Archivi tag: 2013

Sbucciando una banana francese: il meglio e il peggio della Howlin’ Banana Records

funny-banana-cartoon

In questi giorni non ho scritto niente non perché non abbia ascoltato niente di nuovo, ma perché c’ho i cazzi miei. E sono tanti. Potete cliccare QUI per un racconto esaustivo.

Di che si parla oggi? E che c’entrano le banane? Ladies and gentlemen, oggi recensirò per vostra somma gioia qualche band dal catalogo della Howlin’ Banana Records! Come dite? “Echecazzoè”? La Howlin’ Banana Records è un’etichetta francese di garage rock-pop fondata a Parigi nel 2011 da Tom Piction, il solito giovanotto di belle speranze, un appassionato di indie rock e garage il quale, molto probabilmente, ha pensato bene che il modo più rapido per raccattare figa bollente fosse quello di fondare un’etichetta garage, genere celebre per le sue band grasse, unte e brufolose. Sarà riuscito il buon Piction a bagnare la sua baguette in del caldo burro francese? Ma sopratutto: sarà riuscito a selezionare band garage CAZZUTE, pronte a farci saltare i timpani?

Premetto subito che dopo un’ascolto completo di tutto il catalogo (sorseggiando del buon vino francese, che c’ho la pressione alta e la birra deve stà in frigo) la prima cosa che salta fuori è che, nel contesto scena europea, il garage francese è il più posato e aristocratico di tutti. Non che sia un male, cari miei seguaci, so che per molti di voi non è garage se non ci lasci le unghie sulle corde del basso, ma c’è anche il garage-folk, il garage-pop dalla California, il garage-psych di stampo barrettiano o alla Brian Jonestown Massacre, non facciamo trincee, lasciate scorrere l’amore tra i confini e i generi, lasciate che i feedback si perdano nell’abisso siderale dello spazio cosmico, seducendo e inseminando frammenti acustici, perdendosi nelle costellazioni liquide dello shoegaze, lasciandosi… oh merda, qualcuno mi tolga questa bottiglia dalle mani!

[Non ho recensito tutto il catalogo ma bensì la sbobba che ho ascoltato di più in queste tumultuose settimane, ogni album è descritto come sempre con la massima incuria e approssimazione, come piace a voi. Ma sopratutto come piace a me.]

Anna – Anna (2014)

Chi è Anna? Un tipo con problemi di collocamento sessuale? Una band? Una suora con un passato da ballerina nei night club? (cit.) Non lo so, però questo album omonimo alla fin fine non è malaccio.

I’m Note Yelling apre le danze in maniera asettica, assente e poco interessante, come se si preannunciasse il solito pappone psych senza direzione, ma è solo un minuto di incertezza, perché il garage-folk di I Love Noise mette in primo piano un piacevole songwriting barrettiano, che ci accompagnerà per quasi tutto “Anna”.

Haircut ha dei rimandi californiani decisamente influenzati dal Segall acustico del 2013, Old Man, con la voce bambinesca modificata digitalmente, è voglia di sixties pura riuscendo a recuperarne la freschezza floreale, con un dialogo di chitarre acustiche frenetico quasi-alla Violent Femmes.

Il gusto naïf francese si può percepire in pezzi come Eaten Apple, che anche nella lingua di Céline sarebbe suonato perfettamente. Ecco, forse un po’ troppo, nel senso che la perfezione formale di questo album è un pregio come un difetto, laddove riff e sezione ritmica non sbagliano un colpo ogni tanto nelle budella dell’ascoltatore raffinato si ode un gorgoglio, che non è badate bene la pizza coi fagioli all’uccelletto di due giorni prima, ingurgitata affannosamente con l’ausilio di tanta birra per facilitarne la discesa, ma la necessità di una sferzata, di un nuovo punto di vista, di una evoluzione nella struttura dei pezzi.

Una canzone come Dino nelle mani di un complesso garage del tutto schizzato come i Pink Streets Boys avrebbe raggiunto vette cosmiche di distorsione spaziale orgasmiche, qui invece è puro songwriting, e pure lineare. Ovviamente non si può imputare come errore o sbaglio una scelta di stile (pensavate di avermi colto in fallo, eh?) ma a detta del sottoscritto dopo un po’ la quadratura del cerchio comincia a diventare un po’ troppo spigolosa.

Un album semplice, che si districa in un garage fortemente derivativo da quello californiano, ma che non è per questo revival puro, ma più un ibrido, sostenuto da una ricerca melodica che ne è il motore portante, e che per il sottoscritto non è sinonimo necessariamente di qualità.

Il 23 di questo mese esce il nuovo lavoro di Anna, dall’ascolto di due pezzi in anteprima disponibili su Bandcamp sembra che il cantante/gruppo francese abbia decisamente cambiando sound, trovando un maggiore dinamismo. Vi terrò aggiornati.

The Madcaps – The Madcaps (2015)

Qualcosa mi fa pensare che Syd Barrett, come ripetevo come un cretino in loop cinque anni fa agli amici, e come da tre-quattro anni ripeto su questo blog nei margini del web, sia un’influenza imprescindibile del nuovo garage rock, artista ancora oggi troppo sottovalutato, che con tre album, il primo dei Pink Floyd e i suoi due solisti successivi, ha scolpito sulla pietra il sacro verbo psych come nessuno prima e dopo di lui. Più immediato degli sperimentatori Silver Apples, Red Crayola, Fifty Foot Hose, con un talento innato nel creare melodie complesse ma appetibili (altro che Lennon&McCartney! ecco: l’ho detto, adesso posso chiudere il blog), e dal quale ancora oggi è possibile trarre nuove idee.

Eccoci dunque all’esordio dei Madcaps dopo l’Ep anch’esso omonimo (eeeeeh la creatività!), molto garage più che psych, con il grande difetto dell’essere un revival praticamente puro, senza troppe idee, ma con un songwriting che ancora una volta dopo Anna continua a colpire là dove il nostro cuore batteva prima che scoprissimo le gioie di un rock più impegnato (ma non per questo cervellotico).

Un album nostalgico, la bella Emily Vandelay si presenta con la sua ritmica sixties, la chitarra alla The Nazz, e con forse la stessa capacità della band di Philadelphia di azzeccare prima di tutto il sound e lasciando in secondo piano la musica.

I nomi dei pezzi sanno di ricordi (Haunted House, Melody Maker, 8000 Miles From Home) ma una volta che metti play, con gli occhi umidi e le dita unte, quello che esce fuori dalle casse non sono gli stessi ricordi, sono tutt’altra cosa, e sono anche parecchio noiosi.

Baston – Gesture (2015)

Questo Ep del trio francese sembra un classico album da Burger Records, garage edulcorato dal pop, con forti tensioni psych che stanno lì solo per bellezza.

Anche perché, dopo il tiro magnifico di Maybe I’m Dead, questo Ep non sa di un cazzo. Melodie banali, suoni banali, testi banali (ma di solito non ci faccio caso), cover, quella di Little Honda dei Beach Boys, che è persino più brutta dell’originale, e non era così facile come sembra!

Mi pare strano che la Burger Records, ormai contenitore di quasi tutto il buono della scena garage assieme a tutta la merda che però fa numero (e da la possibilità a questa etichetta di galleggiare), non si sia accaparrata i diritti per il prossimo album di questa band, il classico esempio di come in una scena musicale il 90% della produzione sia musica derivativa e buona solo per riempire lo spazio tra una band e l’altra ad un festival.

Volage – Heart Healing (2014)

Ok, non mi fanno impazzire, però una cosa gli va detta: sanno come si fa un album rock! Un sound decisamente riconoscibile e un certo affiatamento sono le skill di questo “Heart Healing”.

Tra il giocoso, il garage, il weird pop e un songwriting piacevole, senza però scadere nella linearità e nella ripetizione.

Piccola parentesi sul fatto che oggi ho usato la parola songwriting tipo cento volte in tre righe di post: è tutta colpa di Giovanni, un mio collega dell’Università, il mio linguaggio è stato malamente influenzato dalla sua presenza da indie rocker che ascolta gli Arctic Monkeys. Per lui il rock È il songwriting, e non sono in pochi a pensarla così, e se siete di questa parrocchia (a mio avviso perversa e immorale) forse potreste trovare delle cose interessanti in questi Volage.

Il ritmo camaleontico si dipana ad ogni pezzo cercando di confonderci, e mostrando i  muscoli della band. Il piglio punk di Touched By Grace, si trasforma in ballad psych e poi in garage rock in poco più di due minuti, ma senza dimenticarsi la voce e la melodia.

Abbiamo anche una perla mica da poco con i sette minuti e mezzo di Loner, dove l’insegnamento degli ormai sacri/intoccabili Thee Oh Sees arriva anche nella burrosa Francia. Ma invece del profumo di croissant caldi Loner puzza di Fuzz. La chitarra del complesso californiano di Charles Moothart esplode per poi essere addomesticata e spezzata, col cazzo che cascano nel tranello di fare un calderone di cazzate incomprensibili come i Jefferitti’s Nile, i Volage riescono a ricalcare i tòpos della psichedelia senza fare revival ma buttandoci dentro palle e idee. Sicuramente non c’è da urlare al miracolo, non sono riusciti a piegare il genere a loro immagine e somiglianza (come hanno fatto con il garage psichedelico i Pink Street Boys e col new-post-punk i Nun), ma riescono ad esprimersi con l’esperienza di una band scafata da migliaia di festival.

