Non è una guida esaustiva, non è neanche un’introduzione, è giusto un mettere l’accento su delle declinazioni del garage e delle sue potenzialità espresse nel corso dei decenni.
Archivi tag: anni ’60
La più grande rock band di tutti i tempi

Perché quando si parla della più grande rock band di tutti i tempi spesso stiamo parlando dei Beatles? Se dovessi rispondere a freddo a questa domanda, e non riesco ad immaginarmi nessun motivo per cui dovrei farlo, risponderei con l’incredibile successo planetario della band, la “beatlesmania”, un tale culto che pochissimi artisti della storia della musica possono vantare, personalità del calibro di Elvis, Michael Jackson, Madonna, Jay-Z, Frank Sinatra, Whitney Houston, Kanye West, e chiunque abbia dominato per anni le varie classifiche di Billboard e sia stato determinante per la cultura pop per di più di una generazione. Ma i Beatles possiedono, almeno nell’immaginario collettivo, una marcia in più in confronto agli artisti che ho appena elencato, ma perché? Erano forse più bravi tecnicamente? Possedevano più estro, più creatività? Hanno saputo gestire meglio la propria immagine negli anni?
Ovviamente è una questione di lana caprina, già solo decretare una band come “la più grande” è un esercizio adolescenziale, senza nessuno scopo critico. Però quest’aura di leggenda attorno ai Fab Four non produce solamente compilation a palate e biopic di bassa qualità, ma anche una peculiare distorsione di un periodo storico complesso per la musica rock, una vera e propria rinascita salutata però come un’assoluta novità.
I Beatles compaiono sulla scena quando della musica rock ormai non restavano che le ceneri. Il rock and roll anni ’50 era morto in un’incidente aereo, c’erano giusto Elvis e Roy Orbison a tenere botta in classifica, il primo fra l’altro con grande difficoltà a raggiungere le vette che fino al ’62 gli appartenevano di diritto. I generi che vanno forte in radio sono il musical e le colonne sonore per film (proprio tra il ’60 e il ’64 queste avranno una grandissima influenza sulla musica pop inglese). Sotto questo primo strato che oggi definiremmo come il “mainstream”, comparivano in classifica i dischi jazz di Charles Mingus, John Coltrane, Thelonious Monk e Dexter Gordon. Ancora oggi la tra le voci ritenute più iconiche di quel periodo c’era Sam Cooke, artista vicino ai movimenti per i diritti civili dei neri, probabilmente ucciso a soli 33 anni, uno scandalo assurdo che rimane a tutt’oggi insoluto e politicamente rilevante, così come la sua influenza sulla musica soul e il rithmin ’n’ blues. Parlando di artisti seminali un album piuttosto significativo di quella stagione fu l’esplosivo “Live at Apollo” del mai abbastanza compianto James Brown, mentre dal Greenwich Village di New York si alzavano i venti del folk di protesta, una brezza fredda immortalata dalla celebre foto di Suze Rotolo per la cover di “The Freewheelin’ Bob Dylan”.
E il rock? Non potevano certamente solo esserci Elvis e Roy Orbison, giusto? Per quanto Elvis ancora c’avesse un bel pelvis e Orbison ci abbia regalato a posteriori alcuni momenti indimenticabili nella filmografia di David Lynch, ciò non toglie che sia un po’ pochino anche per un genere che era dato per morto dal 1959.
In verità buona parte della produzione rock di quegli anni era fuori dalle classifiche, in un luogo che oggi definiremmo “underground”. A parte le band che derivavano il proprio sound da Buddy Holly e i suoi Crickets o dai complessi vocali alla The Clovers o in stile The Ronettes (il cui spazio sonoro diventava sempre più saturo a causa di un certo Phil Spector), e a parte i vari Lightnin’ Hopkins e John Lee Hooker alla ricerca di una rinascita della scena blues dei fifties sempre più improntata al R&B (Boom Boom è del 1962), l’urgenza espressiva della gioventù irruente di quegli anni si sfogava nel rock strumentale. La comparsa del rock strumentale avvenne in concomitanza con la cultura surf giovanile statunitense, e difatti gran parte della produzione rock tra il ’60 e il ’64 (l’anno di “Meet The Beatles!”) viene spesso criminalmente sintetizzata nella sola espressione «surf rock». Fu questo in realtà un periodo di grandissima sperimentazione e contaminazione dei linguaggi, come tutti i passaggi generazionali che si rispettino, in cui l’abbandono delle forme corali portò ad un approfondimento degli aspetti elettrici ed elettronici della musica rock. Virtuosismo e avanzamento tecnologico andavano di pari passo, tra i gruppi che riuscirono a scalare le classifiche attraverso questo curioso binomio vale la pena ricordare lo scontro fino all’ultima hit tra Ventures, Shadows, Dick Dale, Trashmen, Challengers, Pyramids e Surfaris.
Il rock strumentale e tutto ciò che gli gravitava attorno, nasceva come un genere esclusivamente indirizzato per gli adolescenti, con un piglio molto indipendente e di forte rottura con i valori rappresentati da Bill Haley e i suoi Comets quando suonavano Rock Around the Clock nel leggendario “Blackboard Jungle” di Richard Brooks, regalandogli un successo inaspettato. Non era un rock inclusivo certamente, si erano persa la centralità delle ballad zuccherine in favore della demenza, del ludibrio, della satira sprezzante, spesso le canzoni culminavano in assoli eccessivi oppure in assurde digressioni elettroniche d’avanguardia, tutti elementi che rendevano questa musica difficile da vendere fuori dalla sua bolla, ma l’enorme successo che ebbe nella controcultura americana fece sì che tutti i generi strumentali conoscessero una fortuna notevole in un lasso di tempo piuttosto breve. L’apice commerciale arrivò nel 1962, l’anno di Telstar dei The Tornados, il primo vero successo britannico nella patria del rock and roll, prova concreta del fatto che l’estetica strumentale avrebbe potuto facilmente emanciparsi dalla cultura surf, se ne avesse avuto il tempo. Ma non è così che prosegue la nostra storia, giusto?
It’s time to meet the Beatles
È certo possibile godere dei fiori nella loro forma colorata e nella loro delicata fragranza senza conoscere nulla delle piante sul piano della teoria. Ma chi si propone di comprendere il fiorire delle piante è tenuto a scoprire le interazioni tra suolo, aria, acqua e luce solare che condizionano lo sviluppo delle piante.
[John Dewey, Arte come esperienza, p. 32]
I Beatles si affacciarono sulla scena assieme ad un’ondata di gruppi (non solo inglesi!) che rivendicavano il valore della gloriosa musica di Little Richards e Chuck Berry, pretendendone tutti i benefit, sesso e droga compresi. Da quella massa di gruppi, molti dei quali non duravano il tempo di un singolo, spiccarono fuori diversi complessi, non tutti francamente memorabili, tra cui Jay and the Americans, Gerry and The Pacemakers, i Kinks, gli Small Faces, i Them, gli Hollies, gli Who, i Move, i Dave Clark Five, Billy J. Kramer, i Rolling Stones, le Shangri-Las, i Seekers, Monkees, Herman’s Hermits, Guess Who e via discorrendo, eppure la percezione contemporanea ci porta a pensare che per diverso tempo il mercato fu essenzialmente diviso tra Beach Boys e Beatles. Questo, come il finzionale scontro tra Beatles e Rolling Stones, è il risultato di una deformazione storica difficile da mettere da parte, perché senza quella lente si perdono comunque tantissime informazioni su un periodo decisamente cruciale, informazioni di carattere sociale e antropologico. Di tutti gli articoli polemici e delle colonne sui giornali più autorevoli, delle infinte discussioni sulle prime fanzine, degli scontri ideologici tra DJ e la ferocia della nuova critica rock – più consapevole di se stessa ma anche più polarizzata di adesso, oggi non ci resta nulla se non l’eco di una sola campana. Certamente questo è dovuto alle precise e avveniristiche mosse di marketing che sostennero le band del «nuovo rock» (per citare il buon Riccardo Bertoncelli), ognuna in competizione con l’altra per la trovata più sensazionale o la hit più provocante, una gara estenuante che ad oggi siamo sicuri di poter dire che abbiano stravinto i manager dei Beatles.
Così come è accaduto poi per il soft rock, per il prog, per l’heavy metal, per l’hip pop eccetera, quando un genere esplode il mercato si satura immediatamente di paccottiglia, ogni volta di più grazie alla massificazione degli strumenti necessari per fruire privatamente della musica. Oggi con Tidal, Spotify, Apple Music e Deezer, c’è una tale sovrabbondanza di gruppi e di artisti da far girare la testa, e il mercato insegue quelli di maggior successo modellando anche il resto della proposta musicale su di essi, mentre su Bandcamp o Tik Tok si formano micro-scene che influenzano le nuove generazioni. Gli anni ’60 sono stati i primi a subire una vera e propria industrializzazione di tutta la filiale musicale, tanto che era difficile notare delle reali differenze tra i singoli in cima alle classifiche di quegli anni, non solo nell’estetica musicale ma perfino in quella delle copertine, dell’abbigliamento e nelle liriche! La critica non ha saputo costruire ancora oggi una narrazione che abbia avuto un qualche impatto (popolare) sulla complessità di quel periodo, e ciò che permane nell’immaginario collettivo non sono solo i prodotti di maggior successo, ma una cronologia degli eventi abbastanza sballata.

Ma in questa notevole ondata di nuovi gruppi fatti principalmente di adolescenti brufolosi ed inconsapevolmente rivoluzionari, che cosa suonavano esattamente i Beatles? Perché c’era una bella differenza tra il complesso che faceva faville nei locali di Amburgo e quello di “Love me do”. Il cambio di stile repentino della band non era anch’esso una novità, non è che i Beatles furono scelti tra le altre complessi perché avessero qualcosa di diverso (questa è una narrazione agiografica a posteriori tipica di tutte le biografie di successo), ma perché avevano il giusto mix per sfondare nel mercato crescente della musica melodica strappacuori, loro assieme ad un altro centinaio di adolescenti messi al macello delle major, tutti conditi da promesse di successi imperituri. Da un punto di vista strettamente storico-musicologico dovremmo dire che i Beatles erano in tutto e per tutto un complesso di musica beat. In fondo tra il ’63 e il ’66 sui giornali si scriveva proprio del «beat inglese» e del suo “acerrimo nemico” il «surf americano». Il motivo per cui sono sempre molto restio a categorizzare le band è che poi le etichette hanno un significato storico-contestuale statico, mentre la musica muta in continuazione, così come la sua percezione nell’ascoltatore, sopratutto ad oggi con i mezzi di registrazione ed ascolto a nostra disposizione. La percezione del passato musicale cambia pelle continuamente attraverso film, serie TV, teatro, performance art e le sue forme ibride in streaming, senza dimenticarci dei videogiochi, la forma d’intrattenimento più rilevante degli ultimi 5 anni, e tutti questi elementi fanno sì che il significato della musica cambi costantemente, di generazione in generazione (pensate solo all’impatto enorme nell’immaginario contemporaneo che hanno avuto film come “It Follows” o serie tipo “Strangers Things” nel riscrivere i canoni estetici degli anni ’80, portando anche ad un revival di alcune sue caratteristiche, ma fondamentalmente diverse dalle matrici originali).
Oggi categorizziamo le band inglesi dei primi anni sessanta nel calderone della British Invasion, una sorta di asso piglia tutto per i critici rock. Poi abbiamo le sottocategorie, per cui alcune band finiscono nel merseybeat, altre nel pop, altre ancora nel pop-rock, talune nel blues-rock, poi nel proto-prog e persino nel proto-punk! Per amor di critica se c’è una definizione che calza a pennello per i Beatles è certamente “pop”, non solo per il loro essere “popular” per usare un eufemismo, ma anche per l’influenza sul soft-rock e sul power-pop, per il loro essere “al di sopra” delle singole sottocategorie grazie a quella gigantesca popolarità che aveva tutti i contorni del culto.
