo devi comprare.
Comprare un disco che so benissimo essere un prodotto di qualità scadente e che odierò con tutto me stesso dal primo all’ultimo minuto non è esattamente un gran bel passatempo. Per carità, negli anni mi sono dovuto ricrede più di una volta! Ero tremendamente prevenuto su “Kick Out The Jams” ma dopo averlo ascoltato (bene) divenne uno dei miei dischi preferiti. Ho apprezzato molto “Gogol Bordello Vs Tamir Muskat“ mentre ho trovato odioso “Uncle Meat“ (ed io adoro Zappa). Anche quando parto prevenuto, o positivamente o negativamente, l’ascolto per me è quanto il più possibile (s)oggettivo, se è una merda è una merda, chiunque l’abbia fatta.
Beh, ora l’ho comprato.
La copertina, come potete vedere, è oltremodo brutta, c’è questo tipo primitivo-jamaicano che passeggia con uno stereo in spalla seguito anche nel retro da dei dinosauri visibilmente perplessi, disegnato come se fosse una specie di murales messicano.
Non è un caso dunque che il disco cominci con Primitive Man. Suoni che rimandano esageratamente al trash made in ’80, come se Calvin Harris si fondesse con Wang Chung. Nel suo trash non si può comunque apprezzare il tentativo melodico, poteva certamente risultare molto più tamarro. Poi comincia a cantare il nostro Vince. Purtroppo. I suoi versi – chun’ tangatagatun ah! – misti a testi obiettivamente poco ispirati si sovrappongono alla inamovibile struttura del pezzo, completandosi nella più totale inutilità. La traccia sfuma senza aver mai sviluppato niente, come se l’avessero troncato a metà «dai belli, ‘sta roba dura troppo, passiamo al prossimo pezzo!»
Take Me Up fu un successo, anche se faticate a crederlo, è così. Riassunto efficace di una serie di sonorità che riempivano le discoteche dei mitici ’80 quando ormai il 33 giri di Donna Summer del dj di turno si era oltremodo consumato. Il ritornello allegro e simpatico rimanda a tutta quella simpatia forzata che le major imposero nella musica degli anni ottanta, mentre Gang of Four, Pere Ubu, i primissimi Talking Heads analizzavano nuovi aspetti della nostra società tramite le loro innovative prospettive, ma anche in chiave diciamo “disco” (prendiamola larga) c’erano Frankie Goes To Hollywood, Eurythmics, o il già citato Moroder che comunque sviluppavano tematiche più complesse e una musica più ricercata (non sempre, ma vabbè). Anche questo pezzo sfuma senza alcun sviluppo degno di nota.
Si arriva sconfortati a Man In The Man (ambiguetto il titolo), linea melodica nulla, si nota la presenza di un sintetizzatore (ma và!) e il testo che lascia il tempo che trova. Si cerca, essenzialmente, di trovare un sound, una soluzione musicale che non esige certamente nulla da se stessa, niente di più ricercato di molta spazzatura che passano in discoteca oggi quando finiscono li dischi di Boyz Noize e Tiga. Sfumato, di nuovo, sul nulla.
Born To Kill, potrei giurarci, sembra scritta con Music 2000 (vecchio gioco della Playstation) tenta di dare una nota scura all’album, ma a noi ci basterebbero un paio di note decenti. Il testo non l’ho capito, forse per ignoranza, forse perché scritto con la tecnica del cadavere squisito, non lo so, comunque ecco un frammento delle liriche:
My devil, I, I’m so crazy
Yes desperation, no soul
Shake your tongue
Push around your stone
Born to kill the queen of the earth
Aggiungeteci anche una serie di suoni a caso e un assolo di chitarra sul finale (!), che poi, ineluttabilmente, sfuma, troncando anche questo pezzo.
Si arriva al lato B che si apre con Komburn [non ho trovato un link su You Tube, forse c’è su Spotify], un minuto inutile. Davvero.
Ed è così che ci apprestiamo a gustare un altro successo degli Scotch, Delirio Mind. Non so, e mai credo vorrò sapere, se questo pezzo è stato scritto con l’intenzione di essere davvero una canzone di disco music seria, oppure come una tristissima parodia. Morirò con questo dubbio. Dopo una prova vocale di Vince (mi sono alzato in piedi con le mani in tasca per non prendere a pugni il disco) il pezzo si sviluppa sulla solita linea melodica e ritmica tutta uguale, con delle digressioni farneticanti, credo che il fine ultimo di questa traccia sia provocare un esaurimento nervoso nell’ascoltatore. Ci sono dei momenti in cui il sintetizzatore tira fuori dei suoni degni della colonna sonora di un film di Barbie. Il finale, stavolta compiuto, non ha senso, ovviamente.