E vogliamo farci scappare il momento Barrett? Ma stavolta dura poco, giusto i primi accordi di 6H15, per poi cambiare, mutare, evolversi senza soluzione di forma. Un po’ come gli australiani Total Control, ma se i TC sono una specie di killer-mix di Ausmuteants e Ultravox, invece i francesini mescolano tutte le influenze della scena garage senza fermarsi un attimo, senza neanche l’ombra di un po’ di auto-referenzialità.

(M’è venuto un coccolone con l’attacco indie-brit pop di Love Is All, echecazzo, eravate andati così bene e poi all’ultimo mi fate ‘sti scherzetti del menga? Dai cazzo: sembrate i Jet di “Shine On”!)

(Ah, sì, caruccio anche il 10’’ uscito due anni fa, più punk e cattivo, magari un giorno lo recensisco.)

Qúetzal Snåkes – Lovely Sort of Death (2014)

Gran bel pezzo di Ep questo dei Qúetzal Snåkes, una delle band che mi convincono di più dell’intero catalogo dell’etichetta parigina, un rock con forti influenze space e shoegaze, le chitarre si districano tra richiami nineties all’hard rock, e dal vivo devono essere deflagranti.

Assieme ai Volage sono anche quelli che dimostrano una forte personalità, per la quale puoi parlare di influenze sixties ma non di revival. Come genere non sono di certo nelle mie corde, anzi: fanno poco casino e sono troppo bravi con i loro strumenti, ma mi ha colpito il sound e la qualità delle composizioni.

Personalmente ho ascoltato due volte questo Ep, e non credo che lo riascolterò mai più, ma penso che questa band meritasse qualcosa in più che una semplice citazione, se vi piace un garage non per forza urlato e con un certa ricercatezza nel suono questo è un ensemble che può fare per voi.


Ci sarebbero altre chicche da scoprire, come il surf rock dei Los Dos Hermanos, il punk pop dei Kaviar che nell’album sembra una roba alla Audacity ma che dal vivo spaccano, il garage pop leggero pseudo-Burger dei Travel Check, i frenetici Mountain Bike dal Belgio, ma forse ne parleremo un’altra volta. Se avete tempo (quella dimensione che a me manca più di quanto a Battiato manchi il suo centro di gravità permanente) e vi sono piaciute le band che vi ho proposto dateci un’ascoltata, chissà che non scatti la scintilla.

Cristo, che chiusa del cazzo.

Muddy Mama Davis – In Vulva

fe3ab4707162913577caab7d39b8cb79

Seguo la pagina Bandcamp della Siamo solo noise Records dal Dicembre 2013, ovvero da quel “SUK Tapes and Sounds from Porta Palazzo” che reputo seminale per una buona parte della scena occulta italiana. Questa etichetta torinese negli ultimi due anni ha pubblicato un po’ di tutto, da album registrati nel cesso alla drone più abrasiva, con una coerenza anti-hipster da applausi e scorregge a scena aperta.

Qualche giorno fa (credo fosse giovedì, ma sembrerebbe che l’alcol non aiuti a orientarsi nei giorni della settimana) hanno messo sul sito uno split che mi ha svegliato dal torpore esistenziale provocatomi dall’ascolto continuativo di garage rock senz’anima.

Leggo «Muddy Mama Davis» e chi cazzo è? Dopo cinque minuti le mie sinapsi umide di bourbon cominciano a saettare del puro piacere, tradotto istantaneamente dai timpani fracassati dai decibel in libertà. Il suo piglio blues è elettrico come quello del Muddy Waters di “Electric Mud”, il suo garage rock è spietato e osceno come quello dei Troggs, questo tipo, questo Muddy Mama Davis, sembra spuntato fuori da una Detroit italiana sotterranea, per carità l’altro rocker con cui divide lo split, tale Tab_Ularasa, spacca di brutto, sia chiaro, però l’avrò ascoltato giusto due o tre volte, niente in confronto alle centinaia di riproduzioni che hanno reso MMD il rocker più odiato dai miei vicini nell’arco di un pomeriggio.

In questo split MMD ci butta dentro tutto il suo EP uscito nel 2013, “In Vulva”, 12 minuti scarsi di pura attitudine punk, senza troppi girigogoli e senza la benché minima autoreferenzialità – messaggio ai garage rocker italiani: solo perché non suoni quella merda degli Stato Sociale non vuol dire che sei Iggy Pop, cristo, smettetevela di tirarvela!

Infatti Vorrei essere un indie rocker va dritta al dannato punto, ovvero lo sfottere tramite La Musica e non tramite Facebook, e senza il bisogno di mandare l’altro a cagare ma definendo la propria diversità rispetto a quell’altro («Vorrei essere un indie rocker/ ma non lo sono»). Questa è attitudine cari miei.

Ok, “In Vulva” sono “solo” 12 minuti, ma vuoi mettere 12 minuti senza sentire qualcuno LAMENTARSI perché questo paese fa schifo o perché la squinzia del piano di sotto non gliela dà? Quanto è eccitante potersi sentire un album con la presenza di almeno una chitarra elettrica senza la continua sottolineatura di quanto uno è punk duro-e-puro?

Ho rotto gli occhiali da sola mastica e digerisce buona parte della produzione garage californiana, ormai edulcorata dal verbo Burger Records, orfana dei loro perversi padri fondatori (Troggs, Kingsmen, Stooges, Sonicsormai rincoglioniti). Lo steso discorso vale per Calogero, ma qui ci si scontra con un garage blues che ricorda la chitarra di Jack White nei primi due album dei White Stripes, il tutto condito da delle liriche piene di giocoso nonsense.

Però in questo breve EP c’è un capolavoro, un pezzo che merita di entrare nella vostra collezione (che sia in CD o digitale fregacazzi) : Corona (la grande fuga).

Per Massimo Recalcati, come spiega a Christian Raimo nel libro-intervista “Patria Senza Padri” (Minimum Fax, 2013), Fabrizio Corona è un maître-à-penser dei nostri tempi, capace di svelare la tensione verso l’eterno godimento dell’italiano medio (rappresentato dai vari Lele Mora, Berlusconi e compagni di zoo vari), e in Corona (la grande fuga) MMD non è poi così lontano da questa interpretazione.

Prima costruisce la fuga di Corona (fra l’altro: geniale la citazione a Ai Se Eu Te Pego! nella bocca del capo della DIGOS portoghese) con una furia garage delirante e surrealistica, infine trasforma le sue fotografie, quei quadri dove l’osceno desiderio di una erezione eterna e la dissolutezza non libertina ma nichilista vengono ritratti senza filtri, in uno degli inni punk più belli di sempre «c’è Simona, la cocaina, Bobo Vieri e i pugni in faccia, i bocchini a Lele Mora mentre Coco va coi trans, Trezeguet con le puttane, Gilardino è omosessuale? a Marazzo piace il cazzo e a Sircana… piace il cazzo»

Niente politica intesa come propaganda, niente riflessioni sulla crisi economica, niente canzoni d’amore tossiche (credo che ne escano dieci al giorno, non è figo, è solo banale, fatti ‘sta spada con la tua donna senza necessariamente tradurla in un 4/4 pseudo-esistenziale, grazie), fare garage è un’arte diretta che fa dell’autenticità il suo unico vessillo. E quel gran cazzone di Muddy Mama Davis ci riesce alla grande.

The Shady Greys – Let her go, Let her go, God bless her

20130914 ipsYlon 026Al primo ascolto credevo fosse uno scherzo. Macché, è tutto vero, hanno pure una pagina bandcamp.

The Shady Greys sono praticamente i White Stripes in salsa olandese. In realtà sono proprio i White Stripes. Uguali. Lui (Marcus Hayes) ha una voce che negli acuti spaventa per la somiglianza con White III, lei (Catherine Coutoux) l’unica differenza con Meg è che non ha quasi mai una batteria, ma i ritmi “ricercati” sono quelli.

C’è solo un piccolo problema, Hayes non è Jack White né mai lo sarà, ovviamente se mettesse sù una cover band con Catherine sarebbero la più verosimile cover band mai esistita, ma è ancora un po’ poco per definirsi dei rocker decenti.

Non fraintendetemi, il sound è quello giusto, certi riff sono davvero piacevoli e tutto il resto, questo “Let her go, Let her go, God bless her” non è da buttare così a piè pari, però non posso fare a meno di chiedermi se Hayes non sia capace di fare qualcos’altro a parte il verso ai primi tre album dei White Stripes?

Cosa dire di Me Me Me? Bel pezzo, se fosse uscito prima del 1997 forse era anche meglio. Lungi da me definire il garage rock di matrice blues anacronistico, ma certi topos se non li rinfreschi un po’ sanno solo di revival. E il revival avrebbe anche rotto i così-detti. Dopo Dirtbombs, Oblivians e White Stripes o ti evolvi o muori.

Ma anche Lightyears non è male, meglio ancora See you like I do, però cacchio è tutta roba già sentita e risentita. Dal vivo fanno anche una porca figura, però un album così mentre a giro c’è la darkgaze o le L.A. Witch mi sembra molto debole.

Questi due olandesi hanno davvero delle grandi potenzialità, è evidente, però sono ancora lontanissimi dal poterle esprimere compiutamente.

Ah, fra l’altro, che cazzo li fate a fare i pezzi da tre o quattro minuti? Due e mezzo e via, belli brevi e assassini, se no perdi anche l’effetto di un buon riff. 