Non è quindi solo il rock ad aver cambiato faccia, ma dal 1964 tutta la musica pop subì una profonda trasformazione in ogni campo, dalla produzione alla distribuzione, passando per la radiofonia, i festival, il declino del formato a 45 giri per quello a 33 assieme ad altre questioni, e ciò accadeva per inseguire il successo del nuovo rock. Il cambiamento però non è cominciato con l’avvento delle band sopra citate. Bob Dylan è stato uno dei primi artisti ad aver spostato l’attenzione verso il formato dell’album a discapito del singolo di successo, mostrando che anche la musica pop poteva battersela con la classica e il jazz, e sebbene tanti lo avessero preceduto (mi viene in mente il bellissimo “After School Session” di Chuck Berry), fu comunque suo l’impatto che cambiò le sorti del rock futuro. Il formato a 33 giri era infatti notoriamente quello per la musica “seria”, un tipo di classificazione nata in seno alle grandi case discografiche degli anni ‘40. Ma l’esplosione del secondo rock e della British Invasion accelerarono in modo irrefrenabile il processo di cambiamento in corso, uccidendo di fatto il rock strumentale e mettendo ai margini delle classifiche buona parte della musica classica e jazz, proponendosi attraverso personalità di spicco tipo Dylan, come una musica altrettanto autorevole ed impegnata delle altre. Ma perché i Beatles sono considerati i veri portabandiera di questo periodo traumatico, fortemente divisivo e polarizzante? Perché non gli Stones di Brian Jones o i Beach Boys di Brian Wilson? Perché non magari i Kinks, con la loro influenza sull’hard rock e i loro testi sempre così acuti, perché non gli Who con le loro live infiammanti che mettevano in soggezione chiunque altro?
Tra leggenda e percezione
What were your first impressions of the Beatles?
That they were the worst musicians in the world. They were no-playing motherfuckers. Paul was the worst bass player I ever heard. And Ringo? Don’t even talk about it.
[Quincy Jones rispondendo a David Marchese per “Volture”, 2018]
Sui Beatles è stato scritto tutto e il contrario di tutto, e anche a causa di questo c’è una percezione molto confusa del loro contributo alla storia della musica pop. Si sono spese una quantità infinita di pagine su Tomorrow Never Knows, sull’incredibile voglia degli studi di Abbey Road di mettere in crisi il formato canzone attraverso accorgimenti ingegneristici davvero innovativi per la musica popolare, ma la stessa attenzione non c’è stata quando l’anno prima gli Who pubblicarono con grande fatica Anyway, Anyhow, Anywhere, che possedendo un assurdo assolo in feedback fu considerato dai produttori come un errore di registrazione o qualcosa del genere. Perfino a livello di ingegneria sonora quanta attenzione alla stereofonia dei Beatles e quanta poca a quella degli Shadows negli anni di The Rise And Fall Of Flingel Bunt. Com’è possibile tutt’oggi considerare i Beatles come premonitori della scena punk quando ad Andover c’erano i Troggs? Ha già molto più senso mettere i Beatles nella categoria di quelle band che avranno un certo influsso sulla psichedelia, ma la loro importanza non è stata fondamentale per la nascita del genere, quanto per l’affermazione mondiale di questo.
Ci si sofferma sempre sull’influenza britannica per lo sviluppo del garage rock americano ma poco si è scritto e analizzato allo stesso modo dei gruppi nati negli States come alternativa ai melodici merseybeat, come i Monks o i Fugs. I Sonics sono mille volte più famosi oggi di quando erano giovani e metà del loro repertorio lo si trova fisso nella scaletta di buona parte dei gruppi garage contemporanei. Gli inglesi prediletti da Lester Bangs erano i Troggs, inutilmente buttati nel calderone proto-punk per poi essere comunque messi da parte dalla letteratura critica. Senza contare tutta quella sperimentazione che era già avvenuta negli anni ’50, dimenticata per così tanto tempo che ad oggi è quasi impossibile trovare libri o persino video su YouTube riguardanti quel periodo del rock. Più si scava più appare chiaro che non c’è una sopravvalutazione del fenomeno specifico dei Beatles, quanto in generale dell’impatto della British Invasion sulla scena rock, descritto come unicamente positivo ed egemonizzate (e certamente per le major dell’epoca lo è stato eccome). Di gruppi che suonavano garage ce ne erano ben prima dell’avvento degli inglesi, e anche incredibilmente seminali come i Kingsmen. Fra l’altro tra le due più famose cover di Money (That’s What I Want) di Barrett Strong, quella dei Kingsmen a fine carriera (1966) dimostra la differenza d’approccio tra un rock più trascinante e che oggi molti critici definirebbero proto-punk, ad uno più curato e abbellito (la cover dei Beatles è del ’63) per un pubblico più raffinato, dove in primo piano ci sono gli intrecci vocali invece dell’assolo di Mike Mitchell, e dove agli Abbey Road viene sovrainciso con precisione un ostinato pianoforte per i Kingsmen c’è l’organo di J.C. Rieck, che sporca non poco la riuscita finale del prodotto. Non sto parlando di qualità, ma di approccio, non esiste un approccio giusto o uno sbagliato, ma l’idea storica che l’approccio corretto e rivoluzionario fosse quello delle band inglesi à la Beatles è ancora piuttosto radicato.
Se la realtà quindi era complessa e stratificata, la percezione invece appariva chiarissima e raccontava una storia molto appassionate: quattro giovani dalla brillante Liverpool che scalavano le classifiche con un rock di buon gusto, adatto anche alle mamme, agli zii e ai papà, per nulla banale e sempre accompagnato da una costante ricerca di autorevolezza musicale con l’uso di grandi studi di registrazione e orchestrazioni di alto livello (le idee di George Martin hanno imposto diversi canoni per la musica pop fino ad oggi). Peccato che i quattro fossero invece la rappresentazione plastica del giovane proletario inglese, più interessato alle donne e al successo che al buon gusto, eppure l’opera di rielaborazione pubblica fu totalizzante, tra film e riviste dedicate i quattro erano stati trasformati in perfetti pretendenti dell’alta borghesia . La stessa operazione, solo all’inverso, fu applicata ai benestanti Rolling Stones, che passarono alla storia per quelli sregolati e vicini “alla gente” (come avrebbe dovuto confermare tardivamente il singolo di Street Fighting Man, che invece risultò talmente ambiguo da essere praticamente apolitico, un po’ come la Revolution dei Beatles parlava di rivoluzione ma senza scontri, magari a palle di neve o lanciando dei bacini in direzione dei “cattivi”). La narrazione delle grandi etichette possedeva comunque dei limiti espressivi oltre i quali non si poteva andare, la carriera solista di John Lennon si muoverà proprio contro quella direzione, anche se con una buona dose di utopismo che l’ha sempre caratterizzato.
Ovviamente il modo con cui noi facciamo esperienza di ogni fenomeno storico è in realtà una deformazione, a volte è una compressione in cui tanti eventi finiscono tutti appaiati in un periodo percepito come breve anche se non lo è stato, delle altre è una visione ideologica legata a degli aspetti culturali contemporanei che cambiano la nostra analisi di certi avvenimenti mettendoli sotto una nuova luce, ma ciò che mi interessa analizzare qui è un fenomeno di costume. Quando parliamo di “grunge” parliamo di Nirvana, ma non succede la stessa cosa con l’hard rock o con l’hip pop. Questo perché l’impatto dei Nirvana è stato culturalmente più efficace e trasversale, superando di gran lunga la qualità della loro produzione musicale. Dire che i Nirvana «siano stati il grunge» è più comunemente accettato che dire che i Genesis «siano stati il prog», piuttosto che i King Crimson o i Van der Graaf Generator. Eppure non si può di certo dire che il ruolo dei King Crimson nel prog sia stato meno influente ed importante di quello dei Nirvana nel grunge. Per cui la questione non è più musicale, ma di costume e società.

Il peccato del successo
Ripeti la stessa cosa per un certo tempo, e diventa gusto. Se invece interrompi la tua produzione artistica dopo aver creato una cosa, essa diventa una cosa in sé e tale rimane. Ma se si ripete un certo numero di volte, diventa un gusto.
[Marcel Duchamp, intervista di James J. Sweeney, Scritti, p. 157]
Sembra praticamente impossibile analizzare l’opera dei Beatles senza lasciarsi prendere dall’agiografia o dalla demolizione ideologica. La prima viene naturale, siamo tutti cresciuti con i Beatles, e il 99% dei musicisti che negli anni ’60 hanno deciso di mettere sù una band lo hanno fatto perché hanno ascoltato una canzone dei Beatles alla radio (anche se poi hanno preso strade diverse, come nel caso dei Byrds o dei già citati King Crimson), questi bias sono difficili da eludere perché la musica, molto più delle altre forme d’espressione umana, è pura emozione, grazie alla sua astrattezza. In neurobiologia infatti la musica è considerata come una tipologia artificiale di stimolazione della varie emozioni umane in un ambiente controllato, questa tramite i suoi idiomi (per usare un termine caro a Leonard Bernstein) è capace di evocare sentimenti che noi traduciamo spesso in narrazioni, con un inizio, uno svolgimento e una fine. Questo piacere artificiale può essere “allenato” tramite lo studio e l’ascolto reiterato, che fortificano certi collegamenti neurali che diventano il nostro punto di riferimento, il nostro gusto per certi versi. La sovraesposizione dei Beatles li ha resi la pietra di paragone per tutto quello che ne ha seguito, ovvio che chi era cresciuto con gli Everly Brothers o i Crickets non gli parevano un granché, infatti all’inizio la band fu presa come una commercialata per il fiorente mercato femminile, e furono anche sponsorizzati in quest’ottica, ma per questo suo nuovo pubblico i Beatles furono l’inizio di una nuova esperienza, quella della musica americana di consumo, esperienza centrale nel mercato internazionale ancora oggi (queste distorsioni esistono anche nello studio accademico della musica, la centralizzazione del pensiero occidentale non è una verità storica ma una percezione della nostra civiltà).
Nei primi anni ’60 le maggiori riviste con i loro critici di punta colpirono durissimo i Beatles, rimanendo storicamente sconfitti dalle vendite sempre più impressionanti della band – una storia che continua a ripetersi, pensate solo a Queen, Green Day, Led Zeppelin, Linkin Park, Black Sabbath, Nickleback e via discorrendo. Ma ciò che veniva criticato alla band non erano solo le gimmick (tipo il taglio di capelli coordinato), ma sopratutto la qualità dell’esecuzione. In una stroncatura del New York Times del 1964 c’era scritto: «La qualità vocale dei Beatles può essere descritta come un’incoerente suono rauco, a mala pena adatto per comunicare i loro testi schematici.» In generale, almeno ai tempi della loro prima tournée statunitense, erano considerati da molti esperti del settore come l’anti-musica, una vera e propria banalizzazione a favore di un abbassamento della soglia di comprensione dell’ascoltatore. Eppure in poco tempo questa sensazione cambiò radicalmente, e i plausi per la band si fecero sempre più numerosi e autorevoli, e mentre il fronte antagonista cominciava ad indebolirsi nelle colonne dei giornali tradizionali, tantissimi nuovi critici si affacciarono sulla scena proprio per amore dei Beatles e misero le basi per il nuovo giornalismo musicale, da una parte le fanzine pop, dall’altra le prime riviste musicali strettamente rock.
Poco prima scrivevo che l’altro approccio problematico all’opera beatlesiana è quello ideologico. Il primo vero e irrisolto peccato della band fu, come spesso accade, quello del successo. La musica dei Beatles piaceva, tantissimo, e prima di “Rubber Soul” il 99% del pubblico tipico della band era composto effettivamente da ragazzine in delirio ormonale. Quante volte ancora oggi il gruppo che esce dall’anonimato e conosce finalmente il successo internazionale viene tacciato di tradimento dai suoi fan storici? Questo aspetto l’antropologia lo spiega con scientifica crudeltà, siamo animali sociali che vivono in società gerarchiche, e la conoscenza ha un suo ruolo nelle gerarchie delle nostre tribù. Una volta che una conoscenza non è più esclusiva perde il suo effetto persuasivo sul resto del gruppo, diventa popolare, quindi inutile. Oltre a questo ci sono anche le prese di posizione aprioristiche sempre dettate da logiche ideologiche. Una critica che ha come riferimento valoriale l’icasticità espressiva vedrà nei Beatles un gruppo formato a tavolino costruito per fare soldi con le pubblicità e i film di seconda categoria. Una critica improntata sugli aspetti più avanguardisti invece noterà la derivazione dei Beatles in tutti gli aspetti melodici, e sosterrà l’inutilità della loro ricerca laddove perlopiù dovuta a degli studi di registrazione esclusivi (e anche quando frutto dei quattro, comunque in ritardo su altri artisti meno conosciuti dal grande pubblico). Come vedete però l’approccio non è mai immediato, esperienziale, ma filtrato dal fatto che i Beatles siano a loro malgrado portatori di concetti e significati che offuscano il prodotto musicale di per sé.
