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Magic Cigarettes, Slift, Skeptics

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So di esser stato via per un po’ ma gli impegni reali, quelli che magari mi fanno persino campare, hanno avuto il sopravvento. Oggi vi propongo tre recensioni che non sono il MEGLIO di quello che ho ascoltato recentemente, ma semplicemente le uniche riflessioni che ero riuscito a buttar giù sul taccuino tra un treno e l’altro.

Dai dai dai.

Le Sigarette Magiche nella spirale della fattanza

Qualche secolo fa mi aveva scritto un componente dei Magic Cigarettes proponendomi l’ascolto del loro ultimo album, “Cooked Up Special”, ricordandomi della mia precedente stroncatura al loro esordio. Per dovere di cronaca: non ho mai stroncato “Magic Cigarettes”, semmai ne ho sottolineato le criticità. Vi va un riassuntino?

  1. I pezzi sono lunghi, ma senza particolari sviluppi che ne giustifichino i due o tre minuti in più di jam psichedelica.
  2. Non sono un fan del “pezzone”, cioè quella traccia che si staglia sulle altre e dirompe nel cervello stampandosi a fuoco, ma le Sigarette sembrava quasi che passassero il tempo a cercare quel riff, senza però riuscirci.
  3. Spesso i momenti più tecnici sono del tutto avulsi dal contesto.

Il tutto però in una cornice più che convincente, se vi piace il garage psichedelico.

Sinceramente preoccupato che “Cooked Up Special” non fosse dissimile dal suo fratellone, avevo già ampiamente sfiorato l’idea che la recensione non l’avrei mai scritta, perché non scrivo niente quando credo che non ci sia niente da dire. Ed invece siamo qua.

Il maggior pregio del lavoro d’esordio del 2015 qui permane, ovvero la commistione di più ambienti sonori e generi che impreziosiscono il percorso d’ascolto, stavolta esaltati dalla minor durata delle tracce. Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui ho creduto all’amore a prima vista, tipo nello strepitoso attacco scratch di Chill Out, o in quello garagista di Freak, che irrompe con una chitarra che ruggisce un electric-doo-wop alla Frights.

È chiaro persino ai sordi che le Sigarette, musicalmente parlando, sono sessualmente attratti dalla scena psych americana fatta di riverberi, raffinatezze sonore e fiumi di parole. Tipo i Growlers per intenderci. Effettivamente poco attratti dalla variante schiaffi-sul-muso-del-suono dei Thee Oh Sees, la loro fede si basa, più che sulle digressioni elettriche alla Barrett, sulla melodia. Se anche Rain Of Weed si presenta con quell’urletto acido che caratterizza John Dwyer e i suoi fantastici amici, ciò che segue è una canzone ballabile senza per forza rompersi una clavicola, senza insomma quei ritmi kraut indiavolati dei californiani, composta ed eseguita con eguale grazia, ma per ascoltatori diversi.

Chiaramente le Sigarette vogliono da parte del fruitore un ascolto più riflessivo, ma non per questo più ponderato. Il loro flusso non vuole frastornarti, ma piuttosto trascinarti dolcemente come la Crystal Ship dei Doors, giù negli abissi della fattanza. Può sembrare un paradosso che con dei pezzi più brevi si possa raggiungere più facilmente il risultato, ma se “lungo” è solo una scusa per dire “ganzo”, qualunque excursus diventa fine a se stesso e rompe la fluidità.

Per quanto mi riguarda non sono particolarmente preso da questo tipo di psichedelia, come per i Growlers le Sigarette per me sono troppo di tutto, riempiono lo spazio sonoro vivibile con sensibilità certamente, ma senza che la cosa susciti in me alcun ché se non un genuino interesse per la parte ingegneristica ed esecutiva.

Pezzi come Hunger Dance e Panc (una reminiscenza dei The Metopathics?) nella loro semplicità e idiozia quantomeno mi divertono e posso riascoltarle con piacere.

Sicuramente Cooked per le Sigarette rappresenta un passo avanti bello deciso, se in questo blog mettessi ancora i voti sarebbe un 7 su 10 pieno (il precedente un 6), ma non troverà la sua dimensione nella mia rete di ascolti. È come se dietro la magnifica copertina, la rilegatura preziosa e la forma elegante e forbita, non ci fossero poi dei concetti particolarmente interessanti.

Ci ascoltiamo un po’ di fantasy-garage? Ma anche no

Prodotti dalla Howlin Banana Records questa band di Toulouse è riuscita nell’intento di rovinarmi un perfetto weekend di birra-pizza-film della Troma, il tutto con il semplice ascolto del loro ultimo breve EP “Space Is The Key“.

L’hard-psych-garage degli Slift già subito dopo l’attacco al fulmicotone di Dominator aveva un che di già sentito, un olezzo di sudore ormai da quarantenne che ancora si veste con le magliette a righe, insomma ci stanno I SOLITI CAZZO DI THEE OH SEES. Ma stavolta siamo lontani dall’omaggio, perché qui siamo dalle parti del plagio più bieco.

Prendete i Oh Sees di Dwyer, metteteci un pizzico dei Fuzz col chitarrone di Moothart in bella vista, giusto una spolverata di Hawkwind ed eccovi servita una band dal grandissimo potenziale live, ma che è ontologicamente impossibilitata a scrivere qualcosa di originale.

Il pezzo forte di questo EP, la furibonda The Sword, dieci anni fa mi avrebbe esaltato come un tredicenne durante il suo primo sorso di birra con gli amici, oggi mi pare di averla già ascoltata cento volte prima ancora che cominci.

Ma la cosa che mi ha definitivamente rovinato ogni possibilità di godermi la mia double IPA Canediguerra è stato che gli Slift ci sanno fare eccome! Se i Fuzz sono una versione claudicante e a volte imbarazzante dei Blue Cheer, gli Slift sanno pienamente riprendere i fasti di band leggendarie come Cheer e Hawkwind, non compromettendone dunque le peculiarità tecniche, ma la loro musica è solo un misero copia-incolla, che non sperimenta ma al massimo assembla come con una costruzione Lego. O come un musicista vaporwave.