Audacity, The Blind Shake, White Night, Electric Citizen

Quattro succose recensioni in un solo post! Ma è così palese la mia pigrizia? Sigh…

a0453087906_2

I californiani Audacity sono un nome che forse avrete già sentito, infaticabile band presente in più o meno tutti i festival punk-garage e giù di lì, nel 2012 pubblicano il loro primo album dopo due EP mediocri: “Mellow Cruisers”. Tutta energia punk rock, niente sostanza, un album adatto ai lunghi tragitti in auto (anche se con la sua mezz’ora scarsa di durata ci fate al massimo Pontassieve-Firenze), chiaramente siamo di fronte ad un prodotto che è sfizioso finché rimane a 5$, e con la premessa necessaria di una buona dose di euforia in corpo, perché gli Audacity non hanno molto da dare a parte il sudore.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://audacityca.bandcamp.com/

a2526585804_2

Direttamente da Minneapolis nel ridente stato del Minnesota arrivano i The Blind Shake, e qui alziamo un po’ il tiro. Cattivi, garage, incazzati il giusto, magari senza le melodie più orecchiabili degli Audacity ma con qualcosa in più nella sostanza. Figli spirituali dei Rocket From The Crypt di John Reis (con cui hanno anche collaborato) nel loro secondo album, “Key to a False Door”, puntano su un mix bello deciso di garage e sudore, con quelle classiche cavalcate punk alla John Reis per l’appunto, qua e là troverete anche qualche riff memorabile (Le Pasion, Calligraphy, la surf-punk Crawl Out, Garbage on Glue e 555 Fade).

a0573789549_2

Uscito nel maggio scorso “Prophets ov Templum CDXX” dei californiani White Night fa un casino della madonna, non inteso sempre come un aspetto positivo. Fughe pop come Alone sarebbero molto apprezzabili se accompagnate dall’eleganza melodica di un Jeffrey Novak o dalla vena psych dei White Fence, ed invece la caratteristica principale dei White Night è quella di non essere né carne né pesce. Non emozionano, non sperimentano, non fanno sufficiente casino, però suonano discretamente.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://whitenight420.bandcamp.com/album/prophets-ov-templum-cdxx

Electric-Citizen-Sateen-Art

Eppure c’è una band che potrebbe far faville, vengono dall’Ohio, si vestono da satanisti anni ’70, il loro hammond sembra uscito fuori dall’Inferno e sono probabilmente il prospetto hard rock più interessante del panorama contemporaneo. Gli Electric Citizen non hanno ancora pubblicato un cazzo (ma il loro primo album, “Sateen“, dovrebbe uscire il primo Luglio!), ci sono solo due singoli su bandcamp e qualcosina nella giungla dell’internet, ma bastano quei pochi ascolti per capire che la RidingEasy Records le sta azzeccando tutte da un pezzo. Non siamo sulle frequenze doom-blues dei Kadavar, né sul blues-rock dei Blue Pills, questo è hard rock vecchia scuola, Deep Purple e Black Sabbath ne sapevano qualcosa.

  • prima impressione: 7/10
  • link per prenotare ‘sta bellezza: http://ridingeasyrecords.com/product/electric-citizen-sateen-vinyl/

E ora video come se piovesse:

Questa è Burning in Hell, ditemi voi che ne pensate.

Altro riffone dei Electric Citizen registrato probabilmente col culo.

Altro singolo, Light Years Beyond.

Degli allegri Audacity con Subway Girls.

Un po’ di garage con Garbage on Glue dei The Blind Shake.

Shooting Guns – Brotherhood of the Ram

12738

Che l’heavy metal non sia solo Sammy Hagar, Van Halen e i film fanta-porno ci si può arrivare, che dai vestiti fatti di jeans strappati ai lustrini ci sia un passo va altresì bene, ma che ora esista dell’heavy metal in salsa psichedelica forse per qualcuno è anche troppo.

Non che sia una novità, in fondo Iron Butterfly e ancor prima Blue Cheer non erano così lontani dalla psichedelia, ma oggi questa relazioni non è più tale, si è passati alla coppia di fatto e alla comunanza dei beni. Le jam infernali degli Harsh Toke e i riff pesantemente sabbathiani dei Kadavar sono solo la punta dell’iceberg, un genere che non è mai morto in questi giorni sta ri-vivendo per la prima volta.

Che ci siano dei contatti subliminali tra le nuove leve del rock americano e la Psichedelia Occulta italiana forse sono solo io che lo dico, essenzialmente perché è una cretinata pazzesca. Eppure quando sento gli In Zaire o gli Shooting Guns ci sono molte corde in comune che vibrano nel mio inconscio. Come al solito in Italia la forma spesso sovrasta la sostanza, anche se “Sette” de La Piramide Di Sangue prova che si può trovare un equilibrio anche da noi, ma va detto per onestà intellettuale che a ‘sti statunitensi vien proprio naturale. 

Si ritorna con questo album al “no brains inside of me” ripetuto con un falsetto disturbante in Maze Fancier (Thee Oh Sees), siamo alla ricerca musicale di una perdita totale di coscienza, lontana dall’utopia felice degli Acid Test perché rassegnata e insensibile. Siamo negli anni ’10 del 2000, Grateful Dead, Acid Mothers Temple e gli altri figli dei fiori sono un punto di riferimento musicale, ma non concettuale.

Gli Shooting Guns sono canadesi, proprio come i Black Mountain di Stephen McBean, e qualche somiglianza nel sound la si trova senza difficoltà, ma se nei Black Mountain anche i riff più furiosi (Don’t Run Our Hearts Around, Tyrants) restano legati anche concettualmente ai seventies, gli Shooting Guns sono proiettati da tutt’altra parte, verso una nuova angoscia esistenziale (di carattere mondiale, per quanto riguarda la cultura occidentale).

I primi due pezzi di “Brotherhood of the Ram” (2013, RindingEasy Records*) sono potenti quanto introversi. Nella furia doom, stoner e psych si mescolano, sia Real Horse Footage che Motherfucker Never Learn sono pieni di rabbia. Il titolo della seconda è quantomeno esplicativo, da notare però come nessun urlo liberatore si faccia strada, i pezzi sono tutti strumentali in questo album e la mancanza di una voce umana porta ad interiorizzare ancora di più il flusso ipnotico dei riff.

Con Predator II mi sembra quasi di ascoltare qualcosa degli Zombi (il duo space rock Steve Moore e Anthony Paterra da Pittsburgh, ascoltatevi “Spirit Animal” del 2009) ma invece dei gentili sintetizzatori ci piazzano chitarre stoner a manetta, il tutto in salsa space crea un clima epico e dannatamente piacevole. 

Go Blind ha un inizio obiettivamente perfetto. È come se gli Shooting Guns ci invitassero in un altro mondo, uno di quelli belli scuri pieni di tenebre e quant’altro, ma senza la vena spiccatamente tamarra del metal, e senza nemmeno ricercare chissà quale estetica di ‘sta ceppa, naturalmente loro non sono accanto a noi nel cammino, la solitudine durante l’ascolto è totale.

La title track è una bomba assoluta, sebbene dalle prime note mi sentissi a metà tra Mahogany Frog, Pink Floyd e Mike Oldfield, quando la potenza di Brotherhood of the Ram si svela è una botta di adrenalina mica da ridere. 

Sul finale una rumorosissima No Fans chiude le danze, un velo di esoterismo si coglie qua e là, come se tra gli Shooting Guns e Torino non ci fosse un oceano. 

Questo è il secondo album della band canadese, il primo probabilmente lo recensirò dato che qualcos’altro da dire c’è eccome, ma sono sfaticato e quindi me la sbottono qui.

  • Lo Consiglio: a coloro che doom, stoner e metal assieme fanno rizzare i capelli (in senso positivo) ma se ci butti là anche una spruzzata di psych allora sei a posto almeno per un’oretta buona.
  • Lo Sconsiglio: se siete poco avvezzi al metal strumentale e così ripetitivo, ovviamente c’è un senso se un riff viene ripetuto invece che progredire in millemila note, però se non lo cogliete forse questo album vi lascerebbe perplessi e annoiati.
  • Link Utili: cliccate QUI per la pagina Bandcamp di questa folle band, cliccate invece QUI per scaricare gratis questo album (fate come me, donate almeno due lire a ‘sti tipi, ok?), cliccate QUI se volete intripparvi nella home della label canadese degli Shooting Guns. 

*La RindingEasy Records è il distributore dell’album fuori dai confini canadesi mentre l’etichetta di riferimento degli Shooting Guns è la Pre-Rock Records, fra l’altro nome spettacolare a mio avviso.

E ora qualche video:

Live ipnotica dei nostri, il pezzo in questione è Harmonic Steppenwolf, pezzo di apertura del loro primo album “Born To Deal In Magic: 1952​-​1976”.

Live di Motherfucker Never Learn in uno studio di Calgary nell’Alberta.

C’entrano come una capricciosa a merenda accompagnata da del tè caldo, però mi andavano quindi BANG! beccatevi gli Zombi.

 

Harsh Toke – Light Up and Live

81xL9-V3V3L._SL1400_

Credete che i festival come Coachella siano solo per fighette che si bagnano ad ogni uscita degli Arcade Fire? Quando pensate alla California invece delle belle spiagge e delle tette vi vengono in mente feedback lancinanti, molta birra e tante, tante belle tette? Beh in questo caso gli Harsh Toke sono la band che fa per voi.

Capitanati da due skater famosissimi in patria (c’è Justin “Figgy” Figueroa alla chitarra, al basso Richie Belton) gli Harsh Toke non si pongono di certo chissà quali seghe mentali, o rasponi materiali, quando si approcciano al rock, il loro sound è un mix decisamente riuscito di Hawkwind, Blue Cheer, prog classico e jam infernali, non lontani dai riff potenti e decisamente vintage dei Kadavar. Non è un caso se l’etichetta sia la stessa, questa Tee Pee Records, piccola e misconosciuta, ma con qualcosa da dire in mezzo a tutto questo revival ’60-’70 californiano.