Personalmente non credo che nessuno si offenda nel dire che i Beatles siano stati la più grande rock band di tutti i tempi, anche perché è un’affermazione talmente assurda da non avere alcun significato. Così come lo sarebbe sostituendo i Beatles con qualsiasi altro artista o band presa singolarmente. Non c’è un modo oggettivo per decretare l’artista “migliore”, chiunque proponga questo tipo di pensiero lo sta facendo attraverso una precisa idea di estetica o di classificazione, che è quindi opinabile alla radice. Il “migliore” è quello che ha più album venduti? Il “migliore” è quello che ha sperimentato di più? Il “migliore” è quello che ha provocato più? Perfino a livello tecnico non c’è unanimità tra gli esperti su quanto i Beatles fossero bravi o scarsi, articoli come l’intervista di Quincy Jones a Vulture stonano gravemente con altri esperti in materia. E questo non perché non ci sia modo di capire se quella particolare soluzione di Ringo Starr sia dovuta ad un’idea straordinaria o ai suoi limiti tecnici, ma perché tutto dipende dalla prospettiva con cui si vuole capire la musica della band. Non sono pochi i video su YouTube in cui ci viene spiegato che il motivo per cui la musica dei Beatles fosse così straordinaria dipendesse esclusivamente da Ringo, piuttosto che soporifere analisi su chi tra Paul e Joh fosse il miglior songwriter, oppure di come le influenze indiane abbiano cambiato l’approccio artistico e spirituale di George Harrison. Tutto questo spesso a discapito della musica stessa, così l’apparente scomposta apertura di Drive My Car o l’inaspettato feedback in I Feel Fine diventano aneddoti senza alcun peso critico, futili medaglie al valore senza contesto, elementi di una storia che ha un senso solo nella prospettiva biografica.
Questa infinita discussione sulla qualità di ogni membro della band è figlia di una precisa e spietata campagna di marketing che con i Beatles toccò il suo apice, ma che a ben vedere seguirà ogni nuovo fenomeno musicale dopo gli anni ’60. Fu George Harrison alla fine degli anni ‘80 ad asserire che i veri due “quinti” Beatles non fossero né George Martin né Brian Epstein, ma bensì i due loro manager e p.r. Derek Taylor e Neil Aspinall, il secondo già amico di Pete Best prima ancora che i quattro partissero per Amburgo. Buona parte delle liti più feroci erano dipese dalla relazione tra McCartney e Lennon con i loro manager, i Beatles come prodotto erano la sintesi di ben più che quattro teste. Non era forse dell’ottimo marketing le durissime critiche ricevute dalla band durante i primi tour internazionali, perlopiù contro il loro atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’isteria di massa che provocavano? Non era forse marketing l’attenzione asfissiante sulle parole di Lennon su Gesù, o l’odio irrazionale verso Yoko Ono? Probabilmente è vero che il loro storico incontro con Dylan cambiò radicalmente le dinamiche nel gruppo, ma non intaccò in alcun modo quelle del marketing attorno a loro, che tra film dimenticabili e riviste ufficiali (come il leggendario “Beatles Monthly”) hanno posto le basi per il mercato odierno delle star del pop mondiale.

Si può dire qualcosa di oggettivo, please?
Now, the point I want to make is that such oddities as this are not just tricks or show-off devices. In terms of pop music’s basic English, so to speak, they are real inventions.
[Leonard Bernstein durante il suo “Inside Pop: The Rock Revolution”, parlando di Good Day Sunshine dei Beatles, 1967]
Ma quindi si può dire qualcosa di oggettivo sui Beatles? Forse, ma mi chiedo quale possa essere il valore critico di una serie di parametri oggettivi, quindi di per sé non qualitativi. Si potrebbe dire, per esempio, che fanno parte di quel movimento di ripresa del rock melodico, che poi ha cavalcato l’esplosione della psichedelia (che in UK fu propedeutica per la scena progressive), il quale assieme a Move, Kinks, Animals, i primissimi Rolling Stones, Monkees e Beach Boys rappresentarono il meglio del pop melodico tra il 1963 e il 1969. Sicuramente gli intrecci più raffinati e complessi mettono Beach Boys, Beatles e Kinks in una sorta di podio virtuale in cui il “migliore” dipende esclusivamente dal gusto, ma questo podio avrebbe senso se la melodia fosse l’esclusivo metro di giudizio della qualità di una canzone. Sempre continuando con gli esempi, in confronto a Rolling Stones, Who e Small Faces, i Beatles hanno messo in maggiore evidenza le influenze canore degli anni cinquanta invece di quelle blues dal Mississippi, e quando i Beatles approcciarono l’idea del concept album calibrarono la forma anche per gli altri, sebbene gli ottimi esempi antecedenti. Eppure non sarebbe del tutto vero nemmeno questo, in fondo artisti come i Pretty Things, Frank Zappa e gli Who sperimentarono in modo molto diverso da quello dei Fab Four (e la band di Dick Taylor, Phil May e Wally Waller lo fecero persino negli studi dei Beatles!). Un particolare plauso va fatto agli Who (e alla infinita presunzione di Townsend), facendo seguire a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (giugno, 1967) un brillante “The Who Sell Out” (dicembre, 1967), folle caleidoscopio di jingle pubblicitari e singoli da classifica, un lavoro molto concettuale e di peculiare riflessione socio-politica, per poi replicare due anni dopo con “Tommy”, che mescolava echi wagneriani (ben diversi dal “muro di suono” spectoriano) al blues-rock.
Si potrebbe dire, sempre secondo una prospettiva oggettiva, che in comune con i Kinks i Beatles avevano il fatto che erano più forti con i singoli che con gli album. So di dire qualcosa di molto controverso per i fan, però cercate di seguirmi: nel “White Album”, considerato da tanti appassionati ed esperti del settore come uno dei capolavori della band, ci sono pezzi di ingiustificabile bruttezza come Ob-La-Di, Ob-La-Da e Don’t Pass Me By, e io capisco che While My Guitar Gently Weep faccia piangere tutta la famiglia quando la strimpella Eric Clapton, ma sono canzoni che non hanno il peso di una Helter Skelter (e forse neanche di una brutta ballad di Barry Manilow) e che dunque inficiano in modo irreparabile sulla qualità complessiva di un’opera. In generale i veri capolavori dei Beatles sono le raccolte (per gli insulti, le minacce e le denunce tramite avvocato scrivete pure a: genericamentegiuseppe@gmail.com), e non è un caso se l’album più venduto della storia della band sia del 2000, ovvero “1”, una compilation di tutti i singoli che toccarono la prima posizione in UK e negli USA tra il ’62 e il ’70. Con questo non sto dicendo che gli album dei Beatles non siano pieni di canzoni valide e di successo, in particolare dopo il ’64, ovvero quando Lennon e McCartney presero le redini del progetto e le canzoni acquisirono anche maggior consapevolezza nelle liriche e si spinsero delle volte con coraggio nel panorama a loro contemporaneo, ma che come capitava spessissimo negli anni ’60, gli album erano zeppi di riempitivi. Il caso più eclatante forse è quello dei The Move, passati in poco tempo dal pop, alla psichedelia al prog riuscendo a mala pena ad azzeccare un primo album e poi un paio di canzoni al massimo per disco, pur restando ben aggrappati alle vette delle classifiche per un po’ di tempo.
Sarebbe interessante adesso fiondarsi nel riascolto della discografia beatlesiana, e c’è davvero il rischio che questo articolino insignificante diventi uno di quei orribili post-valanga alla Not o alla Noesy, ma per fortuna si è fatto tardi e ho fame. Aggiungo solo qualche mio sghiribizzo, ovvero che l’album più influente per la sua generazione rimane quello del Sergente, il più importante per la band probabilmente “Rubber Soul”, il più eclettico il Bianco, il più solido a distanza di anni “Abbey Road”, il più divertente il “Magical Mystery Tour”, gran parte delle cose uscite prima del ’64 sono piuttosto imbarazzanti e “Revolver” è uno degli album più sopravvalutati della storia della plastica, ma su ognuno di essi si è detto tanto, troppo, e della mia personale opinione probabilmente non gliene frega niente a nessuno. Un altro problema che però secondo me deriva da questo culto, prima adolescenziale e poi agiografico, è stato quello di elevare la band a questa sorta di monolite intoccabile e inafferrabile, come se i loro giri di chitarra fossero tutt’altra cosa da quelli di Hank Marvin, Link Wray o Pete Townsend, o la loro sezione ritmica più rivoluzionaria ed complessa di qualsiasi altra band, James Brown, Who e Soft Machine compresi (la stessa cosa accade in tutti i paesi, in Italia abbiamo l’esempio di Lucio Battisti). Avrebbero meritato la stessa attenzione dei Beatles i Kinks, per dire, che hanno fatto del songwriting di altissimo livello sfornando classici a non finire. Sarebbe bello leggere approfondimenti sui Beach Boys che non ci rompessero l’anima con “SMiLE” ma si avventurassero nella discografia tarda della band. Senza dubbio ci vorrebbero più analisi sugli Small Faces, magari accompagnate da una bella biografia fatta con i contro-così-detti e criticamente valida, e sarebbero assai graditi degli studi più tecnici anche sugli Who e sul rock strumentale di inizi anni ’60 prima del cambio di paradigma inglese, oppure qualche pubblicazione sul sottobosco fatto di Remains, Shadows, Troggs, Kim Fowley, Music Machine, Seeds, Godz e via dicendo – e con questo non sto assumendo che non esista niente di tutto questo, ma che è tutto ingiustamente sproporzionato nei confronti della letteratura beatlesiana.
Non è la prima volta nella storia della musica che si assegna a dei musicisti troppa importanza per quel che hanno realmente espresso, sia in senso positivo che negativo. Platone era terrorizzato dall’avvento del modo lidio che secondo lui avrebbe portato al decadimento dei valori della sua generazione, un po’ come oggi tanti sostengono che la trap sia il fondo della bottiglia della musica pop derivativa dal novecento, una sorta di punto di non ritorno. Si pensa che la psichedelia nel rock sia nata per una band, massimo due, così il metal o il prog, ho già scritto di come se qualcuno dal balcone grida: «Grunge!» qualcun altro risponderà con: «Nirvana!», la semplificazione invece di venire in aiuto per orientarsi nel complesso panorama musicale diventa troppo spesso metro di giudizio definitivo attraverso l’abuso di classifiche, liste e similia. Figure ottocentesche come Beethoven hanno più agiografie che biografie, alimentando un mito che purtroppo oscura la sua produzione musicale preferendo l’aneddoto all’ascolto consapevole, forse è una dinamica inevitabile, che non può essere arginata né dalla critica né dai fruitori.
Che i Beatles siano stati immensi o piccolissimi non è più un compito del critico da valutare, perché la loro influenza ha superato di gran lunga la qualità delle loro composizioni, rendendo questi quattro ragazzi scapestrati delle icone al di sopra delle aspettative di chiunque, il simbolo di una generazione, l’inizio di qualcosa che in realtà c’era già ma era stato troppo frettolosamente dimenticato.
Conclusioni
La Qualità non serve per decorare soggetti e oggetti come i festoni di un albero di Natale. Dev’essere la loro fonte, la pigna da cui spunta l’albero.
[R.M.Pirsig, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, p. 283]
Siamo figli della percezione dei nostri genitori, e sembra che la critica non riesca a colmare questo gap. Probabilmente però la colpa è anche della critica stessa, la produzione di “storie” della musica rock è limitata, e gran parte delle uscite nazionali ed internazionali sono di bassa qualità complessiva, la maggior parte per esempio salta a piè pari gli anni ’50 partendo proprio dalla British Invasion come punto d’inizio ideale! In risposta a questa tendenza esistono diverse riviste o forum su internet che invece ribaltano la situazione, facendo passare gruppi come i Godz o i Troggs come molto più influenti di quanto fossero effettivamente stati, tacciando la musica inglese di essere al massimo una discreta digressione di quella americana, il che è un’assurdità. E anche in questo post coesistono diversi bias, perché non si è parlato della musica indiana degli anni ’60, dell’esplosione garage in Giappone, Nuova Zelanda e Australia, del beat italiano dei Corvi, della musica elettronica tedesca che tanto doveva a quella sperimentale americana dei gruppi di rock strumentale, delle influenze del Tropicalismo, ecc. ecc. Viviamo in tempi in cui la semplificazione non è più una scusa accettabile, la possibilità di raccogliere materiale è stata incredibilmente facilitata, e così anche l’occasione di studiare testi e saggi da ogni parte del mondo. La critica rock dovrebbe cominciare a lasciar stare gli epigoni di Lester Bangs, oppure l’approccio dialettico-marxista di Simon Reynolds, o l’analisi per compartimenti stagni (ovvero nazionali) alla Simon Frith, bisognerebbe prendere di petto questa Storia e sviscerarne tutti gli aspetti, compresi quelli apocrifi, come le pubblicità radiofoniche dei dischi, la storia dei formati di riproduzione, le questioni culturali sospese e quelle risolte, gli aspetti antropologici e i nuovi approcci neuroestetici. Lo diceva anche Goffredo Fofi in una recente intervista a Fanpage che non ha più senso di esistere il critico iper-specializzato, bisogna pretendere una critica più aperta alle contaminazioni. Più che chiederci se i Beatles sono stati la più grande rock band di tutti i tempi, bisognerebbe chiederci che senso ha una critica che si pone questo genere di domande.