Le tensioni fantasy che stanno influenzando il genere (anche “Orc” dei Oh Sees la interpreta) è evidentemente arrivata anche in Francia. Il risultato, per ora, è decisamente dimenticabile.

Gli Skeptics nello spazio

Bart De Vraantijk dopo quattro-cinque anni di garagismo sixties derivativo ha deciso di cambiare rotta. Da queste parti ce ne siamo accorti tempo fa, quando l’ottima Frantic Records ha pubblicato lo split Skeptics/Prêcheur Loup, uno dei migliori split francesi degli ultimi anni.

È vero che questo primo LP omonimo non proponga poi chissà che, se non la piacevole sorpresa di ascoltare la creatura di De Vraantijk cambiare pelle come un serpente tropicale. Anche perché cos’ha di particolare una Skin of green? È un pezzo che potrebbe scrivere persino Sallusti per la sua banalità, EPPURE l’ascolto di questo album scorre in un modo davvero aggraziato.

La profonda conoscenza della band del garage sixties si sente dall’immediatezza dei riff e dalla semplicità della sezione ritmica, l’unica differenza sta nell’indirizzo cosmico che ha preso la chitarra di De Vraantijk. In pratica è come ascoltare la più banale delle surf-rock band che cerca di coverizzare qualcosa dei primi Black Mountain o dei soliti Hawkwind. Il risultato è… curioso.

Summa di tutto il lavoro i conclusivi 7 minuti di Zeeland, da ascoltare ad un volume decisamente problematico per il vostro condominio.

Davvero non so spiegarmi perché valga la pena di ascoltarsi un album che, nelle sue specificità, non rappresenta di certo un’uscita particolarmente originale né in alcun modo sperimentale. Eppure gli Skeptics nella loro immediatezza sono comunque diversi dal resto della scena garagista francese, che sebbene li accumuni delle volte una qual certa corrente estetica (penso alla psych cosmica che ha contaminato Volage, Anna, Madcaps, Baston, etc.) riesce comunque a non spersonalizzarli.

Un pezzo degli Skeptics lo riconoscono immediatamente, ed in questo marasma di uscite garagiste modaiole e sempre più svuotate di ogni necessità, non è una cosa che riesco a ignorare.

Rawwar, Thunder Bomber, Thee Oh Sees

Tre recensioni toste di roba che ho ascoltato di recente, avrei voluto mettere qualcosa in più ma è stata la settimana di merda per eccellenza.

RAWWAR – cassetta

Intanto c’è Tab_ularasa, il che ci piace. Poi ci sta Zulfux dei Dead Horses e dei mitici For Food, ci metti anche Doctor Dead del Trio Banana e il rischio di trovarti di fronte ad un album di soli rutti e scorregge diventa quasi una certezza. Ed invece questi tre simpaticoni decidono di fare la cosa più semplice del mondo: divertirsi assieme. Certo, di solito quando uno si diverte risulta anche allegro, invece per i Rawwar evidentemente passare del tempo assieme spassandosela equivale al produrre del garage blues maledettamente abrasivo.

Di solito nel punk così come per il fratellone garage si parla di rabbia in termini creativi, e quando pensi al garage blues se proprio non sei un depravato ti vengono subito in mente gli Oblivians e gli anni ’90. Direi che è normale, no? Ma in questo specifico caso, nelle tre canzoni cagate fuori da quello immagino essere stato un pomeriggio freddo e insipido, c’è più rancore che rabbia (e più noise che garage blues anni ’90).

Nelle liriche il tema del luogo in rapporto al soggetto (andare-muoversi-allontanare) non è affrontato con il piglio intellettualoide di certo punk (non sempre negativo eh, penso agli Alley Cats), questo è un punk senza anthem, un garage senza giri orecchiabili, potete percepire i Pussy Galore ma senza il loro tiro infernale, non c’è nemmeno una melodia trasognate alla Centauri, tre pezzi e nemmeno un accenno di piacevolezza. L’ho trovata una cosa profondamente bella.

Fra l’altro mi sono innamorato di Going South, c’è un riff che ricorda la furia micidiale degli Oblivians ma si perde in un mare di rumore asettico, un pezzo che deflagra per poi raggrumarsi come una ferita adolescenziale. 11/10

THUNDER BOMBER – LOOKING FOR TROUBLE

Al contrario dei loro amici Dots i Thunder Bomber fanno del tiro un espediente più hard rock. Ok, forse non mi sono espresso in italiano, volevo dire che laddove nei Dots c’è una vena quasi pornografica nel rapporto tra funky e punk, i Thunder Bombers sono più i Sonic’s Rendezvous Band senza l’ombra degli Mc5 addosso (molto meglio, eh?). L’energia che scaturisce da ogni singolo pezzo, a metà tra Rocket From The Crypt e Nashville Pussy,  rende “Looking For Trouble” un album decisamente da viaggio o da scazzo, ma che ho paura di dimenticare con la stessa facilità con cui passo da una pinta all’altra al pub.

Adesso cerco di fare mente locale, anche se in realtà arrivo da una settimana in cui mi sono scervellato all’inverosimile per una recensione de Il Girello (opera buffa della seconda metà del seicento), e anche perché Luca è stato gentile a contattarmi senza insultarmi come nel 90% delle mail che ricevo, e infine perché “Looking For Trouble” non è certo una merda, per cui vediamo se riesco a mettere in ordine i miei pensieri da bravo recensore provetto:

COSA MI PIACE Questa è facile, hanno un tiro micidiale, i pezzi anche se non sono particolarmente originali nella composizione mi sembrano molto schietti e con quella sincerità rock ’n’ roll alla Nashville Pussy che ogni ci vuole. Francamente non sopporto più l’heavy metal e l’hard rock da molti anni ormai, non che questo album sia heavy nel senso stretto della parola, però di solito queste sonorità mi fanno incazzare, stavolta no. Sarà perché invece di essere la solita band derivativa di Deep Purple o Led Zeppelin questi prima di tutto si divertono come i matti, e vaffanculo a tutto il resto.