Si passa a Loving Is Easy/Evolution. Le prime note sembrano quelle di un pezzo dei Justice suonato da una band di quattordicenni. Forse amare sarà anche facile, ma scrivere canzoni decenti per Margutti (c’è nei credits, non so chi sia, in questo pezzo c’è anche un tale J.Less, qualcuno ne sa qualcosa?) e Lancini sembra davvero una impresa impossibile.
Una tamarrata rara questa canzone, una perla di indecenza musicale preziosissima se volete sconvolgere i vostri amici, uno dei massimi apici che il trash abbia mai raggiunto. In finale “orgasmico” poi una roba che nemmeno i Troggs più arrapati (perdonatemi di aver messo una delle mie band preferite vicino a questi mentecatti).
E così, con immensa fatica, siamo giunti al mio incubo. Eccola, eccola davanti a me, ecco Disco Band.
Un successo inspiegabile seguì questa canzone, coronata di uno dei video più brutti (se non proprio il più brutto) della storia. Guardatelo, poi riprendiamo:
Nell’album questa cosa dura anche di più. I testi facciamo finta che non esistano, roba che fa sembrare Gioca Jouer una poesia di Ungaretti. Ma la musica? Davvero si può ballare una cosa del genere? E come si balla, come nel video? Ve la immaginate una discoteca piena di invasati che vestiti da rasta-dottori e ingessati doloranti che ballano al ritmo di questa roba? Forse la musica fa schifo, ma lo spacciatore di Margutti e Lancini era un Dio della droga, potete scommeterci il culo. Ok, non resisto, ecco il momento più aulico del testo:
Running down with me
My sailor
Smiling high with you
My cirriots
Smiling high with me
My radio
Baby
You’re my really disco band
Ma che cavolo vuol dire? E quando Vince ricomincia con i suoi versi da menomato tipo rangadadagadagadu! cosa sta esprimendo, a parte un progressivo deperimento del suo stato cognitivo?
Ultimo pezzo: sono salvo. Losing In Time spicca per una certa ricercatezza della melodia, una prova compositiva certamente insperata dopo una sequenza micidiale di nulla assoluto. Mi prudono le mani mentre l’eclettico e tamarro sintetizzatore fa il suo dovere, ma non posso comunque far finta di nulla, questa canzone non è del tutto orribile, ha un senso, va bene che suona come la base per un Canta Tu, e forse il fatto che segni la fine di questo album che me la fa apprezzare di più, non lo so neanche io ormai. Chiaramente il pezzo ricicla i suoi due-tre strofe senza ritegno per quattro minuti, e finisce in uno sfumato che spezza (sì, di nuovo) un discorso musicale comunque ben avviato.
La prima parola che mi viene a mente è: incompleto.
Va bene, forse non la prima, e neanche la seconda, ma diciamo la prima che non sia una imprecazione. Il disco è incompleto, nessuna traccia viene sviluppata degnamente (a parte Deliro Mind e Disco Band) la povertà compositiva è lampante, l’unica nota che emerge è l’uso del sintetizzatore, caratteristica principale della italo disco, sai che roba.
Non spendeteli questi soldi ragazzi, sul serio, non ne vale la pena. Compratevi un libro, un disco di Ty Segall, un pacchetto di preservativi, qualcosa di utile insomma, ma non questa roba. Nel caso siate degli appassionati di trash a 360 gradi invece uscite subito di casa, oppure andate su eBay, e comprate questo disco. Dopodiché potete morire felici.
- Pro: io odio questo disco.
- Contro: tutto, praticamente tutto.
- Pezzo Consigliato: Delirio Mind è il lato oscuro della musica.
- Voto: 1/10
Deep Purple – Bananas
So che per questo post sarò pestato in strada da qualche fan dei Deep Purple, ma è giusto così. I motivi per cui “Bananas” è secondo me uno degli Album Più Brutti Di Tutti I Tempi non sono da ricondursi all’album in sé quanto alla storia dei Purple.