The Rolling Stones – Between The Buttons

Etichetta: Decca Paese: Regno Unito Pubblicazione: 1967
Everything is going in the wrong direction.
The doctor wants to give me more injections.
Giving me shots for a thousand rare infections
And I don’t know if he’ll let me go
Me ne accorsi un anno fa più o meno, che già faceva freddo. Subito dopo essermi sparato “Between The Buttons” metto sù “Sticky Fingers” e già dal riff di Brown Sugar mi rendo conto che manca qualcosa. Mi metto a giocare con l’equalizzatore per un po’, eppure già arrivato ai dolci solchi di Wild Horses quella strana sensazione continua. Manca qualcosa. Forse è il surround. Magari è la manopola che regola i toni alti che si è allentata di nuovo. Io non sono un tipo da ballad, e sebbene Wild Horses sia costruita a regola d’arte per farti venire il magone, come la sequenza del cappottino rosso in Schindler List, mi lascia comunque indifferente. Quella volta però c’era qualcosa di nuovo, quella fastidiosa sensazione di vuoto, come se il suono fosse troppo pulito, modellato su insensibile plastica. Così mi venne un’idea.
Metto sù “Beggar Banquet” da Stray Cats Blues. Ascolto attento. La prima cosa che penso, lo giuro su Frank Zappa, è: cazzo come ci stanno bene quel cazzo di mellotron e il piano. Ci sono più Velvet Underground qui che nell’ultimo dei Parquet Courts. Che poi si dice sempre Heroin, ma io ci sento I’m Waiting For The Man invece. Opinioni. Che arrangiamento, che densità sonora. Cambio, metto Bitch da Sticky. Bel riff eh, però basta insomma. Sì, c’è più tiro del solito ok, suona più “rock” in un certo senso, concluso lo storico e controverso contratto con Decca gli Stones suonano più cattivi, più tirati e ovviamente più volgari, però l’ambiente sonoro è piatto, tirato a lucido e con le cazzo di chitarre davanti a tutto il resto (inoltre Mick Jones è come il cheddar, mi risulta sempre più indigesto con l’avanzare dell’età).
Di nuovo cambio, stavolta tocca a Please Go Home da Between. Non mi era mai piaciuta tanto. Non mi basta più tenere il tempo con il piede. La chitarra a destra stile Bo Diddley vibra finché non diventa un miraggio desertico alla Link Wray, la batteria a sinistra martella ipnoticamente, persino la voce si perde a tratti, il contesto sonoro è impreziosito da Wyman e dall’oscillatore suonato da Brian Jones. Brian Jones. Che idiota. In “Sticky Fingers” non c’è Jones. Who’s Been Sleeping Here sta scorrendo sul piatto e io mi rendo conto di quanto Jones oltre ad aver chiaramente dato un importante contributo alla band come fine musicista, ne era invece il principale interprete dell’ambiente sonoro, un paziente costruttore di oscillazioni, temi impercettibili eppure fondamentali per il concetto, vibrazioni febbrili, rifiniture tutt’altro che masturbatorie. Brian Jones stava agli Stones come Blixa Bargeld a Nick Cave.
Dite quello che vi pare ma anche se Jones non appare, il suo spettro si aggira ancora in Gimme Shelter, nella cura maniacale di quella atmosfera vertiginosa che caratterizza l’apertura di “Let It Bleed”. Lo si sente ancor di più con l’ascolto in successione di “Sticky Fingers” e “Exile On Main Street”. Ho sempre considerato Exile come una sorta di compendio della grandezza degli Stones, eppure mentre All Down the Line scorre piacevolmente di sottofondo lo sento ancora, quel vuoto.
“Between The Buttons” è decisamente il capolavoro dei Rolling Stones, ad oggi riesco a vederlo molto più chiaramente, e lo dico sebbene sia consapevole che sia stato in pratica il loro unico grande flop durante il periodo d’oro del rock inglese. Ovviamente continuo a considerare “Aftermath” uno degli album fondamentali per comprendere il rock, ma in Between esiste una coerenza di fondo inedita per la band, oltre che una cura al dettaglio che non svilisce la forza dei singoli pezzi.
Ora non voglio fare le distinzioni alla cazzo: arte o non-arte, perché il rock è sopratutto intrattenimento e non roba da sedie di velluto da ascoltare sorseggiando un cocktail (urgh!), poi è chiaro che chi scrive preferisca Klaus Schulz ai Chicago o “Metal Machine Music” a qualunque album dei Farfuglio (/Foo Fighters), ma nemmeno sono abituato a negare i fatti: quando leggo le righe di passione di Klosterman per i Mötley Crüe non posso non amarli un po’ anche io proprio perché quintessenza della cazzoneria e dello show a stelle e strisce.
Ora: non so che volessi dire con questa cosa dei Mötley Crüe, non ci capisco più niente fedeli seguaci, ma quello che so (oltre al fatto che come al solito non correggerò questo post, perché non ho il tempo nemmeno per guardarmi allo specchio da mesi) è che sì: “Aftermath” è imprescindibile, “Beggars Banquet” è molto più catchy (Dear Doctor mi esalta ogni volta che l’ascolto, come ha fatto un gruppo con questa sensibilità a scrivere cose come Too Tough resterà per sempre un mistero), ma il vero gioiello di questa leggendaria band resta quell’esperienza pop-rumoristica-lisergica di “Between The Buttons”.
Non diciamo psichedelia per favore, che col Texas e gli Acid Test i Rolling Stones c’entrano come i cavoli all’apericena (oppure si usa? che cazzo è un’apericena?), non diciamo progressive che facciamo ridere perfino quelli di Rockit. Between è il lavoro più inglese della band londinese per eccellenza, peculiare proprio per la sua forte connotazione nazionale, uno sguardo disincantato verso il passato che deflagra definitivamente tra She Smiled Sweetly e Cool, Calm & Collected. Jagger non fa più i versacci, Richards non è quasi mai in primo piano, stavolta protagonista impercettibile un cromatismo che a parer mio si magna tutto Sgt. Pepper, grazie allo sforzo profuso dalla mente perfezionista di Brian Jones.
Saturo come nessun altro album degli Stones, a parte forse “Their Satanic Majesties” che per me è quasi tutto pattume (ma che oggi vive una stagione di rivalutazione ingiustificata e francamente ridicola), composto nel momento più fertile della storia della musica rock, quel 1967 che vide al massimo splendore pesi massimi come Small Faces, Red Crayola, Lovin’ Spoonful, Kaleidoscope, Godz e Fugs, Electric Prunes, Doors, Deviants, Byrds, la blues band di Butterfield, Pink Floyd, Moby Grape, Love, Leonard Cohen, Velvet Underground, un 1967 che gli Stones riescono a segnare con un’opera molto più complessa di quanto possa sembrare dopo un paio di ascolti, o nel mio caso anni. Posso dire a mia parziale discolpa di non essere mai stato il primo della classe, se buttate un occhio alle vostre spalle io ero quello che all’ultimo banco disegnava le avventure di Conan il Barbaro con i pennarelli Carioca.
Ora non è che Sticky e Exile siano da buttare, proprio qualche giorno fa (settimane? mesi? anni?) elogiavo il dialogo omoerotico tra Richard e Mick Taylor in Can’t You Hear Me Knocking, ma alla luce della densità maniacale di Between, che badate bene non è il solito barocchismo dimostrativo delle avanguardistiche tecniche di produzione tipicamente inglese, ma bensì consapevole costruzione di strati sonori che veicolano un (TRIGGER WARNING) messaggio, non posso che lanciarli giù dal balcone, cercando di prendere in testa il condomino con la passione per i Nazareth.
L’avessero scritta nel 1971 Who’s Been Sleeping Here assomiglierebbe probabilmente ad una ballad qualsiasi, senza quel meraviglioso ingolfarsi della batteria nel mezzo, e avrebbe un Richard in primo piano, magari acustico, a coprire qualsiasi mancanza compositiva. She Smiled Sweetly sembra uscita fuori da qualche musica per parata, Jagger accompagnato da un organo da chiesetta di periferia, col pianoforte che compare a destra per sottolineare la struggente melodia, senza eccessi di patetismi o dramma, dannatamente inglese. Il pop storto di Connection possiede uno spleen formidabile considerando che dura un minuto e mezzo senza grandi cambiamenti, e dove l’urgenza delle parole si sposa perfettamente col basso percussivo di Wyman. Yesterday’s Papers è forse l’unico pezzo che non mi ha mai convinto del tutto, con le solite infiltrazioni classiche che caratterizzano il pop inglese del Merseybeat, che disprezzo con tutto il cuore perché fini a se stesse, arzigogoli che impreziosiscono una scrittura che però esprime un sacco di banalità. Ma subito dopo il lavoro del solito Wyman al piano elettrico in My Obsession fa passare ogni paura. Senza Jones questi preziosi passaggi si perderanno per sempre dietro il primato del riffone spacca-caviglie. Miss Amanda Jones vede alla destra Wyman e Richards, alla sinistra Jones e Ian Stewart al piano, un rock n’ roll col piglio del miglior Jerry Lee Lewis ma arrangiato deliziosamente.
I più attenti di voi si saranno già accorti da un po’ che parlo della versione inglese dell’album e non di quella USA, sinceramente non me ne frega molto a quale versione siete più affezionati, sono entrambe il capolavoro degli Stones per me, sebbene qualche purista sicuramente rabbrividirà a cotanta affermazione.
Bruciate le vostre copie di “Some Girl” e “Undercover” eretici, Cristo di è fermato a “Between The Buttons”.
Paracul’ garage rock
Non che la cosa mi stupisca, in fondo era destino già nel 2007, quando a Fullerton (California) due giovanissimi Lee Rickard e Sean Bohrman, membri dei già paraculi Thee Makeout Party, fondarono nella stessa città dove nacque la “Fender musical instrument company” l’etichetta/negozio di dischi Burger Records.
La Burger non è un’etichetta garage nel senso stretto della parola, piuttosto è un’emanazione dell’impoverimento della scena power pop, un genere che esalta tutti gli elementi più banali del rock (riff, melodia cantabile sotto la doccia a squarciagola, tecnica esecutiva brillante, assoli brevi ma intensi) pompandoli all’inverosimile. Chiaramente a dei poco più che maggiorenni californiani questo non può riuscire a pieno, per cui quello che ne viene fuori è una versione semmai scarnificata del power pop, trovando così un sound simile alle garage band sixties che volevano inseguire il successo dei complessi inglesi.
Il garage storicamente nasce già diviso in due fazioni, da una parte come abbiamo detto c’erano le band incantate dalla melodia facilona del Mersey Beat, dall’altra tipacci alla Monks, band dal sound più duro e incazzoso e dalle liriche finalmente pensanti, che a posteriori saranno ritenute dai critici più superficiali come preludio ante-litteram al punk (e persino al kraut rock nel caso dei Monks!), ma che nella semplicità dei fatti erano una reazione del tutto naturale alla piega modaiola che stava prendendo il rock.
Se la matrice musicologica in fondo è la stessa (il surf rock strumentale degli anni ’50, la fura del rockabilly e le nuove derive psichedeliche) quella culturale è talmente diversa da dividerne i destini musicali, da una parte band che riuscirono ad avere un successo fulminante all’epoca ma che oggi suonano terribilmente datate e scontate, altre invece sebbene snobbate allora entrarono a far parte della leggenda, stimolando negli anni a venire generazioni di rocker del tutto fuori dal mainstream (penso ai già citati Monks, ma anche agli Electric Prunes, Music Machine, Seeds, Fugs, Godz, 13th Floor Elevators, Fifty Foot Hose e centinaia d’altri).
Ma il garage rock della Burger Records a quale parrocchia fa riferimento?