COSA NON MI PIACE È un mio problema ragazzi, non sopporto più gli assoli. Sapete no quelli belli muscolari che arrivano telefonatissimi sulle tibie e ti spezzano le gambe? Mi sembrano eccessi steroidei da palestra, non ne posso più di sentire la solita struttura che si prepara ad ingravidarti senza consenso con l’onanismo del chitarrista di turno. Non ho niente contro il chitarrista dei Thunder Bomber, sia chiaro, va come le palle di fuoco come dicono nel Valdarno, per cui se vi piacciono le sbombardate siete sui lidi giusti. Io preferisco i Crime.

E con questo è tutto. Anzi no.

THEE OH SEES – A WEIRD EXIT

Eccoci al duemillesimo disco dei Thee Oh Sees, una band che in vent’anni (più o meno) ha azzeccato tre album che nel modestissimo avviso di questo blogger spaccano i culi e cagano in testa a qualsiasi stronzata in copertina su Rumore. Il resto della loro discografia… meh. Però dai, ci piazzano sempre qualche assolo alla Barrett, la sezione ritmica alla Cluster/Can/Faust, ma è dal 2013 che non fanno un album decente per il sottoscritto.

Sentite, non me ne frega un cazzo, le ultime robe di Dwyer sono davvero imbarazzanti, vi possono pure piacere per carità, anche perché la band sebbene i cambi di formazione dal vivo è una cosa splendida e lisergica, però “Drop”, lavoro incensato dalla critica e dai blogger hipsteroni è davvero un’accozzaglia di idee riciclate e laccate all’inverosimile. E anche quello dopo, com’era… ah, sì: “Mutilator bla bla bla”, originale come la Coca-Cola della Coop. Il vero problema della band è che l’ultimo cambio di formazione ha sputtanato la compattezza del sound e la sua forza distruttiva a 33 giri, e anche la creatività sembra scarseggiare.

E quindi “A Weird Exit”? Intanto diciamo che c’è ancora Tim Hellman dei mitici Sic Alps, che stavolta non fa la fighetta e pesta duro su quelle quattro corde, poi ci sta il buon Paul Quattrone (dei sopravvalutati !!! di Sacramento) e un tale Dan Rincon che assieme riesumano la sezione ritmica a doppia batteria, potente tanto quanto quella leggendaria di Lars Finberg e Mike Shoun. Ma al netto della potenza e di qualche cosina nuova “A Weird Exit” è solo un buon album e niente più, anche se rischiava di essere un capolavoro del calibro di “Carrion Crawler/The Dream”.

Gli accenni sabbathiani (Gelatinous), il loro garage psych delirante ormai marchio di fabbrica registrato (Dead Man’s Gun), è tutta roba già sentita negli album precedenti con poche variazioni, e questo fa incazzare. Ovviamente è roba buona, ci mancherebbe ragazzi, ma l’abbiamo già sentita nei quattromila album precedenti! I momenti migliori sono sicuramente i due pezzi più dilatati e sperimentali: Jammed Entrance e Crawl out from the Fall Out, una botta di vita che – devo essere sincero con voi, non mi aspettavo nemmeno per un cazzo. C’è persino l’influenza dei migliori Brian Jonestown Massacre nella finale The Axis, forse uno dei pezzi più affascinanti nella loro intera discografia. Però… non c’è troppo da dire in realtà.

Sembra che Dwyer si sia ormai normalizzato, tutti gli elementi che rendevano i Thee Oh Sees un gruppo unico nel panorama garage mondiale, tra i più seminali di sempre e con non pochi proseliti, ormai sono diventati rassicuranti tappeti sonori balsamici, accomodanti muri di suono privi di qualsivoglia necessità. Certo è che qualche guizzo quest’ultimo album ce l’ha, e anche di un certo capriccio ecco, per cui non vendiamo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.

https://open.spotify.com/user/micolash90/playlist/47PY2PDY9uePxoJm34bqBI

Babylon K – Babylon K [EP]

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Voi non immaginate quale cazzo di soddisfazione sia tornare sul mio blog. Sto passando delle settimane davvero di merda e una pausa per scrivere di musica mi ci voleva come l’aria. Cristo.

Cominciamo con una delle recensioni a richiesta che mi sono pervenute in questi giorni, i Babylon K.

Questi cinque virgulti fiorentini si sono cimentati nel loro primo Ep omonimo, pieni di belle speranze e riff, ma [domanda da un milione di dollari] fanno della musica con le palle? Il loro rock demolisce le pareti dell’inibizione e ci trasporta su un altro piano dell’esistenza, dove spazio e tempo trovano la loro definizione ontologica in Famme Cantà del Senatore Razzi?

No.

Non fraintendete, i Babylon K sanno suonare, Daniele Dainelli ha una voce che rientra tranquillamente nella categoria “da paura”, ma per il genere che suonano sono piuttosto prevedibili.
«Eh Beppe, se però non ce lo dici prima che genere fanno ‘sti fiorentini…»
E c’avete ragione da vendere, ma se fossi un buon recensore scriverei per Blow Up, e non su una piattaforma composta per il 90% da poeti mancati e blogger egocentrici che riescono a scrivere post di 50.000 battute sulla loro colazione.

Quello in cui si cimentano i Babylon K è quell’hard psych rock che va tanto di moda nel nord d’Europa, ma con una maledetta attitudine indie che rovina qualsiasi tentativo di fare un po’ di rock cazzuto.

Infatti l’unico problema di questo EP è che appena parte Feelings (il primo pezzo, of course) capisci di trovarti di fronte la versione “MTV approved” di Earthless, Golden Void, The Machine e via discorrendo, passando pure per buona parte del catalogo della Captcha Records.

I riffoni ci sono ma non pestano (al contrario, per esempio, di quelli “sabbathiani” dei Kadavar) e i risvolti psichedelici sono terribilmente banali, praticamente i Babylon K sono gli Arctic Monkeys dello psych rock: molta forma, zero sostanza.