Che i Deep Purple abbiano fatto la storia del rock più hard non sono di certo io che lo dico, è un dato oggettivo. Dischi come “In Rock” ti fanno QUANTOMENO balzare dalla sedia ad ogni fottuto riff, potenza pura, un botto di virtuosismo (troppo per i miei gusti), ogni elemento della band interpretava al meglio il suo strumento. Ma non è sempre stato così.
La band inglese è tra le più incasinate di sempre, raramente gli stessi elementi stavano assieme per più di due album e i membri più longevi sono quelli che hanno saputo mettersi da parte durante le feroci liti che seguivano ad ogni tour o ad ogni registrazione. Di certo i più focosi furono Ritchie Blackmore e Ian Gillian i quali ci hanno lasciato un mastodontico campionario di insulti più o meno velati; si va dal «Non ho mai sopportato gli atteggiamenti da padre-padrone di Ritchie» di Gillian ad un più colorito Blackmore «Ian Gillian? Ha perso la voce nel 1973 e ancora non se ne è accorto.» [citazioni da JAM, num. 119 del 2005]
Il sound della band trova una sua definizione esaustiva proprio con “In Rock”, nel lontano 1970. Tra alti e bassi i Deep Purple arrivano al 1975 con “Stormbringer” ancora più che in forma, ma lasciando Blackmore sul ciglio della strada in pieno agosto, perdendo insomma il membro certamente più creativo e caratterizzante del gruppo. Dal 1975 in poi i Deep Purple sono ascoltabili solo come una forma estrema di masochismo.
Nel ’84 Blackmore decide che i Rainbow non sono più cosa adatta a lui (grave errore, poiché potenzialmente erano uno sviluppo creativo certamente migliore di una reunion di ottuagenari) e cerca di portare agli antichi fasti i Purple. Quello che uscì fu “Perfect Strangers“, tutt’altro che perfetto ma sicuramente qualcosa di a me straniero.
Quando nel ’93 si ritrovarono di nuovo assieme Gillian e Blackmore (ormai inaciditi anche dall’età) furono subito insulti in quantità e dischi davvero deprimenti nella loro incapacità di proporre qualcosa di nuovo ed interessante. Blackmore se ne va sbattendo la porta e rifugiandosi nei suoi Blackmore’s Night.
Inizia così l’epoca di egemonia di Steve Morse, il quale di certo non manca di tecnica, peccato che in quanto songwriting abbia voluto sperimentare tutti i suoi limiti con il grande pubblico. Subito dopo arrivò anche Don Airey a sostituire il mai abbastanza compianto John Lord. Airey è riconosciuto (giustamente, direi!) come uno dei migliori interpreti della tastiera tra i pensionati e gli ARCI di tutto il mondo, anche se il suono del suo hammond nei lavori con i Purple non sempre sembra in armonia con il resto dell’ensemble.
Da questo immondo pandemonio resta da capire cosa siano i Deep Purple. Secondo Gillian sono «un’idea», ma sinceramente parlare di una band come di un concetto che trascende i suoi componenti mi pare alquanto imbecille come ragionamento. È come dire che i Soft Machine sono un concetto quindi anche Gary Glitter a seguito della band di paese può suonarli a loro nome alla Festa del Porcino.
Comunque l’idea Gillian non poteva mica tenersela per sé, così nel 2003 i Deep Purple compiono un atto davvero inconcepibile visto la palese mancanza di idee appurata in “Abadon“ (1998, disco essenzialmente di rivisitazione dei lavori passati, una roba agghiacciante), fanno un nuovo disco, tutto, tutto, tutto sbagliato: “Bananas“.
Uscito per la famosissima EMI questo affronto al decoro acustico fu prodotto da Michael Bradford che guarda caso scriverà anche gran parte dei pezzi di questo album. Bassista, produttore famoso ed ingegnere prestatosi a tante personalità come Run D.M.C., Kula Shaker, Madonna e New Radicals ma solo una volta a testa (gatta ci cova), Bradford viene ancora oggi menzionato per il suo lavoro con i Purple da “Bananas” a “Rapture Of The Deep” da schiere di fan incalliti. Inoltre “Bananas” vanta certamente il primato come copertina più brutta della storia del rock e forse di qualunque genere musicale conosciuto, ideata, credo, dal loro fruttivendolo di fiducia.
Ma cominciamo pure con l’ascolto.