Chiaramente parlare di revival per Thee Oh Sees, Ty Segall, White Fence, Kadavar, Blue Pills e via discorrendo è riduttivo (anche se in alcuni casi, come nei Blue Pills, è fin troppo esaustivo), ma non percepire Syd Barrett nei Thee Oh Sees significa esser sordi (mentre ridurli solo a quello significa esser scemi).

Cosa c’è da dire sulle quattro tracce che compongono “Light Up and Live”? Pochissimo.

Da un certo punto di vista la mancanza di un concetto alla base di questi album può far storcere il naso a qualcuno. Perché continuare con viaggi psichedelici nel 2014, sopratutto se privi di importanti novità? Beh, diciamo pure che qualche nota differente gli Harsh Toke ce la mettono in questo album. Intanto la struttura dei brani, fluida, ineluttabile, più che ricercare una perfezione (King Crimson) lascia scorrere le idee, tramortendo. Certamente è fluida anche la struttura di un “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream, come di qualsiasi album degli Acid Mothers Temple, ma i giri di basso ammiccanti ai Black Sabbath, i riff che volano fino a perdersi nella stratosfera (i già citati Hawkwind), la grezzità del suono lontano dal perfezionismo tecnico tipico del prog fanno di “Light Up and Live” un ponte di contatto tra i rimandi agli Spacemen 3 negli Zig Zags e le violente derapate strumentali nei Thee Oh Sees (Lupine Dominus).

Rest in Prince e Weight of the Sun sono unite nella musica, ma la band di Figueroa non ci dà punti fermi o momenti di riflessione, preferisce frastornarci fino all’inverosimile. Ma il vero schiaffo arriva con la title track, dieci minuti che già a metà esplodono con una potenza devastante per poi prolungarsi fottendosene altamente della tensione, delle regole, del buon senso e della fruibilità, ma ha un motivo tutto questo o è della musica semplicemente senza idee?

Il senso c’è, ed è un po’ disperso in tutte le pubblicazione californiane (e quelle in linea col sound californiano) contemporanee, il bisogno di creare un muro che invece di dividere inglobi tutto. L’alienazione degli anni ’60 che si poteva provare negli Acid test (mentre i Grateful Dead stordivano folle di fumati) nasceva con premesse del tutto diverse da quella delle odierne furiose e psichedeliche sessioni di jam degli Harsh Toke, i muri che propongono le band di oggi essenzialmente sono espressione di un menefregismo generazionale devastante.

No brains inside of me, no brains inside of me ripetono con leggerezza i Thee Oh Sees in Maze Fancier, ed è quello che urlano anche Ty Segall, gli Zig Zags e questi Harsh Toke. La leggerezza non passa più dalle canzonette, dalla melodia (facile o complessa che sia), ma dalla alienazione da un mondo allo scatafascio per cause che non riusciamo a capire o che proprio non vogliamo capire, questa generazione, la mia generazione, definita senza valori né cervello né speranze trova la sua perfetta espressione musicale proprio in questo nuovo ambiente californiano. 

In certe declinazioni ci sono molte similitudini nel fenomeno italiano del momento, la Psichedelia Occulta, anche se con certe differenze che mi fanno preferire quest’ultima al rock californiano. La meravigliosa trasposizione del mercato di Porta Palazzo dei La Piramide di Sangue, che dalle impressioni di un album straordinario composto da numerosi artisti come “SUK Tapes and Sounds from Porta Palazzo”, tirano fuori un pezzo per il loro ultimo lavoro come Esoterica Porta Palazzo, dimostrando quanta profondità ci sia in questo movimento di cui molti parlano, ma che nessuno sembra voler criticare in modo più professionale e approfondito. Più simili al sound californiano ci sono gli In Zaire, per esempio.

Vabbè. come la solito perdo il filo del discorso e finisco a parlare d’altro, ci vuole pazienza…

Che dire, vi consiglio questi Harsh Toke, assieme al disco vi consiglio di sorseggiare della buona birra, se siete pigri come me e gli album ve li fate portare a casa allora vi consiglio (e tre) Beerkings per le birre, un sito allucinante che ho conosciuto da poco e che sto amando più della mia ragazza. Ci sono pure i voti e le recensioni delle birre, il che vi fa sembrare molto più raffinati di un drogato qualsiasi.

  • Lo Consiglio: a tutti quelli che “Doremi Fasol Latido” non fa per niente cagare, che adorano le jam infernali con chitarre scordate e la birra artigianale. O anche solo un lattina di Heineken.
  • Lo Sconsiglio: se siete dei progger convinti non è roba per voi, insomma in questo blog i Dream Theater non erano buoni prima e ora fanno schifo, son sempre stati una merda masturbatoria. 
  • Link Utili: cliccate QUI per la pagina Bandcamp degli Harsh Toke con due jam da 21 minuti ciascuna (!), cliccate invece QUI per il sito della Tee Pee Records, se volete godere delle splendide sensazioni di Esoterica Porta Palazzo allora cliccate QUI

E ora qualche video:

una devastante live dei Toke

qui con Lenny Kaye (!!!) che suonano Gloria (!!!)

e infine qualche allucinante lacchezzo con lo skate di Figueroa

 

Zig Zags – Scavenger/Monster Wizard

tumblr_mtdu4qD3Y21qcjtzro1_1280

[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]

Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.

Ho pensato: ci siamo! Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.

Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]

La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).

La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.

Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.

Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.

Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto.
“10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.

Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.

Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.

In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.

Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?

Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.

  • Pro: la miglior band garage contemporanea.
  • Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
  • Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.
  • Voto: 9/10

The Night Marchers – Allez! Allez!

night_marchers

Se conoscete John Reis (Rocket From The Crypt, Drive Like Jehu e tanto altro) allora potreste avvicinarvi ai The Night Marchers con una certa facilità.

Nel caso in sui le suddette band non vi dicessero niente… ma in che pianeta avete vissuto finora?

Dai, scherzi a parte (odio i talebani dell’onniscienza rock, sapere tutto senza capire un cazzo) Rocket e Drive fanno parte dell’ondata alternative degli anni ’90, ma con grosse differenze nel sound, per i Rocket legatissimo al garage e al proto-punk degli anni’60, mentre i Drive sono molto legati all’hardcore.

È chiaro pure ad un sordo che i Night Marchers sono il risultato di queste due esperienze collegate dalla figura del chitarrista cantante della band: John Reis.

Questo è il loro secondo album, ma il primo “See You In Magic” (2008) non l’ho ancora ascoltato, so solo che è stato ben accolto dalla critica (e quando mai). Leggendo qualche rivista mi sono saltati all’occhio di nuovo con il secondo “Allez! Allez!” (2013) e date le recensioni anche stavolta positive mi sono mosso per acquistarlo una settimana fa.

Messo sù la prima volta non mi disse un granché.
Lo ascoltai, lo riascoltai e lo ascoltai ancora, per giorni e giorni.

Mi sa che siamo di fronte ad uno di quei casi dove tra te e il musicista ci sono troppe differenze, una sensibilità magari troppo diversa. Forse, e ci sta, è anche il momento sbagliato. Mi è capitato spesso di approcciarmi ad album che ho amato fin dal primo ascolto per poi rivalutarli anche molto in negativo qualche mese o anno dopo, come mi è capitato altrettanto spesso pure il contrario.

Il problema di “Allez! Allez!” è che è un disco ben suonato e strutturato, ma senza niente da dire (o quantomeno da dirmi)!

L’unione delle due esperienze passate di Reis non è nostalgica, c’è anche da parte sua una rielaborazione consapevole di cosa passa di questi tempi, ma manca l’energia.

Cattivi, ok, ci sono quei due-tre riffoni che te la alzano al primo ascolto (2 Guitars Sing, Big In Germany, Fisting the Fan Base, All Hits) ma manca l’energia infernale del rock.

Il problema che riscontro sempre negli album belli di musicisti che hanno fatto la storia, ma che adolescenti non sono più, è sempre lo stesso: grande controllo, saggezza rock a palate, ma neanche l’ombra di quella forza che ti fa saltare dalla sedia e ti porta in qualche modo a spaccare tutto quello che ti trovi di fronte.

Un esempio di quello che dico è chiaro in Roll On, bel riff, bella evoluzione del pezzo (senza strafare, anzi), registrato come si deve, ma è tutto così controllato da sembrare inevitabilmente posticcio. Già meglio in Fisting the Fan Base (fra l’altro è il pezzo che conclude l’album…).

I The Night Marchers fanno un bel compitino rock, un acquisto per appassionati del garage in tinta alternative e con qualche strizzatina pop come in (Wasting Away in) Javalinaville, ma manca la passione primordiale che lo rende un album da acquisto sicuro.

Lo consiglio solamente a chi ama a dismisura Rocket From The Crypt, Pitchfork e Drive Like Jehu.

Peccato, pensavo meglio.

  • Pro: se vi piacciono le band fin qui citate l’acquisto ve lo consiglio, il sound è quello, e Reis sa bene che corde toccare.
  • Contro: mancano le palle infuocate, la sana rabbia rock.
  • Pezzo consigliato: Loud Dumb and Mean. Spacca abbastanza.
  • Voto: 5/10

Fuzz – Fuzz

FUZZ_AlbumArt

Secondo voi davvero mi sarei fatto sfuggire l’ultimo album di Ty Segall, anche se mascherato da side project?