Sicuramente in Why Are Living Now? l’atteggiamento è “loud & proud”, però per quanto concerne il lato compositivo siamo alle basi, il che di solito a me non da fastidio, ma in questo caso, e in questo particolare genere di appartenenza, mi fa abbastanza prudere le mani. Ovviamente con “basi” non intendo che hanno cominciato a suonare ieri, stile Ramones, ma che prendendo in considerazione la storia della scena hard psych, i Babylon K stanno vivendo ancora una fase piuttosto classicheggiante. 

Capisco che seguire le orme di Led Zeppelin e compagnia cantante aggiornandoli ai nostri tempi sia una cosa bella da fare, ma il problema è che ti ritrovi per le mani una gabbia compositiva che si definisce entro dei limiti espressivi dannatamente oppressivi. Il riffone, il ritornello, l’assolo, la voce che fa «AaaaaAAAaaAArrgh!» ma a questo punto le cose sono due:

  • o suoni da Dio (tipo i già citati Kadavar, che sono ancora più classici!)
  • o reinventi tutto
  • [bonus] infondi un profondo significato nel rapporto liriche-musica.

I Babylon K non hanno fanno nessuna di queste cose.

Insomma, un revival mascherato che però potrebbe portare lontano questa band, almeno in termini economici. Infatti se (e solo se) il mercato dovesse spostarsi da questo ritorno al funk ad assecondare le pulsioni hard rock che accomunano la lontana California all’Europa del nord, i Babylon K sarebbero in vantaggio di ben un EP sulla concorrenza.

Sono bravi tecnicamente, ascoltando questo esordio per qualche giorno ho sempre apprezzato l’atteggiamento e la voglia di “spaccare”. Ottima pure la produzione, sul lato tecnico c’è davvero poco da dire, ma il loro rock si basa su cose sentite e risentite fino alla nausea, senza la personalità di tante band tedesche e americane.

È piuttosto chiaro che con la batteria raddoppiata e tralasciando le nenie indie (magari ascoltando qualcosa dei primi Thee Oh Sees) ci sono delle belle potenzialità in gioco, devono solo trovare la loro dimensione.

Mexcal – L’Ostinata Fedeltà Dei Cani

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«Di quelli come te/ non so che farmene» cantano i Mexcal, e mi viene quasi da sorridere.

Ultimamente mi stanno contattando parecchie band e artisti, delle volte piuttosto al di fuori della musica che recensisco di norma in questo mediocre blog. Chi fa musica frenchcore, chi death metal, chi jazz sperimentale, e chi, come i Mexcal, fanno il classico rock italiano da radio Subasio.

Che poi a me dispiace anche trovarmi nella posizione di stroncare (quasi) tutti gli album che mi mandano, spesso con tanto di note e dichiarazione d’intenti incluse nella mail di richiesta, e non raramente con allegata una lista infinita di premi di vario genere, ma a me delle premiazioni e dei voti su internet non me ne frega un cazzo, giudico l’album per quello che c’è dentro, non per come ne parlano a giro.

L’Ostinata Fedeltà Dei Cani” è un disco sorretto da un tema classico del rock, la perseveranza nel seguire i propri sogni, che per i Mexcal evidentemente è fare rock anni ’90.

Il problema delle 11 tracce che compongono il loro esordio è che sanno TUTTE di già sentito. È come tornare al primo album dei Negrita del 1994 (senza la loro velocità e l’armonica alla Morricone), a quei suoni dalle parti di Arezzo, la triste banalità della voce potente e virile, i dannati ritornelli, i riff delle volte pizzicati e delle volte a tutto volume, i testi sempre uguali.

Sebbene le regole non piacciono più tanto a questo trio bresciano (come si evince da Quello Che Non Sorride Mai) nel loro album le rispettano tutte, fino alla noia.

L’unica cosa che si percepisce decisamente è il divertimento viscerale che provano nel suonare, come se fosse l’unica cosa che valga la pena di fare, ma non basta questo per creare un prodotto interessante, sarebbe troppo facile!

L’ho capito che «ogni parola è un ricordo», ma per farmi sentire il peso di quel ricordo non basta urlarla quella parola. Quando Dee Dee Ramone canta in 53rd & 3rd la senti la sua esperienza, riesci a percepire quel disagio sulla tua pelle, quando Robert Wyatt declama in falsetto il testo di Sea Song ogni singola parola è un cazzotto allo stomaco. Come invece lo fanno i Mexcal è come lo fa ogni band da taverna, dimenticandosi che parola e suono sono vettori che necessitano di magnitudine e direzione.

Mentre il rock in Italia cerca una dimensione internazionale che non sia, finalmente, copiare quel che di buono ci dà l’estero, ma proporre della musica originale e interessante (Heroin In Tahiti, Mai Mai Mai, Architeuthis Rex, La Piramide Di Sangue, Squadra Omega, …), ci sono anche band come i Mexcal, molto più modeste ma molto più immediate.

Divertente il pezzo finale quasi alla Skiantos (Signorina), come anche i riferimenti a Ivan Graziani in Conchiglie E Stelle (purtroppo non coadiuvata dalla splendida auto-ironia del chitarrista italiano).

Alla fine della giostra “L’Ostinata Fedeltà Dei Cani” è un esercizio di maniera che piace più a chi lo suona che a chi lo ascolta, un mondo a parte dove conta solo a che volume lo stai suonando, non cosa stai suonando.

Jümp The Shark – IUVENES DOOM SUMUS

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Come se la passa il jazz in Italia?

Dal punto di vista degli strumentisti benissimo, abbiamo degli interpreti di caratura internazionale che fanno invidia alle grandi scuole americane (esattamente come ci invidiano la Pizza e i mandolini) ma forse è sulla sostanza che dovremmo lavorare un po’…

Vi ricordate quando gli album jazz venivano acquistati a anche da chi di jazz non ci acchiappava? O quando quegli stessi album comparivano nelle classifiche delle riviste non specializzate, quando potevi benissimo trovarli a casa del tuo amico che ascoltava solo Led Zeppelin e Pink Floyd? Ecco, le cose so’ due:

  • se ricordate tutte quelle robe siete vecchi
  • se non le ricordate avete più o meno la mia età (24 anni) e sapete benissimo che il jazz in Italia, ad oggi, è una cosa per pochi, una roba d’élite, e non è una cosa buona.