Vedete miei cari lettori, la Burger ha creato una nuova corrente garage, che sta a metà tra le due di cui sopra, il paracul’ garage rock. Un’idea francamente geniale, che ha portato un nuovo elemento nel garage rock che prima era banalmente impensabile: i soldi.
Una volta grattata via la pestilenziale crosta di volgarità e ipertestualità tipica del garage (che non è mai demenziale come si presenta) cosa rimane? Rimangono i riff, la melodia cantabile sotto la doccia, una tecnica raffazzonata quando non inesistente e le liriche sull’erba e sulle ragazze/ragazzi. Il genere perde così tutta la sua carica eversiva, ma ci guadagna non poco sotto il profilo della fruibilità.
Sia chiaro: non tutto quello che cresce sotto l’ombra del grande hamburger californiano è paracul’ garage, ma buona parte della sua produzione lo è ed ha inquinato l’idea comune di garage rock.
Ne è un esempio lampante il 7’ uscito quest’anno dei Double Cheese. Prodotti dalla francese Frantic City Records (la stessa dei Froth fra l’altro) questa band frutto del rapporto incestuoso tra i The Skeptics e Charles Howl, è riuscita dove nessun altro prima si era neppure avvicinato col binocolo: hanno creato la prima hit garage.
Capite bene che la parola “hit” accanto ad una canzone garage formano un’abominio dalle sembianze lovecraftiane, un mostro indefinibile che trascende diversi piani dell’esistenza, un abisso imperscrutabile dal quale la mente può solamente cadere per poi non poter più risalire.
Come poter descrivere con altre parole il successo di I Hate The 60’s dei Double Cheese, che persino nella nostra penisola è riuscita a riscuotere plausi dal web? Cos’altro non è se non la fine di un percorso iniziato 9 anni fa dalla Burger Records? Ascoltatela e continuate a leggere:
Non lo sentite quel riff PERFETTO? Catchy, direbbero gli ‘mericani! La voce, virile e chiara, l’entrata della batteria ad effetto? Il sound e persino più pulito di un album dei Radiohead? E quel gioco formato dal ritornello «Because I hate/ I hate the 60’s» col sound ultra-sixties del pezzo? Ci sta persino l’assolo, cioè dico: l’assolo in un pezzo garage! Sarebbe come sentire una stonatura in un pezzo dei King Crimson! E come suonano bene, come sono bravi ‘sti Doppio Formaggio!
Cari seguaci del garage rock, ma non lo vedete che vi stanno facendo? Vi stanno facendo terra bruciata attorno, vi stanno mondanizzando, siete diventati più sexy degli hipster porcodio, una volta eravate fonte di ispirazione per i punk più viscerali e disgustosi, ora siete roba da heavy rotation su Virgin Radio, vi hanno spento le grandi palle di fuoco a suon di musicassette e 33 giri che fanno tanto vintage, il vostro pubblico non vi sputa più addosso ma vuole seguirvi su Instagram mentre postate foto dei vostri risvoltini ai pantaloni!
Cosa volete farne delle vostre vite: passarla a costruire hit dal sound catchy e ballabile come i Double Cheese, o spaccare le orecchie e il cervello di qualcuno come gli Hallelujah? Perché la Burger Records prima o poi scomparirà, proprio come questa moda del paracul’ garage rock, e quello che rimarrà di questi anni (proprio come dei sixties, dei seventies, degli eighties e via dicendo) saranno gli album di gente che ha proposto qualcosa di diverso dalla norma, che non si è piegata alla moda, e che ha suonato con orgoglio quel genere che affonda le sue radici nel cuore rock stesso.
[NOTA PER I GENI: Questo post non vuole demonizzare la Burger Records, solo il 90% della loro produzione, poiché le eccezioni ci sono e alcune le ho anche recensite, come i The Abigails, Mr. Elevator & The Brain Hotel, Tracy Bryant e i suoi Corners, Pesos e altri.]
The Doors – The Doors
I Doors sono stati forse la band più rappresentativa degli umori hippie, riuscendo a catalizzarli in una musica trascendentale e al tempo stesso teatrale, sciamanica, febbrile, che sì apre le porte della percezione, ma al tempo stesso è soggettiva in modo angosciante, i testi dei Doors sono una lunga delirante poesia, un De Profundis che Jim Morrison cantò per se stesso, un poema morboso e straziante fino all’irreversibile fine.
Non è di certo un caso che Morrison volesse fare il regista cinematografico, le visioni descritte dal cantante-sciamano sono chiare, nitide, anche se senza una soluzione di continuità. Si dice che Morrison fosse alimentato dall’odio verso i suoi genitori e da una strana visione che lo perseguitava, quella di un gruppo di indiani sanguinanti che narra aver visto da piccolo durante un viaggio, canta in Peace Frog dell’energia sciamanica che dai loro immobili corpi lo penetrava nel profondo, le porte della percezione erano state aperte, tutto entrava e tutto usciva, in poco tempo Morrison divenne un ubriacone molesto, un poeta affascinante, un timido studente e un’esplosivo casinista, come se tutte quelle anime cercassero di farlo impazzire, ma lui invece di resistere a questa schizofrenia tribale lasciò che questa lo trasportasse e lo guidasse oltre.
Il sui riferimenti sono Huxley e Jean-Luc Godard, dal primo comprende come le droghe, la mescalina in particolare, siano solo uno strumento per trascendere un piano della conoscenza che gli andava stretto, dal secondo imparerà a vedere il mondo per come è, descrivendolo così come gli appare, solo che il mondo che Godard descrive è il nostro, quello di Morrison invece appartiene alla sfera dei poeti e degli sciamani.
Di sicuro si può definire una carriera di successo quella dei Doors, ma se si cerca il capolavoro dobbiamo parlare del primo album, l’esordio omonimo targato Elektra Records. Già in “Strange Days” i Doors perdono qualcosa, sebbene un album con When The Music’s Over sia già di per sé definibile come un capolavoro, con il primo album dei Doors possiamo tranquillamente parlare di opera d’arte.
I Doors erano un’esperienza, un connubio principalmente di blues-rock e jazz senza precedenti, una sezione ritmica che passava dalla musica sudamericana allo psych rock ipnotico senza battere ciglio, Manzarek che con una mano impostava melodie esotiche o addirittura garage mentre con l’altra teneva una imperturbabile linea di basso, e Morrison che richiamava a sé gli spiriti di quegli indiani trapassati, urlando e danzando come in preda ad un trip di peyote.
Questo album ha ridefinito il genere e anche un’intera generazione di hippie, per quanto radicato in quella cultura è riuscito persino a superarla, perché la psichedelia dei Doors non è quella dei 13th Floor Elevators, l’aura misticheggiante non è posticcia come quella di Donovan, mistico e psichedelico s’incontrano in questo fuoco eterno acceso in un accampamento indiano, mentre il Re Lucertola danza nudo illuminato dalla luna, definirlo in un genere è francamente inverosimile.
Quando Manzarek fa ballare il suo Fender Rhodes nell’intro di Light My Fire tutto ti puoi aspettare tranne che un inno sessuale così intenso, così penetrante, così catartico. La prima parte è tutta di Krieger, un’intuizione geniale che grazie alle urla di piacere alla tastiera di Manzarek diventa arte, Densmore e Knechtel mantengono una sezione ritmica ipnotica per tutti i 7 intensi minuti, variando dallo psych rock al jazz, Morrison trasforma il testo di Krieger in un inno al suo fallo mentre nel finale sembra scoparsi con la voce il microfono.
Break on Through (To the Other Side) è uno degli apici del rock, una furia bestiale che propone ai pacifici hippie di spezzare le catene che li tengono imprigionati in questa dimensione con un ballo sciamanico attorno al fuoco di Morrison. Frastornante, immenso.
E poi quelle gentili discese nella nebbia dei sensi, The Crystal Ship e End of the Night, la chitarra di Krieger raggiunge un minimalismo siderale, la voce baritonale di Morrison più che accompagnarci ci avvolge, le parole propongono immagini spezzate, specchi rotti dove si riflettono tutte le nostre versioni alternative.
E quelle pillole di puro rock, un’evoluzione più viscerale e psichedelica dei Kingsmen, I Looked At You, Twentieth Century Fox, mentre il blues come moneta da giocarsi all’inferno come conferma Soul Kitchen. Perché ovviamente c’è anche il demonio, figura benevola e crudele, messaggero dell’aldilà inteso non come inferno, ma come quarta dimensione. La poesia di Morrison si inebria di figure e iconografie che riscrive su se stesso, compiendo un prodigio letterario di rara efficacia.
E poi The End… Più di We Will Fall degli Stooges, senza il bisogno della funerea viola di Cale, con il pizzicare i piatti di Desmond e i giri misticheggianti di Manzarek, con quella nenia funebre di Krieger ma sopratutto con le visioni apocalittiche di Morrison, l’ineluttabile che sconvolge ogni suo pensiero, quell’ulteriore, quell’altrove che Morrison sa come raggiungere, con la droga, col sesso, con la violenza. Le immagini sono di nuovo frammentate, inutile cercargli un senso, il senso è farsi trascinare come un corpo morto verso il baratro, alla fine di esso c’è una porta e una volta aperta tutto prende forma, tutto ha un motivo, anche se purtroppo solo per 11 minuti e mezzo…
Captain Beefheart & His Magic Band – Trout Mask Replica
Se avete quest’album e avete già letto un paio di tonnellate di recensioni e volete leggervi pure questa allora sappiate che siete messi maluccio.
Se non sapete cosa sia questo album proseguite nella recensione come se niente fosse.
Di “Trout Mask Replica” ne sentirete parlare come “il più grande album di tutti i tempi” o come “le mie scoregge suonano meglio e puzzano meno”. Quando ci si trova di fronte ad un opera che divide e polarizza la discussione in modo così deciso bisogna innanzi tutto fare ordine.
La cosa migliore sarebbe questa: fregatevene di cosa ne dice la g-gente, compratevi ‘sto dannato disco e mettetelo sul piatto, fatelo girare ben ben e accostate la puntina con estrema lentezza per gustarvelo in santa pace. Oppure scaricatelo da iTunes e fatelo partire sul vostro asettico iPod. Ecco, ascoltatelo con leggerezza, con divertimento e senza troppe seghe mentali. Se vi piacerà, bene, se non vi piacerà, chissene, avanti il prossimo!
Ma, ehi, quando devi tirarci sù una critica costruttiva allora non puoi mica svignartela così bello mio.
È facile dire: l’ho letto su Wire, è un fottuto capolavoro, quindi zitto e muto!
Come è altrettanto facile affermare: non sa di un cazzo, è fatto per ridere, perché dovrebbe essere il disco più figo del rock se non suona nemmeno rock???
Però queste non sono discussioni in merito ad un album, ma bisticci idioti senza direzione.
La critica musicale non ha apprezzato all’unanimità TMR alla sua uscita. Gran parte degli elogi venivano dalla critica rock più “estrema” e riluttante ai soliti nomi che vivacchiavano in alto alle classifiche, e anche da una parte della critica jazz con forti accezioni fortemente sperimentali.
Nel corso della storia l’album in questione è stato pian piano riconosciuto universalmente come un capolavoro unico e irripetibile, e sono pochissimi (sempre che esistano) i critici musicali che mettono in dubbio la caratura di questo disco.
Ma ovviamente la critica musicale non è tutto, anche se in questo campo è la voce più autorevole (sopratutto quando un album è ormai storicizzato e può essere valutato in modo più oggettivo).
Probabilmente la parte più complessa nel valutare oggettivamente un album risiede nel momento in cui ti rendi conto che quell’album ti fa cagare.
La prima volta che ascoltai TMR mi piacque, quindi non faccio testo, ma è più comune che avvenga il contrario data l’unicità compositiva che lo diversifica in modo così violento da tutta la produzione rock fino al 1969, e che ancora oggi trova pochi esempi egualmente al limite.
Detto ciò io ho mal digerito al primo ascolto i Little Feat, i Creedence Clearwater Revival e addirittura (e non mi vergogno ad ammetterlo) i Gun Club. Sono tre esempi di fruibilità completamente diversi e certamente più accessibili di TMR come anche di approccio al rock, e sebbene all’inizio li trovai non adatti a me (per non dire insopportabili) ne riconobbi subito il valore storico. Ho voluto fare questo esempio perché in questi mesi sto riascoltando ed rivalutando proprio queste tre band (dei Gun Club ho acquistato tutta la discografia nell’arco di un mese!), ma per alcune non ci sono stati cazzi, mi annoiano a morte a prescindere dal loro valore storico.
Il nocciolo della questione è: ma che valore storico ha TMR?