Solo che più va avanti il californiano e meno parole si trovano per descrivere la sua musica. Invece che raffinarsi il buon Segall sta regredendo alle sembianze di un cavernicolo, andando a ripescare suoni e sensazioni di fine anni ’60 inizi ’70.

Mollata la sindrome post-depressiva di “Sleeper” (2013) e senza ricercare i furori lancinanti di “Slaughterhouse” (2012) questa volta il californiano prende le bacchette e si appropria della batteria sempre con la solita classe che lo compete, suonando come un dannato cane (e ci piace proprio per questo!).

Lasciando che sia Moothart (il bassista normalmente) a prendere le redini della chitarra solista il sound spregevole di Segall vira decisamente sulla psichedelia e l’hard rock. Eh, ma mica quella roba alla Time con White Fence che abbiamo assaporato tra alti e bassi in “Hair” (2012), qua si gioca pesante sul serio.

Le evoluzioni psichedeliche dei Blue Cheer incontrano la lentezza e la mastodonticità dei Black Sabbath, copulando in una bella ammucchiata a tre con gli Hawkwind, poche orette di jam dopo partoriscono i Fuzz.

Che c’è da dire? Riff su riff che si susseguono con micidiale ineluttabilità, Segall pesta sulla batteria come un bambino arrabbiato, Charles Moothart spara migliaia di decibel contro un pubblico attonito, Roland Cosio smanaccia su un basso le cui note non si colgono con precisione, ma le ripercussioni telluriche sono notevoli.

Sminuito dai poveri miscredenti che si stanno menando forte il cambio con esperimenti noise e sull’ultimo disco di Chelsea Wolfe, questo ennesimo atto di terrorismo sonoro perpetuato da Segall è quanto di più rock si possa chiedere ad un essere umano. Non mangerà pipistrelli, ma è pur sempre un figlio del buon Satana.

Stanotte sacrificate i vostri dischi dei Radiohead al caro Satana e al suo figlio primogenito: Ty Segall.

  • Pro: poche cose uscite di recente, a tutto volume, fanno tremare la terra come questo album.
  • Contro: beh, a parte il sound hard, il rock infernale e i riffoni da erezione perpetua, non c’è altro.
  • Pezzo consigliato: Fuzz’s Fourth Dream.
  • Voto: 7,5/10

Franz Ferdinand, Kid Congo and The Pink Monkey Birds, Boards Of Canada, The Dirty Streets

dirty-streets-blades-of-grass-cover1_Fotor_Collage

Ultimamente, ma già da anni in realtà, acquistare dischi originali è diventata una spesa insostenibile.
Personalmente se tutto va bene riesco ad acquistare un album al mese, che non è poi così male perché c’è chi se la passa peggio. Internet aiuta, non solo con il file sharing e i vari peertopeer e lo streaming, ma anche con l’acquisto di album digitali a prezzi estremamente vantaggiosi (parlo chiaramente di band poco conosciute, le altre ti sfondano il culo con la sabbia, dannate rockstar multimiliardarie).

Di recente grazie al ritorno in auge del vinile le mie possibilità di ascoltare tutto quello che passa in giro si sono moltiplicate a dismisura. Non perché costino meno, ma perché posso passare intere giornate dal mio pusher di fiducia a far girare dischi sul piatto senza doverli comprare una volta ascoltati. Mica male, nevvero?

Se escludiamo i Boards of Canada, le altre tre recensioni che seguono sono state possibili grazie a questa pratica, tipica fra l’altro nel gentile mondo del vinile.

Le prime tre recensioni sono tre dischi molto chiacchierati dunque ero davvero curioso di ascoltarli!

Anche stavolta, come nell’unico caso precedente, le recensioni sono moooooolto più corte del solito perché, per quanto mi riguarda, c’è poco da dire.

Franz Ferdinand, “Right Thoughts, Right Words, Right Action: Trovo incomprensibile come si parli ancora di brit-pop. L’invasione, la seconda, è stata qualitativamente assai povera. Il fatto che ci sia ancora gente che crede davvero che gli Oasis siano una buona band non mi sfiora, in fondo c’è chi crede che Fabio Volo sia uno scrittore, che dobbiamo fare? I Ferdinand arrivarono assieme ai Kaiser Chief e i Klaxons, un’invasione di mediocrità salvata da alcune idee interessanti degli ultimi citati. Questo ultimo album prosegue sull’inevitabile discesa della band, cominciata con un pop che strizzava l’occhio a forme prog tascabili, passata con “You Could Have It So Much Better” a sfornare singoli piuttosto appetitosi, e dopo di che il nulla, che ben si conferma con questo ennesimo disco fotocopia (con sempre meno inchiostro). Se vi piacciono può starci, però è un disco terribilmente modesto.

[voto: 4,5/10]

Kid Congo and The Pink Monkey Birds, “Haunted Head”: qui siamo di fronte ad un disco interessante che devo riascoltare con calma. Kid Congo è sinonimo di qualità, è il suono infatti è di qualità, ma lo è anche la musica? Ascoltando “Haunted Head” si rimane affascinati dal gusto dark del garage di Kid, ben studiato, forse troppo. Non c’è la goliardia dei Cramps, o la vivacità di un Return to the Haunted House dei Fleshtones, sembra quasi che l’album si concentri più sull’atmosfera che sul rock, il che sinceramente alla lunga stufa. Il disco comunque va ascoltato essendo una delle proposte più chiacchierate dell’anno (e non da Rolling Stone, tanto per intenderci). Insomma, ditemi un po’ anche voi che ne pensate!

[voto: 5/10]

Boards of Canada, “Tomorrow’s Harvest”: tutti parlano di questo album. Perché? Non ne ho idea in realtà, devo dire che ancora una volta i Boards si confermano tecnicamente (e tutti si stanno facendo i segoni mettendoli in confronto ai Fuck Buttons) però non capisco bene cosa dovrebbero comunicarmi quest’ultimo lavoro. “Leggerezza”, “speranza”, queste sono alcune delle parole utilizzate per descrivere il viaggio musicale accompagnati dai synth dei Boards, però, dannazione, che noia. I nostri sono tempi piuttosto complessi, pieni di tensioni internazionali, disgregazione sociale, la crisi economica, le rivoluzioni, invece per i Boards i problemi sembrano essere altri, anzi: non ne esistono proprio. Questo è un album per viaggiare forse al di là dell’ansia esistenziale del 2013, peccato che se davvero fosse così allora i toni dovrebbero essere più “allegri”, se invece fosse un viaggio più introspettivo un po’ più gravi e meno pop. Sinceramente i Boards of Canada, per quanto mi riguarda, fanno una musica simpaticamente estetica, ma nulla più.

[voto: 6/10]

The Dirty Streets, “Blade Of Grass”: sì! Questo è un buon acquisto! Tranquilli, è la cosa più lontana dal capolavoro che possiate immaginare, però è roba buona, autentica, senza pretese. Vi ricordate quelle fighette degli Answer? Band hard-rock-revival vestita come una cover band dei Deep Purple infighettati oltremodo (praticamente il male)? Bene, questi sono l’opposto, anche se fanno la stessa merda. Però gente, questa è merda di qualità, hard rock anni ’70 fatto bene, pochi cazzi. Undici pezzi a fuoco, nessuna pausa, nessuna melodia melensa (oddio, una in realtà ci sarebbe…), ovviamente se non vi piace il rock auto-referenziale e per fare le pulizie di casa ascoltate i Faust, allora questo album non fa per voi (insomma: uomo avvertito…).

[voto: 6/10]

Una piccola postfazione sul voto.
In alto troverete una pagina “la guida ai voti” dove spiego con che metro giudico gli album, in questo caso però vorrei specificare la diversità delle due sufficienze tra i Boards of Canada e i The Dirty Streets. I primi hanno una buona tecnica, sono musicisti proiettati verso il futuro mentre i Dirty rimembrano ancora con una certa nostalgia quei ’70 andati perduti. Però, come detto nella breve recensione, i Boards sfruttano questa tecnica senza dargli una direzione concettuale, è musica prettamente estetica, che ha poco a che fare con l’argomento principe di questo blog: il rock. I Dirty invece rockeggiano a tutto spiano, peccato che siano fuori tempo.

Due 6, ma con significati e valori piuttosto diversi.

Ipotonix – Storie di un mondo a-parte

522422_213827612074309_2047527778_n

Dopo un mese di balli latino-americani e discoteche all’aperto con folle adoranti il Casto Divo tutti abbiamo bisogno di spurgarci con del sano rock.
O di bestemmiare, dipende dalla sensibilità.

Comunque tra una birra e l’altra ho avuto modo di ascoltare un po’ di roba a giro, tra cui questi Ipotonix.

“Storie di un mondo a-parte” oltre ad essere il titolo del loro primo EP uscito quest’anno è anche il manifesto involontario di un modo di fare rock. Sì perché il rock inteso come comunità in Italia è un po’ un tabù, così è più facile rifugiarsi in un mondo a-parte, un altrove dove i nostri suoni e le nostre passioni si esprimono sorde a tutto quello che ci circonda.

Eppure il rock è emanazione del suo tempo, dei suoi moti, delle sue speranze e anche delle sue focose e futili espressioni sociali. Cazzo, i Velvet Underground rappresentavano una intera comunità underground, gli MC5 addirittura politica, è impossibile scindere i White Stripes da Detroit come è impossibile slegare Nick Cave dalla poesia contemporanea americana.

In Italia questo è più difficile da percepire anche se con le tecnologie di cui oggi disponiamo non è più un alibi. Fin da subito abbiamo scopiazzato le impressioni musicali che ci arrivavano dagli USA attraverso l’Inghilterra (con notevole ritardo), però un minimo di contesto, diocristosantissimo, glielo vogliamo dare?