So che qualcuno leggendomi imputa tale condizione all’analfabetismo musicale dilagante, ma personalmente credo sia una grossa puttanata. Squadra Omega, Architeuthis Rex, La Piramide di Sangue e in generale gran parte dell’esperienza psichedelica occulta italiana dimostra abbondantemente il contrario, un mondo dove jazz, rock, minimal, drone e noise si esprimono senza la ricerca di una maggiore fruibilità (anzi, è proprio la loro natura criptica l’unica chiave di lettura) riuscendo comunque a stanare i fan di Zep e Pink Floyd di cui sopra, ma anche quelli di Sun Ra e Mingus, senza cadere però nell’auto celebrazione.

Ovviamente ci sono le eccezioni. Piero Bittolo Bon, a mio avviso, è tra queste.

Parte di quell’ammasso di genialità senza freni di El Gallo Rojo, Bittolo Bon è il contrario del formalismo e dell’auto celebrazione, ma non è nemmeno un maniaco dell’”inascoltabilità”, di una musica estrema che non lascia via di scampo all’ascoltatore, questo perché il suo jazz è dannatamente ironico, ispirato, gioviale.

Già dal nome del progetto, Jümp The Shark, si capisce come il mondo a cui il sassofonista si riferisce non è così distante dal nostro (noi sfigati che ascoltiamo Ramones e Swell Maps), quel salto dello squalo che è ormai entrato nel linguaggio popolare di chi mastica televisione, e quindi di chi vive anche al di fuori di una torre d’avorio per soli addetti ai lavori, è un sarcastico brücke tra accademia e cultura pop.

Per questo terzo album (“IUVENES DOOM SUMUS”, titolo bellissimo fra l’altro) Bittolo Bon è accompagnato da Gerhard Gschloessl al trombone, dalla chitarra di un grande Domenico Caliri, dal vibrafono “zappiano” di Pasquale Mirra, Danilo Gallo (Guano Padano) al basso e un vivace Federico Scettri alla batteria, un ensemble affiatato e con mille sfumature (anche timbriche), che spazia dal free jazz più esplosivo fino ad una sperimentazione auto-ironica, mai cervellotica eppure di effetto (in questo senso è esilarante quanto interessante Another Venetian Self-Referential Tune).

Sebbene attento all’avanguardia, quella che Bittolo Bon prende in considerazione è la meno scolastica possibile, raggiungendo un sound talmente dinamico e coinvolgente da essere, delle volte, addirittura rock.

Non fraintendete, non intendo dire che in “IUVENES DOOM SUMUS” troverete dei pezzi degli Who o una cover dei Deep Purple, ma che l’approccio musicale è quello di una garage band che vuole prima di tutto divertirsi, anche se qui la questione non è assecondare o osteggiare la British Invasion, ma è assecondare Ornette Coleman e “Cannonball” Adderley, portandoli negli anni ’90 dominati dalla TV e dai giochi a 8-64 bit. È rock come lo intendeva Lester Bangs, musica democratica, e non è un caso se il buon Bangs reputava “dei nostri” pure un certo John Coltrane.

Dopo il folgorante esordio del 2009 “SUGOI SENTAI! GATTAI!!” (con una folle Heavy Metal Miss Jones uscita fuori dal periodo migliore di Zappa) e “OHMLAUT” del 2011, questo “IUVENES DOOM SUMUS” è l’ennesimo passo avanti per Jümp The Shark verso un jazz lontano dalle polverose accademie e dalla seriosità dei “maestri”, verso un’idea di musica che tenendo a distanza le banalità riesce comunque a coinvolgere tutti.

Insomma, potete anche tirarli fuori du spiccioli per ‘sto disco, no?

E per finire, come di consueto, qualche video:

Dal primo album eccovi Interstellar Turkish Kung Fu!

Dal secondo una avvincente Die Teuflische Quinlan (avete notato i riferimenti pop vero? VERO?)

E il promo dell’album:

Eeeee ultimo ma non ultimo…

Un breve ringraziamento è quantomeno dovuto a Alessandra Trevisan, che è stata davvero gentile a riempirmi di materiale su Piero Bittolo Bon e sul mondo attorno a lui. Ed io la ripago con questa recensione di due righe in croce. Che galantuomo.

Nazario Di Liberto – All Waste Town

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Domani esce il nuovo album di Nazario Di Liberto, rappresentante di una scena post rock palermitana ancora sterile e legata a musica di vent’anni fa. Di Liberto non vuole innovare questa scena, piuttosto cerca di divertirsi con la sua musica.

Nel 2012 esce “Stasi”, un album etereo e compatto, l’idea di creare un’istantanea se vogliamo emotiva di un momento preciso della nostra/sua vita, ma fortemente difettato da una ricerca musicale praticamente avulsa dalla scena elettronica contemporanea. La musica rimane in superficie come un sottile velo estetico che nasconde una certa povertà espressiva.

Eppure le idee non mancano, come anche la capacità tecnica, e Di Libero ci riprova quest’anno con “All Waste Town”.

Un album che, sebbene sia unitario dal punto di vista del sound, è impregnato di diverse accezioni (post rock, industrial, dream pop, trip hop) e solo in una di queste trova una dimensione che superi il semplice esercizio di maniera.

La frustrazione di Di Liberto nei confronti di questa waste town alla fine non viene quasi mai fuori. È come se mancassero dei tasselli per completare un mosaico ben congegnato.

Ad aprire le danze ci sono Proto_Tipo//3 e Proto_tipo//4, un bel passo avanti nella composizione in confronto a “Stasi”, ma almeno due indietro in confronto alla scena internazionale in cui cerca di evolversi questo nuovo album. In una recensione di Andrea Terenzi di Rockit, piuttosto entusiasta, immagina “All Waste Town” in linea con la “electro/avangarde” in voga nei club berlinesi. Il che, in tutta sincerità, non è affatto un complimento.