Beh, sarebbe lunga, ma mi limiterò alle mie impressioni da totale imbecille sul web col suo bel blogghino da sfigatello.
Se escludiamo Ella Guru, Moonlight On Vermont e Sugar ‘n Spikes, le uniche tre tracce a presentare una forma quasi melodica o tradizionale a tratti, il resto dell’album è un volo che viene delle volte erroneamente definito psichedelico (oppure di matrice blues) quando invece è solo free-form e anarchia jazz-rock totale.
Tutto parte dalla seminale mente di Beefheart, che sperimenta su un pianoforte che non sa suonare idee, concetti e impressioni del tutto fuori da ogni schema compositivo, lasciando che Drumbo (all’anagrafe John French, il batterista della Magic Band) cercasse di dare un vago senso compiuto a quegli schizzi anarchici.
Oltre le leggende, che potete leggere più o meno ovunque, la cosa che deve saltare all’orecchio è come Beefheart in modo del tutto tirannico (come ogni regista che si rispetti e non ho usato la parola regista a caso) costringe la sua band a delle sessioni di lavoro da gulag russo, lasciando che la sua creatura prendesse il sopravvento sulla razionalità e sul controllo che normalmente hanno i musicisti sulle loro composizioni.
Le poche interviste di Beefheart rilevano come il concetto alla base del Capitano fosse quello di eliminare le singole personalità, proponendo un lavoro stanislavskiano di musicista fuori dalla musica che sta suonando, diventandone parte concreta.
In fondo il concetto non è così complesso come può sembrare, la situazione in cui versano i musicisti violentati da Beefheart è quella di un drogato che prova un senso di totale unità con l’universo che lo circonda pur essendo al di fuori di sé.
Questa operazione, sebbene anarchica, è sostenuta da una tecnica e da un controllo eccellente, spesso ai limiti possibili. Nessuno la fa fuori dal vaso, le due chitarre poste una destra e l’altra a sinistra provocano l’ascoltatore (sono le impressioni di Beefheart, le idee anarchiche fuori da ogni concetto prima ideato) mentre la batteria di Drumbo, posta sempre al centro (a parte in piccole idee particolari come in The Blimp (Mousetrapreplica)), è il collante necessario (e aggiungo: la parte razionale) per mantenere stabile questo monumentale e azzardato progetto.
Ci sono anche tantissimi momenti morti (il primo che mi viene in mente è la pausa tra Hair Pie: Bake 1 e il bellissimo attacco di batteria di Moonlight On Vermont) ci sono anche momenti in cui Beefheart canta senza accompagnamento (tramite il collage di strofe cantate singolarmente, come in Orange Claw Hammer) e addirittura c’è una registrazione della band mentre mangia (nei primi istanti di Fallin’ Ditch).
Difficile definire tutto questo come un album prettamente rock, o addirittura un album di musica in generale. L’esperimento di Beefheart è una doppia provocazione, sia al musicista esperto che al fruitore occasionale. Al primo mostra i muscoli (Sugar ‘n Spikes) e anche la possibilità di andare oltre la tonalità e alle leggi che regolano il limitatissimo mondo del rock (che poi è il principale motivo per cui questo album è considerato così fondamentale), al secondo propone un ascolto più partecipato, più sensibile, perché TMR non è affatto un album costruito per emozionare o cose così, la sua sensibilità non sta nel farti fare due lacrimuccie o a farti incazzare contro il Reagan di turno, ma cerca piuttosto di estraniarti da te stesso per raggiungere il Capitano nella sua jam infernale.
Anche nei testi risulta difficile trovare un senso comune, si va dalla rievocazione dell’olocausto di Dachau Blues alle immagine sessualmente contorte di Neon Meate Dream of a Octafish, il tutto ispirato da una ricerca squisitamente dadaista (forse delle volte anche tramite la tecnica del cadavere squisito).
Il metodo di Beefheart si allontana decisamente dalla serietà degli esperimenti free-jazz o del rock definito underground, perché se da una parte il controllo tecnico e concettuale sull’opera è totale, dall’altro il Capitano sta sbeffeggiando goliardicamente i limiti auto-imposti del rock.
L’infinito accostamento di idee, suoni, raccordi e distorsioni fa di TMR una raccolta geniale che, per forza di cose, è anche all’avanguardia di tutti i generi che il rock toccherà negli anni successivi.
Credo sia difficile fruirlo come un album dei Pink Floyd, ma immagino che questo dipenda anche dalle personalità (a me, per esempio, mi piace molto ascoltarlo mentre studio o scrivo), ma penso non ci possano e non ci debbano essere dubbi sul valore di questo capolavoro del Capitano, ben oltre il precedente e eccellente “Safe As Milk” (1967) e certamente mai più ripetutosi a questi livelli.
[Deh, forse per qualcuno questa recensione potrebbe anche apparire breve e incompleta, ma essendo il web assediato da ottomila recensioni (soltanto in italiano) di questo album credo di aver effettuato una sintesi dei motivi per cui TMR è un fottuto capolavoro abbastanza precisa e leggera, senza tirare il ballo il Dasein di Heidegger, senza masturbarmi sulle componenti tecniche e senza insultare nessun critico di Blow Up, Mucchio, Buscadero, Rumore o-che-so-io. Quindi: ‘fanculo, comprate questo album, e se non vi piace peace & love.]
…se volete leggere quella che ritengo sia la migliore recensione in assoluto cliccate qui. È stata scritta nel 2008 dal miglior blogger mai esistito, anche se da tempo disperso (si dice rapito da degli alieni).
E infine…
ma che cazz???
Zig Zags – Scavenger/Monster Wizard
[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]
Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.
Ho pensato: ci siamo! Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.
Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]
La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).
La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. “Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.
Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.
Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.
Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto.
“10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.
Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.
Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.
In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.
Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?
Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.
- Pro: la miglior band garage contemporanea.
- Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
- Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.
- Voto: 9/10
La mia (modesta, inutile e annoiata) opinione sui Beatles
[ALERT: Questo articolo è brutto e invecchiato male, leggiti QUESTO QUI che è meglio!]
LA PREMESSA NECESSARIA:
La prima cosa che vorrei eliminare da questa discussione è la figura di Piero Scaruffi. E con essa quella di qualsiasi altro critico. Non tanto perché io non creda nel valore della critica musicale, o della critica in senso lato.
Vorrei ricordare che la figura del critico serve per comprendere meglio un dato fenomeno artistico tramite gli studi, le comparazioni e il giudizio quanto più obbiettivo dello stesso. Chiunque creda davvero di comprendere un’arte, qualsiasi essa sia, senza studiarla perché a suo dire: “l’arte è un qualcosa che ci viene donato dall’artista è dev’essere universalmente comprensibile” è meglio che giri a largo da questo blog e dal suo blogger, che se m’alzo male lo lego alla sedia e lo costringo ad ascoltarmi mentre faccio una orrenda disamina di sedici ore su La Mariée mise à nu par ses célibataires, même di Duchamp. Fidatevi, riesco a mala pena a sopravviverci io.
In questo caso particolare lascio stare la critica, come lascio stare anche ogni idea di giudizio soggettivo.
A me piacciono un casino, ma davvero un casino, gli Spirit. Avete presente Fresh Garbage? Ecco, per me I’m Truckin’ è uno di quei pezzi che potrei ascoltare giorno e notte. Ma non per questo se dovessi fare una disamina storica degli Spirit sparerei solo i miei segoni mentali su quanto questa band mi ecciti sessualmente, no, dannazione, proprio no!
Il mio pezzo dei Pere Ubu preferito è Blow Daddy-O, quello del rock in generale Kick Out The Jams!, sono malato? Non lo so, secondo mia madre certamente, ma in questi anni che studio rock da un punto di vista leggermente più serio e storico oltre a scoprire altri pezzi che me la alzano ho anche scoperto che, come nella grande arte, ci sono vari livelli di godimento.
«Ehi stronzetto, ma ancora non stai parlando dei Beatles!»
Sì, lo so, sto cercando di tirare fuori un concetto invece del solito stronzo.
«Ok, ok, amico, pensavo solo ti fossi perso tra le tue solite menate.»
Grazie che mi tieni d’occhio.
«Non c’è di che.»
Dicevamo dei vari livelli di godimento.
Tutti possiamo apprezzare le doti tecniche di un pittore rinascimentale, ma non tutti possono capirne il valore effettivo.
Mi stupivo quando alle mostre molta gente snobbava gente come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Masaccio per pittori magari minori ma che in alcuni casi erano più realistici. Per quanto uno possa apprezzare La Pala di Brera di Piero della Francesca, vorrei sapere quanti conosco il modo con cui l’opera fu accolta, per cosa e da chi fu commissionata, se fu commissionata da qualcuno (a qualcuno il dubbio potrebbe anche sorgere), se oltre la mera raffigurazione c’è qualcos’altro, che tipo di simbologia e iconografia vengono usate, in che modo e perché la tecnica di questo quadro è la fusione delle esperienze dell’artista e via dicendo.
Al passante che apprezza l’arte nella sua forma più effimera non gli importa un fico secco di tutte le questioni che incorniciano un’opera d’arte figurativa. E questo è giusto, se gli piace da impazzire già così dove sta il problema?
A me dà fastidio vedere certi “critici” insultare appassionati amatoriali solo perché gli sfugge il significato del corallo rosso su Gesù Bambino o dell’uovo di struzzo appeso che pende sulla testa della Madonna (/Battista Sforza). Ognuno ha il diritto di poter apprezzare l’arte anche senza uno studio approfondito.
Ma mi dà molto, molto più fastidio, quegli appassionati che vogliono fare i “critici” perché conoscono un paio di date, oppure vita, morte e miracoli di un artista, come se la biografia fosse l’unica cosa che abbia un valore.
Badate bene: per ogni artista di ogni campo, la biografia ha un valore minimo quando non nullo per definire le caratteristiche della sua opera. È ovvio che I’m Waiting for the Man descrive l’esperienza diretta di Lou Reed, ma il suo valore storico e musicologico sono altra cosa, e hanno ripercussioni e significati diversi dall’esperienza dell’artista.
Inoltre ricordate sempre di non ascoltare mai il giudizio degli artisti stessi, sulla propria e sull’opera altrui. Sono rarissimi i casi di artisti intellettualmente validi al di fuori della loro sfera di competenza. Detto in parole povere, Scorsese potrà dire che Bellocchio è il regista più importante della storia, ma ciò non significa che lo sia, sebbene Scorsese sia uno dei registi più influenti della storia.
«Ma se tu c’avessi rotto il cazzo?»
Oh, non è mica una cosa semplice! Sto cercando di fare un discorso serio!
«Oh, ma stai calmino! Hai mica mangiato pane e allegria a colazione?»
Sigh…
La gente tende ad apprezzare l’arte figurativa e a dispregiare l’arte contemporanea perché se in una può leggere una abilità tecnica (che è solo una caratteristica, non sempre fondamentale, per giudicare un’opera d’arte, in mezzo a mille altre altrettanto importanti) nell’altra non ha la chiave di lettura adeguata, ovvero: non ha studiato. Pochi cazzi.
Se credete che certa arte sia sempre stata grande vi ricordo che anche a Leonardo Da Vinci e a Michelangelo gli rifiutavano opere già concluse o progetti in via di sviluppo, e che Leonardo ha dipinto L’Ultima Cena in una mensa per frati affamati e le più grandi intuizioni di Michelangelo (il non-finito) ancora oggi sono quasi del tutto sconosciute ai “critici” amatoriali.
Parliamo di rock?
Bene, per il rock vale tutto il discorso fatto sopra, come vale per la musica in generale e tutte le arti di ‘sta ceppa.
Sui Beatles abbiamo la fortuna di possedere una quantità di dati critico-biografici a dir poco esaustivi. Come per tutti i fenomeni artistici non ancora storicizzati anche per il rock è ancora difficile riuscire a trovare un metro di giudizio oggettivo per giudicare le opere e gli artisti.
Di quanta gente, come per molti artisti del passato, è stata rivalutata l’opera a posteriori?
Velvet Underground, Fifty Foot Hose, Fugs, Replacements, Captain Beefheart, Death, Sonics (non comincio a fare liste adesso perché se no non finiamo più) e quanti ancora sarebbero da riscoprire (sì, anche più di adesso).
Altri invece, grazie alle vendite smodate, hanno dalla loro una maggiore storicizzazione, anche se spesso viziata dall’influenza delle majors sui mass media, e dunque sulla narrazione popolare che viene fatta e della insulse agiografie che costellano il mercato editoriale.