Il disco si apre con House Of Pain, composizionedegna della miglior band del vostro liceo (suonata però da dei professionisti). Il pezzo non esprime alcunché se non una serie indefinita di cliché, ci sono dei discreti musicisti che a tratti ricordano qualcosa dei Deep Purple ma anche dei Bad Company e degli Aerosmith. Peccato che nell’atroce copertina del disco ci sia scritto Deep Purple e così, innocentemente, mi immaginavo un nuovo disco della band che ha fatto la storia del rock e non la loro cover band attempata. Inutile. Mi viene da pensare male sul titolo della canzone.
In Sun Goes Down l’unica nota decente è Airey che ogni tanto dà qualche sferzata di classe sui tasti. In generale si tenta di dare un tono epico ad una traccia che dimostra ancora volta che sanno suonare ma nient’altro. Paziento fino alla fine del pezzo, perché io ho speso dei soldi per un disco dei Deep Purple e voglio continuare ad ascoltare anche se le orecchie sanguinano.
Di Haunted sapevo che era una della ballad meglio riuscite dei Purple. Beh, sappiate che non è così, anzi. Gillian non canta, si lamenta (e pure male) mentre Morse fa addirittura il verso a Brian May. L’aulico testo di Tormentato ci ricorda che quando le liriche dei Deep Purple non significavano un tubo (vedi Black Night) ma almeno la musica era spettacolare, ora che sono addirittura al limite della decenza la musica sembra uscita fuori da un karaoke. Dire che è una delle ballad più riuscite è un affronto a Soldier Of Fortune mica da ridere.
Ammetto che in Razzle Dazzle per un attimo la tastiera usata da Airey mi è sembrata giocattolo. Gillian si ridicolizza oltremodo, il pezzo non è né buono né cattivo ed è la cosa peggiore per una canzone come per un album, la totale assenza di creatività crea situazioni davvero imbarazzanti. Ad un certo punto c’è pure il gatto di Airey che salta su una pianola (mi rifiuto di pensare che la stia suonando da sobrio).
Silver Tongue si presenta con un riffone bestiale, ed insieme a lui la speranza che “Bananas” riservi forse qualche soddisfazione. Come non detto. Il pezzo è scritto col culo, ad un certo punto parte una fuga condotta da Morse di carattere prog, poi diventa metal, infine arriva Airey vestito da John Lord e ricomincia d’accapo, tutto questo accompagnato da un Gillian pronto per il karaoke in riva al mare con gli amici. Confusione totale.
I primi ed eterei suoni che ci introducono Walk On ci richiamano alle atmosfere dei Caravan, spiazzandoci effettivamente un po’. Spunta così una struttura da blues rock non da buttare via (visto quanto sentito finora). Gillian si prodiga al Canta Tu col solito impegno e notiamo una cosa dalle nostre casse Indiana Line: gli effetti. Roba da sigla delle Winx, ma che cacchio c’entrano? Che si stava fumando Bradford durante le registrazioni? Il pezzo comunque risulta troppo lungo e il finale è un pasticcio noioso senza motivo di esistere. La frustrazione aumenta notevolmente.
Picture Of Innocence riprende a tratti le cose sentite in “Abadon”, un blues rock frizzante ma che non sa di un cazzo (perdonatemi le parolacce, ma siamo già a mezz’ora d’ascolto e questo aborto con i solchi mi sta facendo innervosire). Airey tira fuori qualche bella idea, il finale però risulta oltremodo tamarro.
I Got Your Number sembra un pezzo dei Foreigner. E non è un complimento. C’è un bell’assolo sempre del prodigo Airey, stroncato troppo presto da un riff abominevole di Morse, Gillian a tratti ricorda Kyle Gass.
Con Never A Word mi sembra di esser stato catapultato di nuovo in un disco dei Caravan, ma smetto di fare paragoni perché li ho insultati una volta di troppo. Ma… la traccia è bella (o forse solo decente, ma ormai sono in pieno effetto allucinatorio)! La linea melodica è molto delicata, appena accennata, la voce sembra perfetta (sono in estasi), tutto sembra al posto giusto, l’emozione inizia a commuovermi e… e… e finisce di punto in bianco?!? Ma come? Sviluppi una bella linea melodica, e poi sul più bello la tronchi così? Senza un senso? Dio, come odio questo album!