Gli Ipotonix non fanno eccezione, convergendo in sé molte caratteristiche del brit-pop/rock di ultima generazione (più Radiohead che Klaxons, più Gotye che Franz Ferdinand). Il loro primo EP è composto da impressioni che hanno il valore di essere unite da un sound ben preciso, il quale però non è contestualizzabile (porcodemonio!).

Molti sostengono che l’unicità sia un elemento positivo per l’arte, ma è chiaro che questi “molti” si drogano dalla mattina alla sera di UnoMattina e X-Factor, bevono TG1 a colazione e hanno un poster di Pippo Baudo in topless sopra il letto.

L’opera d’Arte non assume il suo valore specifico nell’unicità (nemmeno come elemento in sé, come ci insegna la Pop-art) ma nel contesto con cui dialoga. Essendo l’Arte comunicazione deve saper comunicare in un linguaggio comprensibile, o quantomeno deve contenere una chiave di lettura che ne permetta la decifrazione.

Il rock è una forma di comunicazione più bassa dell’Arte quindi i suoi elementi di lettura sono molto più limitati, essi in seguito possono anche essere spezzati e creare una diversa idea di rock, la quale però potrebbe potenzialmente rivelarsi in antitesi con il concetto di rock stesso – sì, ora la finisco di farmi le seghe.

Gli Ipotonix in questo senso non fanno rock, ma un riflesso di esso.

Se gli strumenti ci sono tutti e le strutture sono quelle manca però la forza di collante sociale o di rottura che contraddistingue questo genere che vive solo di estremi.

Il Teatro Degli Orrori propone un rock già sentito nel secondo hardcore e quindi ha perso essenzialmente il treno con il momento storico in cui quella musica aveva un motivo preciso per esistere, in pratica è una imitazione di rock.
I Fleshtones, sebbene facessero revival, lo contestualizzavano e finirono per definirsi super rock perché sapevano di aver iconizzato il rock delle origini come nessuno prima di loro aveva mai fatto.

Fare rock non è semplicemente prendere una chitarra in mano, entri all’interno di una comunità che ha una storia breve ma densa di eventi fondamentali. Puoi farne parte (Fleshtones) o anche rinnegarla (il punk) ma non puoi esprimerti a-parte, perché se no non riuscirai mai a comunicare quello che credi sia importante che gli altri ascoltino.

Ovviamente se vivessimo in un mondo dove la gente non compra quello che le major impongono sarebbe meglio, ma questo non fa che nobilitare ancora di più chi fa rock davvero, senza compromessi.

Ah, già, gli Ipotonix, la recensione, eccetera eccetera, come sono sbadato, se continuo così entro la fine dell’articolo sarò cieco.

1208575_10201955534916726_446441857_n

Guidati dalla voce e dal sintetizzatore di Davide Orsi gli Ipotonix si muovo attorno ai Radiohead e ad impressioni che derivano perlopiù dal soft rock britannico degli anni ’70. Il sound a tratti ci appare in effetti un po’ ammuffito ma non così tanto da farci desiderare delle scimmie di mare per natale, il synth spazia sfiorando momenti jazz quasi alla Sun Araw o quasi industrial alla Fuck Buttons (senza ovviamente la loro vena dark e noise), peccato che con i “quasi” non si combina poi molto.

L’EP si apre con il ritmo serrato ci City Line – Primo incontro, uno strumentale che rivisita le atmosfere del primo Mike Oldfield. Una traccia che, va detto, è piuttosto notevole per una prima demo.

Segue Reazione Chimica, un pezzo che D.Orsi ha perfezionato nel corso degli anni, qui entra in gioco la voce ma sopratutto il sax di Marco Marotta, il sound complessivo risulta come una specie di inedito brit-pop-jazz.

Supertramp non ha nulla della famosa band inglese, una accozzaglia di idee appiccicate una dopo l’altra dalle quali si esce piuttosto storditi. Il momento più basso dell’EP.

Naturale Coscienza di Sè sembra una cover dei Radiohead col sax.

Si riprende con City Line – Secondo incontro, e della prima parte resta solo il sound perché le atmosfere si fanno più scure, richiamando ai momenti più felici di Moroder; un taglio a tratti epico, poi manierista ma senza masturbazione. City Line in realtà nasce come un pezzo unico, ma questa divisione ne accentua i cambi di tono e i diversi mood, in assoluto i due pezzi pregiati dell’EP.

Si conclude con una cover: Missing Pieces di Jack White. Stentano quasi tutti in realtà, ma le sferzate garage della chitarra di Giuseppe Taormina valgono il prezzo dell’EP (e ricordano i wall of sound dei Thee American Revolution).

Cosa ci rimane alla fine dell’ascolto?
Buona musica (City Line), buone idee (Reazione Chimica), un po’ di confusione dovuta all’inesperienza (Supertramp) ma manca l’anima, la forza sciamanica che ti fa alzare dalla sedia completamente posseduto dal demone del rock, che ti fa spaccare sedie e desiderare che ci sia ancora altra birra in frigo.

È anche vero che con queste basi si mescolasse anche un po’ di sano rock allora… beh, allora sarebbero cazzi.

  • Pro: per essere una band nata da così poco hanno già un bel affiatamento.
  • Contro: ma che genere è? Non saprei proprio a chi consigliarlo!
  • Pezzo consigliato: le due City Line sono un lusso per questo EP, che senza sarebbe stato anche da 3,5/10.
  • Voto: 5,5/10

Ultime considerazioni:
mi sembra dovuto, almeno per onestà intellettuale, farvi partecipi della mia microscopica partecipazione alla realizzazione di questo EP, avendone curato una sorta di “post-produzione” (per la quale, difatti, compaio nei ringraziamenti). Ovviamente ciò non ha in alcun modo interferito con la recensione, tanto che a Davide ne ho mandata una diversa, mentre qui ne pubblico un’altra. Che fottuto bastardo, eh?

Ty Segall – Sleeper

ty-segall-2

Sono di quelli che ama il fatto che la musica sia così varia da trovar appassionati a qualunque sua declinazione.

Non mi stanno sulle palle i fan di macchiette come i Tokyo Hotel, tanto meno quelli che hanno la fissa per David Bowie, quelli che amano solo la techno, quelli che si masturbano sulla dub-step o che credono che il rock inizi e finisca con i Led Zeppelin. La musica ha il potere di unire tutti, cazzo, perché pestarci i piedi a vicenda? C’è spazio per tutti.

Però odio i detentori dell’assolutismo nel rock.
Il rock è una creatura semplice, senza pretese di alcun genere, semplice da suonare come da capire. Tutte quelle variazioni che essenzialmente vengono meno alla sua idea di autenticità, democrazia del linguaggio e forte empatia per me sono interessanti, ma non sono rock. Sono un purista di merda, pazienza, come dicevo prima: c’è spazio per tutti in questo Fango che ci ostiniamo a chiamare Terra.

Vedete, è inutile riempire le pagine di critica musicale (parlo ovviamente a quei giornali che dovrebbero trattare di rock) con le menate dei Fuck Buttons, o sul secondo album di David Lynch, o sull’ennesima prova da maestro di Roy Harper, ogni album merita almeno un 6 perché ci sono delle dannate chitarre elettriche o perché ha qualche stupida pretesa intellettuale che oggi va tanto di moda.

I The Litter non ne avevano di pretese e restano molto fighi, stesso per i Sonics, gli Stooges, insomma tutte quelle band che hanno fatto rock con l’anima e una mano sul cazzo, quel rock che ti fa sentire vivo. Chi più chi meno.

Ty Segall dopo cinquemila dischi, trenta band e otto miliardi di concerti si è capito essere un rocker che fa parte di questo bel imprinting, un sano garage con vampate di portentosi feedback come mai si erano percepiti da un dannato pezzo di plastica nero su un piatto girevole.

Se il mondo girasse per il verso giusto i suoi album sarebbero attesi da molta più gente di quella che aspetta la nuova cagata dagli spompati Franz Ferdinand, o addirittura la nuova fatica dei Travis!

Dopo un anno dove il rumore ha fatto da padrone (“Slaughterhouse”) e si è perfezionato come purezza del suono e nella composizione (“Twins”) Segall cambia tono. Succede quando ti muore un genitore, un padre, che la vita per attimo cambi di tono.

Il resto dei musicisti rock di grido si dividono tra indifferenza totale e menate intellettualoidi. Segall semplicemente cambia tono, resta il sound (anche se acustico e non elettrico), resta l’acido e il garage da borghese impigrito, ma ci fa percepire quel cambiamento così intimo senza lagnarsi per sessanta minuti su quanto la vita faccia cagare. Si chiama rock, comunque.

TySegall_AlbumArt_Sleeper

Sleeper” non vale un laccio delle mie scarpe, non è un capolavoro, probabilmente avrete seicento dischi migliori di questo in casa, ma le dieci tracce di questo album sono di un rock autentico, uno che così oggi lo fa solo lui e pochi altri prescelti.

Ovviamente siamo lontani da album come “The Sun Dogs” dei Rose Windows, forse uno dei capolavori usciti quest’anno, ma nemmeno un “Here Come The Sonics!!!” è un capolavoro, eppure è il mio album rock preferito, come la mettiamo? Fare un buon rock non significa mai fare per forza della musica di un certo livello, significa semplicemente aderire a quei principi di autenticità, democrazia del linguaggio e empatia. È così semplice che ogni anno usciranno sì e no cinque album che rispettano a pieno questi principi, ma per me sono davvero ROCK.