Se c’è una elettronica che oggi si può definire di avanguardia è quella degli inglesi Boards Of Canada e dei conterranei Fuck Buttons. I secondi, prodotti da John Cummings dei Mogwai, hanno con il riuscitissimo “Slow Focus” (2013) creato un nuovo standard internazionale a cui la musica di Di Liberto si scosta pesantemente, rimanendo legata a fenomeni di troppi anni fa, ed ad una scena (quella palermitana) priva di spunti originali.

L’affresco a tratti gotico e piuttosto riuscito di Tokyo è figlio di quanto sopra scrivevo, siamo lontani dall’eterea stasi che bloccava espressivamente l’album precedente, perché Tokyo di tutto il lotto è la vera waste town. Ma è un post rock già sentito, senza sferzate sperimentali, il che da una parte è voluto (perché come avevo premesso Di Liberto non vuole rinnovare un linguaggio), ma è comunque un limite. Non manca di certo carattere però le idee sembrano troppo spesso involontariamente riciclate.

Ancora più paradossale la bellissima Useless, con la splendida voce di Sonja Burgì che ricorda il dream pop etereo di Elizabeth Fraser nei Cocteau Twins. Ed è proprio questa atmosfera trip hop a riportare l’album ad un a dimensione anacronistica, come se fosse uscito nel 1999. Useless è davvero un gran pezzo, ma se lo mettiamo in confronto alla produzione trip hop attuale (è uscito qualche giorno fa un buon “Adrain Thaws” di un Tricky secondo la critica internazionale “ritrovato”) suona quantomeno banale.

Munito anche di hidden track (con il bellissimo verso più volte ripetuto: «mortician of feeling»), “All Waste Town” è un album riuscito a metà. Se nella composizione Di Liberto ha fatto passi in avanti, e anche le idee espressive riescono comunque a venire fuori, la musica suona bene o male come un post rock già sentito e risentito, insofferente alle novità più sperimentali e interessanti degli ultimi cinque anni.

Considerando la scena italiana in evoluzione (basti considerare il catalogo della Boring Machines, che per quanto ermetico sta ricevendo il plauso anche della critica più incompetente) c’è ancora molto lavoro da fare, ma per fortuna ci sono tutte le potenzialità.

The Blind Shake, il nuovo 7” made in Italy

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Vi avevo già segnalato i The Blind Shake, figli illegittimi dei Rocket From The Crypt ma per niente nostalgici.

I micidiali riff di “Key to a False Door” (2013) fanno parte del miglior garage psych da festival estivo, con quei pezzi che delle volte si ingarbugliano in un lancinante feedback per poi riprendersi dietro il ritmo forsennato della batteria. Roba seria insomma.

Proprio ieri sono stato contattato dalla Depression House Records, etichetta italiana che ha curato l’uscita il 20 maggio del nuovo 7’’ dei Blind Shake, mi sono ritrovato così ad accendere lo stereo a tutto volume in piena notte nella speranza di sconvolgere il mio apparato uditivo.

Va detto che “Key to a False Door” aveva i riff giusti ma mancava ancora un sound più curato e qualche pezzo davvero memorabile (anche se vi invito a riascoltare Le Pasion e Crawl Out). Con questo nuovo 7’’ credo proprio che le cose si facciano decisamente più interessanti.

Get Youth (lato A) ha semplicemente tutto, un bel riff sconquassabudella, un sound al limite della schizofrenia, feedback che spuntano dalle fottute pareti, è un garage psych che merita una certa attenzione oltre che uno stereo con un impianto audio della Madonna.

Deve molto a John Reis l’attacco al fulmicotone di Brickhouse Burro (lato B), ma questa band ha comunque una spinta in più degli ultimi The Night Marchers, il trio da Minneapolis ha un’energia che dal vivo dev’essere a dir poco devastante, e dalla foga di Brickhouse si può facilmente intuire.

Mike e Jim Baha creano l’ambiente sonoro e i riff, Dave Roper alla batteria è sempre pronto a scatenare l’inferno a richiesta.

Per quanto ottimi pezzi come Calligraphy del precedente album siano già di per sé un’ottima prova delle qualità della band, per me con questo suono più rumoroso, più distorto e arrabbiato hanno fatto quel passo avanti decisivo. E poi hanno sempre quel pizzico del sound tipico della Castle Face Records che impreziosisce tutto.

Adesso attendo con ansia di ascoltare un nuovo LP!

  • Link Utili: clicca QUI per il blog della Depression House Records, invece se vuoi ascoltarti gli album su bandcamp della band clicca QUI. Se proprio non puoi fare a meno di far sapere al mondo che i The Blind Shake ti eccitano come un tredicenne col suo primo porno clicca QUI per mettere “mi piace” alla loro pagina Facebook. Feticista.

Ipotonix – Storie di un mondo a-parte

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Dopo un mese di balli latino-americani e discoteche all’aperto con folle adoranti il Casto Divo tutti abbiamo bisogno di spurgarci con del sano rock.
O di bestemmiare, dipende dalla sensibilità.

Comunque tra una birra e l’altra ho avuto modo di ascoltare un po’ di roba a giro, tra cui questi Ipotonix.

“Storie di un mondo a-parte” oltre ad essere il titolo del loro primo EP uscito quest’anno è anche il manifesto involontario di un modo di fare rock. Sì perché il rock inteso come comunità in Italia è un po’ un tabù, così è più facile rifugiarsi in un mondo a-parte, un altrove dove i nostri suoni e le nostre passioni si esprimono sorde a tutto quello che ci circonda.

Eppure il rock è emanazione del suo tempo, dei suoi moti, delle sue speranze e anche delle sue focose e futili espressioni sociali. Cazzo, i Velvet Underground rappresentavano una intera comunità underground, gli MC5 addirittura politica, è impossibile scindere i White Stripes da Detroit come è impossibile slegare Nick Cave dalla poesia contemporanea americana.

In Italia questo è più difficile da percepire anche se con le tecnologie di cui oggi disponiamo non è più un alibi. Fin da subito abbiamo scopiazzato le impressioni musicali che ci arrivavano dagli USA attraverso l’Inghilterra (con notevole ritardo), però un minimo di contesto, diocristosantissimo, glielo vogliamo dare?