Bananas non può che cominciare nel peggiore dei modi. Un casino insensato di generi, di idee (?), Gillian/Canta Tu, l’hammond buttato lì senza motivo, assoli di armonica che non lasciano scampo. Follia. Comunque anche stavolta i membri della band dimostrano le loro grandi abilità tecniche (peccato per la musica di merda). Gli ultimi secondi del pezzo rimandano alle atmosfere di Morricone nei vecchi ’60, confondendoci ed irritandoci ancora di più.
Doing It Tonight è qualcosa di atroce. Una roba tipo latino-americana con chitarra, tastiera, basso e batteria, cantata dal fratello scemo di Paul Rodgers. Rockeggiante quanto basta per farci rimpiangere anche gli ultimi lavori di Santana. Più simile a Heavy Samba che a Santana comunque.
Il tutto si conclude con Contact Lost (col cervello, aggiungo io) dedicata agli astronauti morti nell’incidente dello Space Shuttle Columbia. Sull’attacco di questo pezzo strumentale mi sono messo le mani nei capelli. Che-razza-di-disco-dei-Deep-Purple-è-mai-questo? Come si fa a dire che è buono, che è decente, con che coraggio? Il pezzo non è terribile, poco più di un minuto strumentale per Morse essenzialmente, ma che senso ha? E perché gli effetti sonori che riempiono questo album sembrano quelli di Bim bum bam?
Se Gillian avesse avuto la decenza di chiamare la sua band in un altro modo questo era solo l’ennesimo disco ben suonato ma che non sa di un tubo della storia (Steve Vai ne sa qualcosa), ed invece si è trasformato in un affronto diretto alla storia del rock stesso, macchiando il buon nome dell’hard rock. Una band con tante banane ma poca musica che abbia qualcosa da dire.
Se il disco non ha avuto una vera e propria stroncatura dalla critica (e da alcuni fan) è per il solito problema della critica musicale italiana, e di come si parla spesso di musica. L’aspetto tecnico predomina ancora oggi a discapito di quello creativo, laddove per creatività si possono intendere tante cose, dall’approccio al genere fino a certe scelte particolari di arrangiamento, ma di certo non ‘sta sbobba. I Deep Purple negli anni ’70 hanno incattivito il rock, l’hanno reso più pesante, alcune loro intuizioni hanno plasmato il genere e fomentato epigoni in tutto il mondo. Quello che invece i Deep Purple fanno con “Bananas” è far cassa su un nome, il che inficia assolutamente nel giudizio finale su questo album.
- Pro: è un ottimo porta vivande in stile vintage.
- Contro: è un pessimo frisbee e un disco di merda.
- Pezzo consigliato: ho speso venti euro per questa merda, e vi giuro su Dio che rimpiango The Wanderer! Ma quale pezzo consigliato…
- Voto: 2/10
Gary Glitter – Glitter
Quello che recensirò oggi è molto probabilmente uno dei maggiori affronti mai fatti al rock and roll. Un album che non ha proprio motivo di esistere, eppure c’è e miete ancora vittime, non ultimo il sottoscritto, eccovi a voi “Glitter”.
Di Gary Glitter perlopiù conosciamo le vicende giuridiche ma dato che non stiamo giudicando l’uomo ma l’artista non ne parleremo, e difatti la questione la chiudo qui.
Gary Glitter è uno dei figli prediletti del glam rock, quel genere che ancora oggi divide tantissimi appassionati di rock&roll. Nell’immaginario collettivo dei mitici settanta l’idea del rocker era piuttosto chiara: libero, mal vestito, puzzolente, amante del jeans e della canapa, ubriacone e donnaiolo. Col glam le cose cambiarono non poco, dato l’arrivo piuttosto consistente di tizi pallidi, secchi, pieni di paillette colorate, sciarpe, calze a rete e pelle ovunque.
Il genere glam oltretutto presentava diverse differenze col rock tradizionale, non c’era rabbia ma piuttosto goliardia, non c’erano assoli lunghi trenta minuti ma piuttosto riff appena accennati, tutto si semplificava e dava spazio alla dimensione spettacolare che i concerti stavano prendendo con l’inizio dei grandi tour negli stadi.
Chiaramente ci passava il mare tra i tristissimi laser verdi dei Led Zeppelin e le performance spumeggianti degli The Spiders From Mars. Se i primi erano trasgressivi per le giacche orientaleggianti di Page e la voce da film porno di Plant, i secondi lo erano per gli atteggiamenti alquanto ambigui nelle live, passando buona metà dell’esibizione a mimare senza troppa pudicizia penetrazioni e masturbazioni con i loro strumenti musicali.