Anche stavolta Segall va a segno, un suono acido ci accompagna per tutto l’album, sferzate acustiche semplici ma potenti, litanie garage di pregiatissima fattura (quello che mi aspettavo da “MCII” di Cronin, che sebbene lustrato a lucido dai critici sordi fa cagare oltre ogni diritto di replica) dieci melodie perfette, un cazzo di piccolo fabbricante di pillole musicali micidiali, un tale orecchio malato è solo da acclamare onestamente.

Sì, non fa lunghe suite da dieci ore, non parla di Bush, non ha violoncelli, sitar o clavicembali, fa solo delle dannate canzoni da tre minuti ciascuna, adesso che pure in Italia ci sono band di spessore (La Piramide Di Sangue, Squadra Omega, In Zaire e via dicendo) un disco così può sembrare banale come l’ennesimo album inutile dei Gogol Bordello, ma qui c’è roba autentica, roba suonata con una passione palpabile che le band da classifica si sognano la notte.

Se il rock è la vostra ragione di vita non potete non avere tutti gli album di questo idiota californiano. Insieme a quelli dei Thee Oh Sees, se possibile.

E sì, la recensione è corta, perché di fronte ad album così c’è solo da stapparsi una birra assieme a qualche amico, farsi due risate e chiacchierandoci sopra, niente cervello, nessuna pretesa, solo del semplice e mai innocuo rock.

  • Pro: se non lo avete capito dopo tutto quello che ho scritto…
  • Contro: preferisco il Segall che mi prende a schiaffi a suon di feedback lancinanti registrati probabilmente in cucina mentre frulla delle viti d’acciaio. Ma tanto tra due mesi questo mette su una band e lo fa davvero.
  • Pezzo consigliato: Sleeper.
  • Voto: 6,5/10

Daft Punk – Random Access Memories

obsession_wallpaper_cutup

“Random Access Memories” (che d’ora in poi sarà RAM, giustamente) non è una cagata.

Allo stesso tempo però non è il fottuto capolavoro dell’anno o stronzate simili. Quello che fanno in questo disco i Daft Punk è semplicemente un divertissement, consapevoli purtroppo di non avere null’altro da dire a noi esseri umani del 2013.

Il duo francese per eccellenza ha segnato profondamente quel tipo di rock che voleva fare funk senza sembrare la cover band degli Earth, Wind & Fire. L’idea di inserire l’elettronica è vincente quanto banale. In Francia, come anche nella vicina Germania, l’uso di strumentazione elettronica nel rock comincerà prestissimo, dalla musica colta di Klaus Schulze fino alle impressioni più appetibili di Jean-Michel Jarre l’elettronica è stata, volente o meno, una emanazione del rock. I primi ad intuire la forma-canzone del rock elettronico furono i tedeschi Kraftwerk, band ormai leggendaria il cui sound non è invecchiato al contrario delle loro idee.

Se per i Kraftwerk la musica elettronica era imporre la macchina sull’uomo (roba che forse poteva apparire come una novità ai tempi di Fritz Lang e Méliès) per i moderni Daft Punk l’elettronica era un linguaggio alla stregua del rock, che si immergesse nelle sonorità di Donna Summer o dei Clash non importava, coglievano tutte le sfumature di ciò che gli piaceva attorno a loro e le rivisitavano come più gli aggradava, suonandolo come una rock-band.

Con “Discovery”, nel 2001, e la sua versione filmica con “Interstella 5555” (animazioni del divino Matsumoto) chi poteva immaginare che i Daft Punk fossero già a metà carriera? Fu letteralmente un fulmine a ciel sereno questa “band”, solamente 3 album in otto anni, valorizzati con dei remix successivi, eppure per vendere vendevano, evidentemente la loro musica non è poi così scontata come appare!

In realtà la portata di questo duo è stata limitata come la sua discografia: se da una parte impressionò l’inconscio di chi li ascoltava, con il funky, l’r&b e un’elettronica così accessibile a tutti, va detto che la musica non ha seguito il corso dei Daft Punk, è altresì vero che hanno ritrovato in tempi recenti degli emuli nei Justice (anche se con “Audio, Video, Disco” hanno rivolto i loro interessi al prog spicciolo e basilare) ma a parte questi altri due francesi la formula dei Daft raramente è stata re-interpretata, per quanto siano stimatissimi dai colleghi e amati da una folta e agguerrita schiera di fan.

Ma cos’è RAM?

4e6c6fb2

RAM, semplicemente, sono i Daft Punk di sempre, solo invecchiati.

Non è una malattia, succede a tutti, non si può evitare. È normale la scarsità di idee originali dopo una certa età (non vecchi-vecchi, ma già dopo i quaranta, fatto salvo pochissime eccezioni, particolarmente quando si parla di rock: un genere energico, rabbioso dove la gioventù è un fattore vincolante).

Quest’ultimo album dei Daft è un ritorno ai primi amori, George Clinton, Moroder, tutta la disco music e cazzi e mazzi. Cristo se suonano vecchi i Daft Punk!

Il riff caldo e suadente di Lose Yourself to Dance, assieme a quella chiavica di Pharrell (il quale vorrebbe palesemente essere Jamiroquai, poverino) che fuori dai N*E*R*D non splende, ci fa capire tutto. I Daft si riciclano e riciclano i loro miti, non c’è una fottuta cosa originale in questo album. Il quale però suona abbastanza da Dio.

Assai ispirati certamente i nove minuti di Giorgio by Moroder (già mitologizzati nella rete, ma senza un motivo valido, è un’idea carina cazzo, basta così), impagabile quando la musica si ferma per farci soffermare su questa frase del buon Giorgio:

My name is Giovanni Giorgio, but everybody calls me Giorgio

per poi riprendere con un ritmo tamarro ma riposato. Mi ha fatto sentire bene. Il resto del pezzo lo si dimentica in fretta.

Devo dire che a parte la song che apre le danze, Give Life Back to Music, l’album sembra comporsi da tracce impersonali, che scorrono giù benissimo, così bene che non ti accorgi che il disco è finito e stai dormendo scomposto sulla sedia, sbavandoti addosso come un ebete.

Si salva il finale della Giorgio citata prima, il ritmo di Instant Crush (collaborazione infima, preferisco non fare nomi per  non eccedere negli insulti), la verve di Motherboard (piacevole e anche inaspettata) e la chiara mancanza di idee (però rumorose come mancanze) di Contact.

Un disco dannatamente piatto, adatto per imbroccare una ragazza sulla quarantina.

Però con questo non voglio tacciarlo di merda, di quella ne abbiamo tanta sul mercato, questo invece è un disco dignitoso e piacevole, peccato che suoni tragicamente vecchio.

  • Pro: un funky gradevole.
  • Contro: è più movimentata 4’33’’.
  • Pezzo consigliato: Giorgio by Moroder è divertente, vivace e ha un climax ben costruito. L’unica pecca è, che come tutto il resto dell’album, suoni come una creatura ben pensata, ben assemblata, ma senz’anima.
  • voto: 5/10

David Bowie, Iggy Pop, Deep Purple, Eric Burdon

101716_NpAdvHover_Fotor_Collage È la dannata stagione degli zombi, centinaia di band del passato, rinvigorite dal dio denaro e da internet, tornano a sfornare dischi che si ostinano ad intasare il mio cesso.

Il fatto che ad una certa età si possano ancora fare dischi piacevoli non è qui messa in discussione. Infatti finché sento dire che “On An Island” (2006) di David Gilmour è ascoltabile, se non addirittura carino, e che “Mighty ReArranger” (2005) di Robert Plant e la sua band dal vivo renda abbastanza bene, sto tranquillo, sto sereno. Ma appena qualche idiota in qualche rivista patinata comincia a vomitare cose come “il miglior disco dei Pink Floyd dai tempi di The Wall” o anche “come, o forse meglio di Physical Graffiti” io mi incazzo come una scimmia.

Ma poi il problema non è tanto il mio, che c’ho pochi soldini e li spendo perché sono stato ammaliato da un critico stronzo che legge i nomi in cover e poi dà il voto senza ascoltare l’album, il problema vero sono proprio quei deficienti che comprano questi dischi e sono d’accordo con il critico! A me non piace dare giudizi assoluti, preferisco insultare l’artista piuttosto che l’ascoltatore, perché ognuno è libero di comprare e amare qualsiasi musica. Ci mancherebbe altro, cazzo. Ma quando si parla di band come i Deep Purple, per l’amor del cielo, si potranno prendere in considerazione gli album precedenti e la storia del fottuto rock, oppure no? Forse dobbiamo metterci a novanta e dire “dai però, Bananas comunque è suonato molto bene” bella figa, allora inizio a comprarmi tutti i dischi di Steve Vai e Joe Satriani così sono a posto con l’anima. Peccato che a me della masturbazione sia venuta a noia qualche anno fa, ora mi piace il Rock.

Tutto questo per dire: non basta il nome, anche la musica, la storia e il contesto sono argomenti che dovrebbero far parte di ogni buona critica a qualsiasi forma artistica. Non tutto quello che ha fatto Leonardo Da Vinci è perfetto, non tutto quello che caga Lou Reed è musica raffinatissima. E così, invece che tediarvi con le mie solite lunghe e laboriose recensioni, stavolta vi butto là qualche impressione di questo genere di album usciti nel 2013, anche perché non meritano un minuto in più del mio tempo.