Gli Ipotonix non fanno eccezione, convergendo in sé molte caratteristiche del brit-pop/rock di ultima generazione (più Radiohead che Klaxons, più Gotye che Franz Ferdinand). Il loro primo EP è composto da impressioni che hanno il valore di essere unite da un sound ben preciso, il quale però non è contestualizzabile (porcodemonio!).

Molti sostengono che l’unicità sia un elemento positivo per l’arte, ma è chiaro che questi “molti” si drogano dalla mattina alla sera di UnoMattina e X-Factor, bevono TG1 a colazione e hanno un poster di Pippo Baudo in topless sopra il letto.

L’opera d’Arte non assume il suo valore specifico nell’unicità (nemmeno come elemento in sé, come ci insegna la Pop-art) ma nel contesto con cui dialoga. Essendo l’Arte comunicazione deve saper comunicare in un linguaggio comprensibile, o quantomeno deve contenere una chiave di lettura che ne permetta la decifrazione.

Il rock è una forma di comunicazione più bassa dell’Arte quindi i suoi elementi di lettura sono molto più limitati, essi in seguito possono anche essere spezzati e creare una diversa idea di rock, la quale però potrebbe potenzialmente rivelarsi in antitesi con il concetto di rock stesso – sì, ora la finisco di farmi le seghe.

Gli Ipotonix in questo senso non fanno rock, ma un riflesso di esso.

Se gli strumenti ci sono tutti e le strutture sono quelle manca però la forza di collante sociale o di rottura che contraddistingue questo genere che vive solo di estremi.

Il Teatro Degli Orrori propone un rock già sentito nel secondo hardcore e quindi ha perso essenzialmente il treno con il momento storico in cui quella musica aveva un motivo preciso per esistere, in pratica è una imitazione di rock.
I Fleshtones, sebbene facessero revival, lo contestualizzavano e finirono per definirsi super rock perché sapevano di aver iconizzato il rock delle origini come nessuno prima di loro aveva mai fatto.

Fare rock non è semplicemente prendere una chitarra in mano, entri all’interno di una comunità che ha una storia breve ma densa di eventi fondamentali. Puoi farne parte (Fleshtones) o anche rinnegarla (il punk) ma non puoi esprimerti a-parte, perché se no non riuscirai mai a comunicare quello che credi sia importante che gli altri ascoltino.

Ovviamente se vivessimo in un mondo dove la gente non compra quello che le major impongono sarebbe meglio, ma questo non fa che nobilitare ancora di più chi fa rock davvero, senza compromessi.

Ah, già, gli Ipotonix, la recensione, eccetera eccetera, come sono sbadato, se continuo così entro la fine dell’articolo sarò cieco.

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Guidati dalla voce e dal sintetizzatore di Davide Orsi gli Ipotonix si muovo attorno ai Radiohead e ad impressioni che derivano perlopiù dal soft rock britannico degli anni ’70. Il sound a tratti ci appare in effetti un po’ ammuffito ma non così tanto da farci desiderare delle scimmie di mare per natale, il synth spazia sfiorando momenti jazz quasi alla Sun Araw o quasi industrial alla Fuck Buttons (senza ovviamente la loro vena dark e noise), peccato che con i “quasi” non si combina poi molto.

L’EP si apre con il ritmo serrato ci City Line – Primo incontro, uno strumentale che rivisita le atmosfere del primo Mike Oldfield. Una traccia che, va detto, è piuttosto notevole per una prima demo.

Segue Reazione Chimica, un pezzo che D.Orsi ha perfezionato nel corso degli anni, qui entra in gioco la voce ma sopratutto il sax di Marco Marotta, il sound complessivo risulta come una specie di inedito brit-pop-jazz.

Supertramp non ha nulla della famosa band inglese, una accozzaglia di idee appiccicate una dopo l’altra dalle quali si esce piuttosto storditi. Il momento più basso dell’EP.

Naturale Coscienza di Sè sembra una cover dei Radiohead col sax.

Si riprende con City Line – Secondo incontro, e della prima parte resta solo il sound perché le atmosfere si fanno più scure, richiamando ai momenti più felici di Moroder; un taglio a tratti epico, poi manierista ma senza masturbazione. City Line in realtà nasce come un pezzo unico, ma questa divisione ne accentua i cambi di tono e i diversi mood, in assoluto i due pezzi pregiati dell’EP.

Si conclude con una cover: Missing Pieces di Jack White. Stentano quasi tutti in realtà, ma le sferzate garage della chitarra di Giuseppe Taormina valgono il prezzo dell’EP (e ricordano i wall of sound dei Thee American Revolution).

Cosa ci rimane alla fine dell’ascolto?
Buona musica (City Line), buone idee (Reazione Chimica), un po’ di confusione dovuta all’inesperienza (Supertramp) ma manca l’anima, la forza sciamanica che ti fa alzare dalla sedia completamente posseduto dal demone del rock, che ti fa spaccare sedie e desiderare che ci sia ancora altra birra in frigo.

È anche vero che con queste basi si mescolasse anche un po’ di sano rock allora… beh, allora sarebbero cazzi.

  • Pro: per essere una band nata da così poco hanno già un bel affiatamento.
  • Contro: ma che genere è? Non saprei proprio a chi consigliarlo!
  • Pezzo consigliato: le due City Line sono un lusso per questo EP, che senza sarebbe stato anche da 3,5/10.
  • Voto: 5,5/10

Ultime considerazioni:
mi sembra dovuto, almeno per onestà intellettuale, farvi partecipi della mia microscopica partecipazione alla realizzazione di questo EP, avendone curato una sorta di “post-produzione” (per la quale, difatti, compaio nei ringraziamenti). Ovviamente ciò non ha in alcun modo interferito con la recensione, tanto che a Davide ne ho mandata una diversa, mentre qui ne pubblico un’altra. Che fottuto bastardo, eh?

Montauk – Montauk

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L’Italia è sempre stata un po’ il fanalino di coda del rock (assieme a molti altri paesi occidentali) qualche soddisfazione siamo riusciti a prendercela nei mitici ’70, ma poi siamo scomparsi di nuovo.