Il fatto che i Bay City Rollers abbiano venduto milioni di album li rendono importanti per la storia del rock? Non vi immaginate quante biografie esistano di questa band, e quanti fan si strappassero i capelli per andarli a vedere spendendo cifre astronomiche. Pensate davvero che questi fan siano scomparsi? Non è affatto così! Non è che ignorando un fenomeno commerciale che esso scompare!
Beyoncé vende milioni di album, gli Strokes pure, senza parlare dei Muse, dei Black Eyed Peas e moltissimi altri gruppi che molti ignorano, o che credevano sarebbero durati un paio di dischi ed invece continuano a vendere milioni di album sfondando record su record.
Ancora mi ricordo quei profeti che dicevano che “Britney Spears non ha contenuti, vedrai che scomparirà, un paio d’anni e nessuno se la cagherà” peccato che il settimo profilo Twitter più seguito AL MONDO sia quello della Spears con 33.761.000 followers. Quindi qualcuno che la valuta ancora c’è.
Come vedete è inutile valutare in modo positivo un artista per l’universalità del suo linguaggio o per il suo successo commerciale. Britney faceva musica di merda e continua a farla. Non è bello da dire, perché così facendo insulto in maniera indiretta chi la ascolta e la ama. Però il 99% di chi ascolta (anche a livello superficiale) rock odia i fenomeni pop in modo del tutto irrazionale.
COMINCIAMO:
I Beatles, come stavo dicendo, hanno venduto moltissimo. È un dato di fatto. È rilevante ai fini di una critica musicale? Sì, ma non così tanto.
Partiamo subito dicendo che i soldi sono indiscutibilmente una delle caratteristiche fondanti per la band. Ringo Starr entrò sotto la pressione di Epstein, non sotto quella degli altri membri della band, e George Martin controllò l’azione creativa della band fino al 1965, ovvero fino a “Rubber Soul”, perfino storici amanti della band come John McMillian ne descrivono le vicende interne come molto conflittuali, ma non per motivi artistici quanto di avarizia.
Fin qui ho detto solo delle ovvietà, e continuerò probabilmente a dirne altre.
Per molti i Beatles sono stati:
- abili mistificatori, bravi solo a seguire le mode e a fornicare groupies stra-bonissime;
- il più grande complesso di sempre, gli anticipatori di tutto, anche della dubstep;
Definire in due modi così diversi una sola band è sintomo di come la critica rock sia ancora agli albori per quanto concerne una scientifica storicizzazione. Da entrambi gli schieramenti ci sono molti critici affermati e tantissimi, troppi, appassionati.
La mole dei fans e degli haters dei quattro di Liverpool è tale da rendere semplicemente impossibile un ragionamento di tipo storico sul web, perché tanto è il cuore che comanda e ci trascina verso il baratro delle pernacchie via email.
È facile infatti trovarsi di fronte a milioni di fan di Piero della Francesca, che vedono nella sua unione ideale tra l’iconografia rinascimentale e la tecnica fiamminga il massimo raggiungimento di un genio (anche teorico), mentre altrettanti milioni lo ritengono sopravvalutato, un conservatore in confronto ad artisti più sperimentali come Paolo Uccello (e anche un po’ borioso).
Sinceramente tutte queste critiche fatte “per passione” trovano il tempo che trovano, e mi procurano solamente un gran mal di testa (altro che quelli di Morgan o degli Windopen).
I Beatles sono stati solamente moda?
No.
I Beatles sono stati i più rivoluzionari?
No.
I Beatles sono stati un avanguardia?
No, cazzo.
I Beatles sono la peggior band del pianeta?
No, no e no cazzo!
I Beatles sono stati una grande band pop! Letto bene? POP! Tutta la musica popolare di massa contemporanea (che forse inizia con la musica folkloristica che con le radio è divenuta di massa) deve la sua struttura musicale, produttiva, distributiva, aziendale e pubblicitaria a quel fenomeno pop che sono stati i Beatles.
La band assimilava gli impulsi dall’America e li trasformava in qualcosa di loro. Prima tramite la grande esperienza di Martin, poi grazie alle doti acquisite da Lennon&McCartney e dalle loro eclettiche passioni musicali che spaziavano da Buddy Holly al blues del Delta.
I Beatles, fino al 1969, non solo assimileranno tanta roba a giro, ma saranno anche quelli che con le loro hit definiranno il sound di una breve epoca. Dal ’67 in poi i Beatles saranno ampiamente superati come fenomeno musicale (ma non come fenomeno di massa), mentre loro traducevano in pop il rock psichedelico le band proto-punk (Troggs, Sonics, Velvet Underground, Stooges, MC5) stavano cominciando ad avere le prime influenze sulla scena internazionale, l’hard rock era ormai prossimo ad affacciarsi, e la psichedelia negli UK invece che trasformarsi nel pop di Sgt. Pepper’s si stava evolvendo nel prog (l’esplosione arriverà nell’anno successivo con Henry Cow, Family, Move e senza considerare gli americani It’s a Beautiful Day, da alcuni considerati come i padrini nobili del progressive rock).
Inoltre dire che all’inizio il fenomeno dei Beatles fosse seguito perlopiù da ragazzini e molte ragazzine quindicenni non è una bestemmia! Ricordo una bellissima testimonianza di Franco Fabbri (musicologo, chitarrista dei mitici Stormy Six) che racconta di come i “duri e puri” all’inizio preferivano gli Shadows ai commerciali Beatles. Anche nel libro che McMillian dedica allo smitizzare certe scemenze sulla biografia dei quattro, si ricorda come nelle prime tournée il pubblico fosse composto al 90% da ragazzine sovreccitate. Questo perché i Beatles nascono come un fenomeno più pop che rock. Non capisco però perché per alcuni questo dovrebbe essere offensivo!
A me piacciono davvero gli album degli Earth, Wind & Fire, se qualcuno mi dice: ma sono fenomeni da baraccone disco-pop! ci sto alla grande, l’importante è che mi piacciano! C’è gente che ti insulta la mamma se gli fai notare che sì: i Beatles sono una band che ha avuto delle grosse influenze sul rock (come su tutta la musica leggera) anche perché vendevano a palate, ma sono una band profondamente pop prima che rock. Qualcuno mi spiega dov’è il problema? Le categorie esistono per un motivo, non solo di semplificazione nell’ambito della divulgazione, ma anche per specificare le declinazioni estetiche.
Un’altra grande dote della band è ovviamente quella di essere riuscita a creare un formato canzone altamente fruibile. Le geniali melodie di Eight Days A Week sono semplici quanto trascinanti per gran parte delle persone. Poi ci sono strani episodi come quello di Taxman l’unica vera canzone politica della band, ma un po’ ridicola nei contenuti. Ricordo a tutti che le lamentele dei quattro non erano mica sulla pressione fiscale che attanagliava gli inglesi, ma su quella che attanagliava loro! Pressione ingiusta, e lo era sì, ma cazzo, se una cosa del genere me l’avesse scritta un Bob Dylan altro che le rappresaglie per la svolta elettrica!
Lo stesso Fabbri che prima ho citato definisce I Feel Fine come “complessa e sorprendente” ma al contrario di qualche sciroccato sa bene che non è un esempio di proto-prog, perché è un dannato musicologo che di rock ne sa e ne ha ben studiato (oltre che ben suonato e dunque masticato).
Ho seguito tantissimi congressi (o volevo dire sedute degli Alcolisti Anonimi? Non ricordo…) e discussioni di esperti impantanarsi su Tomorrow Never Knows. Definirla come la prima canzone psichedelica, solo perché vengono usati degli effetti con una qualità che nessuno si poteva permettere, e perché Ringo la suona “strano-strano” è a dir poco snervante. Sì, la struttura del pezzo propone soluzioni interessanti, ma non è mica l’unico pezzo interessante dei Beatles! Però per definirlo proto-psichedelico ci vuole una fantasia davvero fervida. La psichedelia non è semplicemente uno stile, non è un caso se è esistita una scena texana che è considerata fondante di quella americana e una inglese con componenti sia musicologiche che ci concetto molto diverse tra di loro.
Poi è abbastanza avvilente che canzoni straordinarie come Isolation di John Lennon non vengano riviste dal punto di vista del binomio biografia-artista (qui, una volta tanto, non solo rilevante ma chiave di lettura imprescindibile di uno dei pezzi più autentici della storia di questo musicista), mentre su molte biografie ci sono intere pagine sull’origine di Ob-La-Di, Ob-La-Da.
Dunque.
Grandissima band pop forse la più grande (ma non mi piace fare classifiche), fino al 1969 hanno prodotto un pop-rock da antologia collezionando canzoni allucinanti, battendo record su record e riuscendo a comunicare a tantissime generazioni. Contenuti pochini, perlopiù buonisti – e sui quali si dividerà proprio la coppia d’oro Lennon-McCartney, però siamo lontani da esempi di musica seminale come Bob Dylan, Fugs e Frank Zappa (per dirne tre a caso). Grazie ad uno studio di registrazione, quello sì all’avanguardia, doneranno alla discografia mondiale album di pura perfezione ingegneristica, con effetti e suoni stralunati per l’epoca davvero eclettici. Come ogni band hanno avuto momenti davvero bassi e momenti più alti, ma col merito di essersi sciolti prima che arrivassero album indecenti.
Non hanno inventato tutto, ma nella storia del rock c’è un prima e c’è un dopo i Beatles.
The Litter – Distortions
Quello che vi propongo oggi è un acquisto sicuro, anche se non di eccelsa qualità concettuale.
Sì perché credo che ogni tanto ci sia bisogno di far girare sul piatto un disco che alla fin fine non abbia chissà quali pretese, ma che faccia quel pizzico di rumore che comunque ci allieta la giornata.
E di rumore “Distortions” ne fa, dato che Warren Kendrick lo volle chiamare così perché l’intero album è caratterizzato dall’uso smodato del fuzz-tone.
Il garage dei The Litter è elettrico oltre ogni immaginazione, le casse sembrano emettere fulmini mentre le tracce si susseguono, il che credo sia un ottimo incentivo per l’acquisto di un album di fottuto rock, no?
Cos’altro hanno questi The Litter? Beh, nulla.
“Distortions” esce nel 1967 sull’onda del successo del 45 giri “Action Woman / ”Whatcha Gonna Do About It”, pubblicato da un’etichetta a me sconosciuta (la Warick). Se consideriamo quanto il garage aveva dato fino al ’67 il disco dei The Litter non sorprende né colpisce per una qualche idea in particolare, sono i soliti cinque ragazzini bramosi di fama che indossano vestiti di dubbio gusto e suonano come un Woody Guthrie impasticcato.
L’anno prima uscì dei The Seeds il loro primo album omonimo, una pietra miliare per il rock, un garage a tinte acide che spesso anticipa il punk (No Escape), era uscito un album pieno di ironia e contenuti serissimi come “Black Monk Time” dei The Monks (Complication), The 13th Floor Elevators, Electric Prunes e Blues Magoos tenevano alto il vessillo psichedelico mentre i Sonics spianavano la strada per il punk duro e puro (Strychnine). I The Litter nel 1967 erano in ritardo per la festa.
Un’altra cosa interessante è che “Distortions” è un album di cover, i Litter se ne fottono altamente di scrivere qualcosa di pugno, massacrano a suon di fuzz-tone gli Who, gli Small Faces, gli Yardbirds, cazzo si prendono pure Spencer Davis Group, non si fanno mancare nulla queste fighette di Minneapolis.
Però lo spirito di quei folli anni c’è tutto in questo album, anzi “Distortions” nella sua povertà concettuale è un disco che suona sporco e vivo come pochi nella storia del rock.
Mai un calo di tensione, mai un momento di noia, mai una pausa. La qualità espressa da Jim Kane, Dan Rinaldi, Tom Murray, Bill Strandlof e Denny Waite è strabiliante, e tutto in rigoroso MONO (tranne che per The Egyptian).
Questo è un album che dovrebbe far riflettere tutte quei dannati musicisti perfettini che se non registrano “da Dio” manco pubblicano un loro ruttino. Eppure a volte non servono nemmeno le idee, occorre solo quella fiamma indomabile che il rock incarna nelle sue esplosioni elettriche.
L’album si apre con la bellissima Action Woman, un monolite del garage rock presente in qualunque collezione si rispetti su questo nobile genere. Se non ti convince un pezzo così sei messo male.
Via subito a razzo con la cover degli inglesi Small Faces, Whatcha Gonna Do About It? che orfana della voce di Marriott si riprende con delle indemoniate sferzate chitarristiche di Rinaldi. Un classe unica.