David Bowie, “The Next Day”: un disco ben costruito da ottimi ingegneri del suono, ben mixato e… basta. Bowie non si spreca nel vendersi come il solito camaleonte, peccato che questo valga per le prime tre tracce, dopo di ché non gli riesce neanche il solito trasformismo e comincia a riciclarsi violentemente. Docet Valentine’s Day, una ballad ammuffita con quel sound così Bowie, ma che per il quale esistono album molto più vecchi e validi. Cosa me ne faccio di “The Next Day”? Di certo Bowie non ha mai spiccato per doti compositive, le cose migliori sono uscite grazie a collaborazioni importanti (Brian Eno e Robert Fripp fra tutti), e questo album lo conferma. If You Can See Me che roba sarebbe? Musica scritta a tavolino, senza anima né idee.

[voto: 4/10]

Iggy and The Stooges, “Ready To Die”: credo sia una presa per il culo. O almeno suona proprio così. È inutile buttare lì miti assoluti come Mike Watt, potevano metterci anche Kermit la Rana, il disco continuerebbe a suonare come la cover band degli Stooges, senza rabbia, violenza, potenza, è più significativa la colonna sonora del film di Spongebob! Di certo la rabbia è un sentimento che mi pervade mentre ascolto questo aborto fatto album, un’inutile sequela di cliché suonati non tanto come se fossero “pronti per morire”, ma piuttosto: “pronti per rapinarvi con un nuovo tour mondiale”. Neanche da ubriaco riuscirei a trovare una giustificazione plausibile per cotanto acquisto.

[voto: 3/10]

Eric Burdon, “‘Til Your River Runs Dry”: per quanto la voce del buon vecchio Burdon sia sempre apprezzata dalle mie casse questo album poteva farselo scrivere da qualcuno che ci capiva qualcosa di musica. Brutto e triste rimescolare le carte di quanto già sentito nella sua monotona carriera solista, pezzi come Devil And Jesus forse possono accontentare vecchi cinquantenni che si lamentano perché “i Clash sono punk quindi fanno cagare” o che “una volta qui era tutta campagna” ma personalmente mi aspetto sempre qualcosa di più, non so perché, sarà irrazionale, però è così, sarà perché ho pochi soldi e non mi piace spenderli in dischi così palesemente inadeguati.

[voto: 3/10]

Deep Purple, “Now What?!”: dai cazzo no! No, no, no, no, no, rifiuto di sentirmi dire da esseri razionali che questo è un buon album, addirittura al di sopra della sufficienza! “Now What?!” dovrebbe essere ritirato dai negozi per salvaguardare la pubblica decenza, ascoltare Vincent Price mi ha quasi ucciso, le orecchie sanguinavano e non riuscivo a fermare le lacrime. Questa non è la cover band dei Deep Purple, questa è la band-parodia dei Deep Purple! Chi ritiene questo album decente non può che ignorare tutta la discografia della band, non ci sono cazzi, oppure non capisce una mazza di rock. Rifiuto a piè pari qualsiasi altra spiegazione, e non mi interessa sentire alcuna difesa a favore di questo scempio assoluto. Se poi le considerazioni sono del tono “però è meglio di Rapture Of The Deep” allora cago mattoni seduta stante. Cazzo, meglio di “Rapture Of The Deep”, allora il Tristan und Isolde di Wagner sembrerà “Glitter” di Gary Glitter. Ma vaffanculo!

[voto: 1/10]

Montauk – Montauk

cropped-montauk_logo_web3

L’Italia è sempre stata un po’ il fanalino di coda del rock (assieme a molti altri paesi occidentali) qualche soddisfazione siamo riusciti a prendercela nei mitici ’70, ma poi siamo scomparsi di nuovo.

Di band da ascoltare a giro per fortuna ce ne sono, anche se raramente riescono a stare al passo delle corrispettive band americane e inglesi.

I Montauk sono un gruppo giovane che sta muovendo i suoi passi nel terreno del post-core e dell’indie, terreni abbastanza fertili in Italia di questi tempi. Diciamo che puntare su tematiche melanconiche e depressive in questi giorni è un po’ da una parte ”vincere facile” e dall’altra rispecchiare fedelmente lo stato d’animo dei giovani.

La band mi ha spedito l’album un paio di giorni fa, è arrivato stamani stupendomi alquanto. Non tanto per la prontezza delle Poste, ma per la presentazione del disco stesso.

Dentro un cartoncino, tenuto fragilmente da un’elastico, c’è il cd e una specie di “manifesto” d’intenti, più una montagna di disegni di fumettisti e illustratori in linea con il Montauk pensiero.

I disegni, rigorosamente in bianco e nero, riprendono stilemi del fumetto della grafica contemporanea, qualcosa di simile si è già visto in “Requiem” dei Verdena se non ricordo male, dietro i disegni ci sono pure delle citazioni dai testi delle canzoni.

‘Na presentazione di nulla!

Nel manifesto degli intenti la band definisce la sua musica “post-core-slo-core, indie-punk” e cantautoriale, il che secondo me sintetizza bene il disco in sé, ma è quasi più una dichiarazione di limiti che di intenti, comunque ora ne parliamo meglio.

Dice, il foglietto, che loro non sono né gli Hüsker Dü né i Fugazi, e dice giusto assai. I Montauk non hanno la velocità degli Hüsker (e quelli andavano forte per davvero), non hanno la vena politica dei Fugazi e la loro musica scarna e sanguigna, in sostanza c’entrano poco e niente con queste due leggendarie band.

La musica dei Montauk parla ai giovani, suona come uno stralcio preso da un racconto di Ammanniti, senza però la sua psichedelica progressione verso un’infausta (e inevitabile) conclusione, il discorso della band libra in aria fendendo colpi qua e là, rievocando sensazioni e angosce senza però dargli mai una direzione precisa.

Le idee alla band non mancano, come anche la capacità tecnica. Il disco è definito lo-fi, ma non è proprio un lo-fi tipo. Insomma, non suona di certo come “Slaughterhouse” di Segall o “Rubber Factory” dei Black Keys, suona più come un disco degli Zen Circus, una via di mezzo in pratica.

Comunque prima di trarre delle conclusioni andiamo all’ascolto.

DSC00924

Io, il pezzo che ci introduce in questo album cortino (dai, è un EP) comincia bene. Vada per il post-core, ma diciamo un post-core piuttosto rigido. Non c’è la veemenza degli Hüsker, ma nemmeno dei And You Will Know Us By The Trail Of Dead, piuttosto si lascia spazio ad una monocromia indie come negli The Underground Youth, senza salite o discese troppo rapide.

Come Fossi Il Tuo Cane conferma quanto detto e rimanda alle sonorità dei Teatro Degli Orrori, band molto apprezzata dal pubblico italiano in questi ultimi anni. Speravo in una citazione degli Stooges in tutto e per tutto, ma già il testo “vorrei che tu mi accarezzassi come fossi il tuo cane” – che ha qualche ricordo di I Wanna Be Your Dog, suona però come una sorta di sconfitta, mentre il latrare di Iggy era intriso di un fuoco che qui manca.

Il pezzo successivo, Il Bruco, è pervaso da un nichilismo adolescenziale che fa tanto indie. Mi piace la frase “e sceglierò il silenzio” perché rappresenta bene l’angoscia tipica di questo genere, ovviamente è un ossimoro che nobilita il tentativo di dire qualcosa dei Montauk. Peccato che la struttura compositiva cominci a sembrare un po’ ripetitiva.

Song No Tomorrow butta là qualche sprazzo di new wave, c’è un po’ più di energia e c’è molto potenziale; “la rabbia è una religione” ripetono ad un certo punto, non potrei essere più d’accordo, ma aggiungo che non è ancora la vostra parrocchia, le strutture sono troppo rigide e i suoni troppo calibrati, la rabbia c’è ma non trova ancora un’espressione adeguata. Il Mondo, il pezzo dopo, non aggiunge nulla di importante.

Con Da Quando Non Siamo Più la band comincia a tirare fuori le palle, e io apprezzo molto. Il pezzo credo parli di una coppia che si è divisa, in realtà ci capisco poco grazie ad un sistema di amplificazione da rivedere (il mio), ma frasi come “resto qui a cercare un pezzetto di te nei pantaloni” sono quanto di più post-core si sia finora sentito.
Inoltre la canzone propone una struttura decisamente più elastica, passando dalla velocità alla riflessione con un certo stile, peccato che sul finale il cantante tiri fuori questo:
“la mia vita ha il senso di un sapore
è un piatto di carne a base di interiora
la violenza della cucina tradizionale
le mosche mi fanno una corona di compagnia con al loro ronzante allegria”
Eh? Boh, però il finale mi è piaciuto un casino.

In Nessuno Partirà non manca il brio, ma quattro minuti francamente mi paiono tantini per un pezzo senza troppe sorprese.

Il disco si conclude con Piove, la traccia si distacca dalle altre per la presenza di una lunga introduzione fatta di impressioni sonore piuttosto semplici, c’è molta melanconia che sfocia in una sensazione di solitudine forzata mischiata a misantropia, che fa (ancora una volta) tanto indie.

Che dire?
La band ha idee, ha capacità, ha anche un sound abbastanza personale, che manca? Manca innanzi tutto il carisma di band come Il Teatro Degli Orrori o degli Zen Circus, e per paragonarli ad altre band ancora ai margini manca per esempio un po’ di coraggio alla Gli Ebrei.

Comunque ci sono le basi per qualcosa di potenzialmente interessante.

  • Pro: bel sound, un disco suonato bene e che non ha bisogno di virtuosismi per piacere.
  • Contro: sa di poco, dopo le prime due tracce il resto appare scontato.
  • Pezzo Consigliato: Da Quando Non Siamo Più ha anche una spinta in più.
  • Voto: 5,5/10