Di band da ascoltare a giro per fortuna ce ne sono, anche se raramente riescono a stare al passo delle corrispettive band americane e inglesi.

I Montauk sono un gruppo giovane che sta muovendo i suoi passi nel terreno del post-core e dell’indie, terreni abbastanza fertili in Italia di questi tempi. Diciamo che puntare su tematiche melanconiche e depressive in questi giorni è un po’ da una parte ”vincere facile” e dall’altra rispecchiare fedelmente lo stato d’animo dei giovani.

La band mi ha spedito l’album un paio di giorni fa, è arrivato stamani stupendomi alquanto. Non tanto per la prontezza delle Poste, ma per la presentazione del disco stesso.

Dentro un cartoncino, tenuto fragilmente da un’elastico, c’è il cd e una specie di “manifesto” d’intenti, più una montagna di disegni di fumettisti e illustratori in linea con il Montauk pensiero.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, riprendono stilemi del fumetto della grafica contemporanea, qualcosa di simile si è già visto in “Requiem” dei Verdena se non ricordo male, dietro i disegni ci sono pure delle citazioni dai testi delle canzoni.

‘Na presentazione di nulla!

Nel manifesto degli intenti la band definisce la sua musica “post-core-slo-core, indie-punk” e cantautoriale, il che secondo me sintetizza bene il disco in sé, ma è quasi più una dichiarazione di limiti che di intenti, comunque ora ne parliamo meglio.

Dice, il foglietto, che loro non sono né gli Hüsker Dü né i Fugazi, e dice giusto assai. I Montauk non hanno la velocità degli Hüsker (e quelli andavano forte per davvero), non hanno la vena politica dei Fugazi e la loro musica scarna e sanguigna, in sostanza c’entrano poco e niente con queste due leggendarie band.

La musica dei Montauk parla ai giovani, suona come uno stralcio preso da un racconto di Ammanniti, senza però la sua psichedelica progressione verso un’infausta (e inevitabile) conclusione, il discorso della band libra in aria fendendo colpi qua e là, rievocando sensazioni e angosce senza però dargli mai una direzione precisa.

Le idee alla band non mancano, come anche la capacità tecnica. Il disco è definito lo-fi, ma non è proprio un lo-fi tipo. Insomma, non suona di certo come “Slaughterhouse” di Segall o “Rubber Factory” dei Black Keys, suona più come un disco degli Zen Circus, una via di mezzo in pratica.

Comunque prima di trarre delle conclusioni andiamo all’ascolto.

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Io, il pezzo che ci introduce in questo album cortino (dai, è un EP) comincia bene. Vada per il post-core, ma diciamo un post-core piuttosto rigido. Non c’è la veemenza degli Hüsker, ma nemmeno dei And You Will Know Us By The Trail Of Dead, piuttosto si lascia spazio ad una monocromia indie come negli The Underground Youth, senza salite o discese troppo rapide.

Come Fossi Il Tuo Cane conferma quanto detto e rimanda alle sonorità dei Teatro Degli Orrori, band molto apprezzata dal pubblico italiano in questi ultimi anni. Speravo in una citazione degli Stooges in tutto e per tutto, ma già il testo “vorrei che tu mi accarezzassi come fossi il tuo cane” – che ha qualche ricordo di I Wanna Be Your Dog, suona però come una sorta di sconfitta, mentre il latrare di Iggy era intriso di un fuoco che qui manca.

Il pezzo successivo, Il Bruco, è pervaso da un nichilismo adolescenziale che fa tanto indie. Mi piace la frase “e sceglierò il silenzio” perché rappresenta bene l’angoscia tipica di questo genere, ovviamente è un ossimoro che nobilita il tentativo di dire qualcosa dei Montauk. Peccato che la struttura compositiva cominci a sembrare un po’ ripetitiva.

Song No Tomorrow butta là qualche sprazzo di new wave, c’è un po’ più di energia e c’è molto potenziale; “la rabbia è una religione” ripetono ad un certo punto, non potrei essere più d’accordo, ma aggiungo che non è ancora la vostra parrocchia, le strutture sono troppo rigide e i suoni troppo calibrati, la rabbia c’è ma non trova ancora un’espressione adeguata. Il Mondo, il pezzo dopo, non aggiunge nulla di importante.

Con Da Quando Non Siamo Più la band comincia a tirare fuori le palle, e io apprezzo molto. Il pezzo credo parli di una coppia che si è divisa, in realtà ci capisco poco grazie ad un sistema di amplificazione da rivedere (il mio), ma frasi come “resto qui a cercare un pezzetto di te nei pantaloni” sono quanto di più post-core si sia finora sentito.
Inoltre la canzone propone una struttura decisamente più elastica, passando dalla velocità alla riflessione con un certo stile, peccato che sul finale il cantante tiri fuori questo:
“la mia vita ha il senso di un sapore
è un piatto di carne a base di interiora
la violenza della cucina tradizionale
le mosche mi fanno una corona di compagnia con al loro ronzante allegria”
Eh? Boh, però il finale mi è piaciuto un casino.

In Nessuno Partirà non manca il brio, ma quattro minuti francamente mi paiono tantini per un pezzo senza troppe sorprese.

Il disco si conclude con Piove, la traccia si distacca dalle altre per la presenza di una lunga introduzione fatta di impressioni sonore piuttosto semplici, c’è molta melanconia che sfocia in una sensazione di solitudine forzata mischiata a misantropia, che fa (ancora una volta) tanto indie.

Che dire?
La band ha idee, ha capacità, ha anche un sound abbastanza personale, che manca? Manca innanzi tutto il carisma di band come Il Teatro Degli Orrori o degli Zen Circus, e per paragonarli ad altre band ancora ai margini manca per esempio un po’ di coraggio alla Gli Ebrei.

Comunque ci sono le basi per qualcosa di potenzialmente interessante.

  • Pro: bel sound, un disco suonato bene e che non ha bisogno di virtuosismi per piacere.
  • Contro: sa di poco, dopo le prime due tracce il resto appare scontato.
  • Pezzo Consigliato: Da Quando Non Siamo Più ha anche una spinta in più.
  • Voto: 5,5/10