Fatto sta che il glam cambierà non poco tutto il rock, eliminando di fatto i barocchismi che lo distinguevano e svelandone una faccia più trasognata, festaiola, ma non per questa anche più intimista e se vogliamo complessa.
Ok, ma Gary Glitter che c’entra?
Beh, c’entra eccome essendo uno dei pionieri di questo genere. Purtroppo.
A prima vista questo musicista inglese è tutto tranne un vero glam rocker. Una pancia prominente e un volto da leghista sono le prime cose che saltano all’occhio, il ciuffo alla Little Tony e i suoi vestiti spesso (troppo spesso) aderenti fanno il resto. Trash oltre ogni immaginazione, per molti Glitter è invece un personaggio, un tipo simpatico, o peggio ancora un mito.
Si farà conoscere con una serie di fulminanti successi, uno più tamarro dell’altro, tra cui una terribile cover di Here Comes The Sun. Appena il glam diventa realtà lascia il suo vero nome, Paul Francis Gadd, per aggiornarsi al nuovo trend come Gary Glitter, sintomo chiaramente di qualche genere di disturbo psicotico.
La sua carriera è costellata di greatest hits (una ventina, se contiamo anche le collaborazioni) e un po’ meno di dischi veri e propri (sette, ma risicati di brutto). Fonderà anche una band: la The Glitter Band (su questo potete piangere se volete, ma prima sappiate anche che erano conosciuti anche col nome di Glittermen, tanto per non farci mancare niente), gruppo noto più che altro per un cameo in Remeber Me This Way, ovvero un film di neanche un ora sulla vita di Gary Glitter uscito nel ’74, vi dico solo che all’epoca Glitter aveva all’attivo soltanto due dischi!
…Sì, amici miei: è tutto vero.
Per quanto l’esistenza di Glitter sia già di per sé un insulto a chi nel rock ci mette passione, studio e tempo, bisogna riconoscergli una perfetta mercificazione di se stesso; sostenuto da una etichetta effimera e da poche conoscenze Gary Glitter riesce a ritagliarsi un posto nel mondo della musica con una intelligenza e una voracità che lasciano spazio a poche critiche, se non a quella sulla scarsezza di contenuti.
Il disco d’esordio venne prodotto dalla americana Bell Records, di certo non una delle case di produzione più famose e longeve, anche se nella sua schiera abbiamo gente tipo Al Green, Suzi Quatro e Barry Manilow (protagonista fra l’altro di uno di quei casi che diventeranno sempre più frequenti negli ultimi settanta e nei primi ottanta di artista one-shot: una canzone di successo in mezzo ad una discografia alquanto vomitevole).
Il disco si apre e si chiude simulando una sorta di suite (brrrr!), i due pezzi in questione fra l’altro sono ancora oggi il maggior successo dell’uomo glitterato: Rock and Roll part 1, Rock and Roll part 2. È qui già pare chiara dunque la strategia di Glitter, che di certo non punta su una qualsiasi spinta creativa o originale. Glitter sintetizza, minimizza il glam rock appena nascituro, e di certo lo fa con una consapevolezza che stupisce per la sua precocità, di conseguenza il suo altrimenti inspiegabile successo. Il risultato resta comunque demoralizzante (quando non fastidioso).
Rock and Roll part 1 è una marcia glam con testo che si aggira tra il tragico e la parodia, i momenti più poetici recitano: Times have changed in the past but we won’t forget/though the age has passed they’ll be rockin’ yet.
Baby Please Don’t Go è una delle tante cover del glitterato, che conferma così la sua eccezionale capacità creativa. Quello che ne esce fuori da questa cover di uno dei pezzi blues per antonomasia è una tragedia che Euripide meglio non la poteva neanche immaginare. Qualunque genere musicale tra le mani di Glitter si trasforma inevitabilmente in una marcia a carattere glam. Così infatti accade anche a Baby Please Don’t Go, tripudio di note di chitarra appena abbozzate, fiati che compaiono occasionalmente a rimarcare una chiara linea ritmica e la voce di Gary a chiudere il cerchio magico. Il pezzo rende benissimo l’idea di un glam fine a se stesso, che gioca con i suoi suoni nuovi e sbrilluccicanti, una nuova forma di vita esaltata e che esalta (chi, non lo so, però ebbe tanto successo ‘sta cover).
The Wanderer, l’errante, chiama in questione un piano e dei coristi appena licenziati da una band di boogie-woogie. Il sound è quasi piacevole, se non fosse che Glitter mentre pronuncia caledoscopicamente around around around assomiglia chiaramente ad un caprone imbizzarrito.
I Din’t Know I Loved You (Till I Saw You Rock And Roll), è uno dei pezzi pregiati nati dalla creatività di Gary Glitter, e in effetti nessun altro avrebbe mai potuta scriverla. Giù di marcia, come piace a noi glitteromani, anche qui abbiamo qualche Hey Hey (verso preferito da Glitter, come capiremo in The Hey Song) buttato qua e là e un testo che renderebbe incapace di intendere e di volere Umberto Eco se lo leggesse per sbaglio. Vai così Glitter, vai così. Facci male.
Con Ain’t That A Shame torniamo ad un rock and roll più classico, anche se con la solita staticità metrica. Glitter non si stanca di rendersi ridicolo simulando un cantate che non beve, non fuma e non va a minorenni nei weekend.
Eccoci all’ultima traccia del lato A, si chiude questa prima trance con una cover del povero Chuck Berry, a cui va il nostro pensiero con infinita tristezza. Alla fin fine insieme a Ain’t That A Shame anche School Day riesce a salvarsi dalla glammizzazione forzata di Glitter, e ospita addirittura un assolo.
Quello che notiamo alla fine dell’ascolto del lato A è la tragica semplificazione perpetuata da Glitter ai capisaldi del rock classico. Quasi una versione schematizzata di quel rock che fu, mischiata ad una dose spesso nauseante di glam rock.
Affrontiamo il lato B.
Si comincia con Rock On, dove Glitter mi stupisce dimostrando di riuscire a fare una canzone di ben 3 minuti e 33 secondi, e riesce a mescolare gli elementi del Lato A in un pezzo più organico e certamente più dinamico dei precedenti. I ritmi incalzanti della batteria cominciano però a diventare un po’ pedanti.
La caduta definitiva arriva con uno smacco straordinario. Glitter decide che è il momento di coverizzare anche il mai abbastanza compianto Richie Valens, una delle voci più interessanti degli anni ’50, un grande che si spense appena maggiorenne. Donna sono 4 minuti che saresti ben più felice di passarli martellandoti i gioielli di famiglia.
Con The Famous Instigator Glitter inizia davvero a giocare con il fuoco. Praticamente ci ricicla senza vergogna alcune delle canzoni presenti nel lato A, il ritmo è un po’ meno robotico magari, ci mette qualche strano verso e qualche pausa, ma la mancanza di idee è davvero lampante.
The Clapping Song non ci smentisce cominciando con un Glitter tutto fogato che ci invita a far baldoria con lui: Everybody Clap!, l’invito però ci lascia però freddi e distanti, seduti sulla nostra sedia pensando che quel disco l’abbiamo comprato davvero. Dio mio. Sembrerebbe essere un pezzo per festaioli, o roba del genere, personalmente ho riscontrato delle difficoltà mica da poco a lasciarlo scorrere sul piatto aspettando che finisse, mi ero quasi convinto di concludere la recensione qua, ma mi sono fatto coraggio.
Shaky Sue ha come grande pregio quello di essere la penultima traccia di questo martirio. Glitter ci dimostra come con una serie di ritornelli piuttosto già sentiti e mal cantati ci puoi fare tranquillamente un disco, e ci acchiappi pure un sacco di soldi. Comunque ci sta pure il tempo per un assolo di chitarra, anche se il buon Glitter a suo dire li ripudia.
Rock and Roll part 2 è conosciuta anche come The Hey Song, poiché il testo si esaurisce nel belare su ritmo di marcia un bel “Hey” ogni tanto, direi che chiude degnamente il disco.
Cosa ci rimane di questa esperienza? Che esiste giustizia a questo mondo perché Glitter se ne ritorna in galera (per la seconda volta) e se siamo fortunati stavolta non ci esce più.
- Pro: stiamo scherzando, vero?
- Contro: Gary Glitter.
- Pezzo Consigliato: Baby Please Don’t Go dice tutto. Anche troppo.
- Voto: 1/10