Siamo alla terza traccia e già possiamo sentirci pienamente soddisfatti dell’acquisto, perché Codine in questa veste distorta è quanto di più rock si possa immaginare. Lenta, potente, elettrica.
Somebody Help Me è un brit-rock basilare suonato da dei geni.
Substitute è la prima cover degli Who, e passa pieni voti. Anche inspiegabilmente del lotto è il pezzo che ha sofferto di più l’inevitabile scorrere del tempo (in coda c’è spazio pure per The Mummy di Tommy “Zippy” Caplan).
Si conclude il primo lato con la psichedelia stereofonica di The Egyptian.
Parte di corsa I’m So Glad con le solite impressioni elettriche col fuzz-tone che riempiono la stanza di luce.
Seconda e ultima cover degli Who, anche A Legal Matter tiene il passo.
In Rack My Mind si presenta pure un’armonica, ma niente blues o folk music del cazzo, fuzz-tone in funzione e garage incazzato per tre minuti e mezzo.
Soul Searchin’ e Blues One elettrizzano le palle con gaudio. Troppo bravi per essere vero.
Si conclude anche questo giro di giostra, ma per chiudere una chicca: I’m A Man, in una versione veloce, distorta e sporca come non l’avete mai sentita.
Il bello di questi album è che non devi scriverci sopra più di tanto, né ci vuole troppo a convincerti, ti piace il rock? Adori il rumore più sgradevole? Sotto la doccia canti The Witch dei Sonics? Beh, stronzetto, o stronzetta che sia, devi avere questa merda.
- Pro: è rock gente, che altro volete sapere? Cazzo, certo che con i Pro e i Contro ultimamente sto proprio messo male…
- Contro: se non ti piace il garage lo terrei lontano due sistemi solari da te.
- Pezzo Consigliato: le prime tre tracce sono da antologia.
- Voto: 7/10
The Monks – Black Monk Time
Primo: la band che prenderemo in considerazione in questa recensione spacca i culi con potenti dosi di rock, quindi dovete ascoltare questo dannato disco.
Secondo: sono in vacanza, quindi sono in uno stato di scazzo assolutamente giustificato, la recensione verrà di merda, potete dunque saltarla a piè pari e scendere dal vostro spacciatore di dischi di fiducia e comprare questo fottutissimo album.
Cominciamo.
Qual’è il ritmo dell’estate?
Non so il vostro ma il mio qua a Villagrazia di Carini, in provincia di Palermo, viaggia costantemente su fastidiose emissioni di musica latino-americana, Lunapop, Donna Summer e Muse sparati a palla dal carretto dei gelati. Preferirei un concerto dei Sonata Artica a tutto questo.
Detto ciò grazie agli straordinari ritrovati tecnologici contemporanei (le musicassette) riesco a sopravvivere quel tanto che basta per scrivere cagate sul computer e per leggere roba come “Lila” di Pirsig e “Please Kill Me” della premiata ditta McNeil-McCain. Inoltre il costante rompersi dello stereo fortifica la mia dolce ulcera.
Naturalmente sono al mare, ma la brezza marina non aiuta molto, non almeno quando, verso le due e mezzo del mattino, trasporta in camera mia assieme alla sua frizzante arietta anche le serate di karaoke a qualche isolato da qui.
Ci sono anche i vicini, ma a quelli cerco di contrattaccare. Ogni qual volta il mio gentile vicino tenta di inquinare il mio spazio vitale con oscenità sonore che vanno dai sempre verdi Backstreet Boys a Vasco Rossi io rispondo a mio modo, e quale modo migliore se non un album come “Black Monk Time”?
Se sapete già chi sono i Monks mi avrete mandato a cagare sù per giù alla seconda riga di questa sconclusionata recensione, ma se non li conoscete sappiate che vi siete persi (finora) una delle band più assurde e geniali dell’intera storia del rock & roll.
Intanto contestualizziamo (quindi mi stappo una birra), siamo nella prima metà degli anni ’60, i Monks credo comincino a suonare assieme intorno al ’64, e se i giovani virgulti dell’epoca ascoltavano i Beach Boys con i loro coretti che anticipavano i Village People e i cori ecclesiastici nella zona di Rignano sull’Arno, altri un po’ più furbi (come i Monks) ascoltavano le folli distorsioni del vero surf rock di Dick Dale (mentore di Hendrix), avevano in casa “The Standells In Person At Pjs” e si masturbavano al ritmo dei Vagrants e dei mitici Sonics (punk ante-litteram). Bei tempi in effetti.
Comunque questi cinque militari (!) americani di stanza a Francoforte avevano un’avversione per una band in particolare: i Beatles. Il che, molto stranamente, non gli è avvalsa la prima posizione in tutte le classifiche di Scaruffi.
I loro ritmi scanzonati [parlo dei Beatles], le loro canzoncine d’amore alternate a qualche sporadica considerazione sulla realtà al di fuori della loro gabbia dorata (che arriverà dopo “Rubber Soul”) facevano incazzare i Monks come Richard Benson davanti ad un pollaio. Così decisero, per motivi che non intendo sondare, di vestirsi da monaci (con tanto di chierica) e di provocare le masse con riff che facevano tremare le palle a tutti i vari Kings, Yardbirds e cazzi e mazzi.
Il sound che i Monks concepiranno è oggi oggetto di discussione tra i critici di DeBaser o di Onda Rock, i quali adorano come nessuno i discorsi intorno al nulla o sull’effimero.
Sicuramente troverete persone che vi diranno che i Monks anticipano il punk, il che è giusto parzialmente ma se consideriamo band come Sonics o i Troggs, i quali sono molto più proto-punk dei quattro frati americani, allora forse è meglio semplificare le cose e inserirli nel miglior garage rock di sempre (hanno qualche affinità per esempio con i Music Machine, se non fosse per il banjo elettrico!).
Qualche pazzo addirittura li inserisce tra i fondatori dei kraut rock, e io proprio non capisco. Se in I’m Waiting For The Man dei Velvet è più che mai doveroso parlare davvero di punk sia come sound che come testi e concetto, nei Monks il sound, per quanto ritmato e deciso, è comunque legato al garage ed è ben distante dai ritmi serrati del kraut che erano funzionali a negare concettualmente un certo tipo di rock (consapevolezza che manca ai monaci del garage). Quindi ci sta di ascoltarli e sentire quasi una predizione dei Neu! o dei Faust, ma se nel caso dei Velvet, come nei Sonics e nei Troggs, la volontà di essere punk esiste ben prima che il concetto possa essere espresso, nei Monks c’è solo una voglia di avversione ai Beatles e company che si vuole esprimere con il vero rock, il garage per l’appunto.
I Monks non solo ti aggrediscono con un rock davvero pesante e irriverente per il 1966 (data di pubblicazione del loro unico album, “Black Monk Time”) ma oltretutto non si risparmiano neanche nelle liriche. E qui siamo lontani dal sesso frenato dei Sonics o dei Troggs, siamo lontani dai riferimenti alla droga di inni come Here Come the Nice degli Small Faces (che è dell’anno successivo, ma ricordiamoci che sono in vacanza e sto cazzeggiando allegramente, ok?), in “Black Monk Time” si parla di politica, e in particolare di guerra.
Solo un’altra band, ancor più leggendaria dei Monks, aveva usato toni così diretti (e anche indiretti, siamo comunque nel ’66) nel parlare di guerra negli USA: i Fugs.
Se tutto ciò non vi basta ascoltatevi i riff veloci e sporchi di Higgle-Dy-Piggle-Dy (con un organo allucinato alla Brian Auger), innamoratevi di uno dei capolavori del rock: Complication, lasciatevi stupire dal banjo elettrico di Shut Up.
Volete zittire il vicino al mare che mette a tutto volume i suoi balli di gruppo latino americani (che poi ballerà la sera stessa con i parenti over 50) con un po’ di sano rock? Beh, dato che con “Metal Machine Music” vi becchereste una bella denuncia per inquinamento acustico, allora potete tranquillamente virare verso i Monks.
- Pro: semplice e incazzato rock. Vi pare davvero poco???
- Contro: boh.
- Pezzo consigliato: Complication.
- Voto: 7,5/10
Pink Floyd, la discografia (parte seconda)
[questo post è preceduto da questo]
Ritorniamo nel 1969 con “More”, un’opera interessante ma quanto mai sopravvalutata. In sé l’album contiene della buona musica, non un vero e proprio passo avanti per i Pink Floyd, ancora alla ricerca di una vena creativa che esploderà l’anno successivo, però c’è un qualcosa che inficia pesantemente su questo album come su “Obscured by Clouds” del ’72: questi due album erano pensati in teoria per essere colonne sonore.
Fare musica per film è una cosa seria. La musica dev’essere non solo accompagnamento, ma deve rientrare nel progetto filmografico ed essere una parte narrante attiva. Per quanto Moroder sia bravo (ehm) la colonna sonora rifatta di “Metropolis” è uno scempio mai visto, aggiunge parole, concetti e suoni del tutto estranei all’opera di Lang, distorcendone inevitabilmente la visione. Al contrario la semplice The End di Jim Morrison, che Francis Ford Coppola ha voluto per il suo “Apocalypse Now”, funge come un coro greco donando profondità al personaggio e ci aiuta a comprendere meglio la poetica e il messaggio che sta dietro al film. Per non parlare di lavori ben più raffinati dove la musica è ancora più importante dell’immagine per comprendere lo sviluppo della narrazione come in “Trois coleurs: Bleu” di Kieślowski, oppure nei film del grandissimo Sergio Leone musicati da Ennio Morricone, dove il regista (un totale ignorante in fatto musicale) per ideare una scena partiva quasi sempre dalle note di Morricone, costruendo il montaggio in sincrono con esse.
Quello che invece fa Schroeder (il regista di “More” (1969) e di “La Vallée” (1972) musicati dai due album sopra detti dei Pink Floyd) è un’operazione di tragico copia-incolla, prendendo i pezzi composti dai Pink Floyd e incollandoli nei suoi film raramente con criterio. “More” per i primi ’50 minuti sembra un film di propaganda per le droghe (ma per fortuna non è così), e la musica è messa lì senza un vero perché, già con “La Vallée” ci sono dei riferimenti ben precisi tra musica e trama, ma il lavoro di sovrapposizione delle tracce in alcuni momenti del film è abbastanza casuale, o comunque non riesce mai appieno.
Nel ’70 ci provano addirittura con il genio Antonioni, l’album si chiama come il film: “Zabriskie Point”; una prova leggermente migliore come incastonatura cinematografica, anche se quasi tutte le proposte musicali dei vari artisti impegnati col film non furono molto apprezzate da Antonioni (i Floyd parteciperanno con tre pezzi, di cui due originali, ma inizialmente dovevano occuparsi dell’intera colonna sonora). Da ascoltare Come In #51, probabilmente la miglior versione esistente di Careful with That Axe, Eugene.
Presi come album “More” e “Obscured by Clouds” hanno i loro pregi e i loro difetti, e per quanto mi riguarda sono entrambi dischi più che dignitosi (anche Clouds, che a livello di composizione è banale, ma il suo dialogo con l’azione filmica è migliore di “More”), ma come musica per film fanno proprio pena.
Il 25 ottobre del 1969 esce “Ummagumma”, assieme al celebre bootleg in Belgio con Frank Zappa. “Ummagumma” è un doppio, in bilico tra la sperimentazione e nostalgia.
La nostalgia si esprime con il primo disco, una live, dove i Floyd ripercorrono la loro breve storia: dalla psichedelica cosmica di Astronomy Domine al pandemonio controllato di A Saucerful of Secrets (sonorità che saranno riproposte nel celebre “Pink Floyd: Live at Pompeii” del ’72).
Il secondo disco è certamente il più interessante (ma non necessariamente il migliore). Ci tengo a far notare come nessun membro dei Pink Floyd dirà mai di esser stato soddisfatto dal proprio lavoro in questo album, rinnegato da quattro quarti della band. Proprio per questo “Ummagumma” risulta essere il miglior album dei Floyd del post-Barrett fino al ’70, la libertà creativa, i problemi, le pressioni, le angosce e le diverse personalità vengono fuori con prepotenza, un disco autentico e che denuda i singoli membri e li mostra in tutti loro difetti. Con Sysyphus Wright mostra intanto di essere quello con le basi musicali più solide, e come per i Velvet Underground e gran parte dei movimenti d’avanguardia conosce bene John Cage e i suoi insegnamenti. Con un sound angoscioso e forzato Sysyphus resta la prova di maggior spessore dell’album. Grantchester Meadows e Several Species Of Small Furry Animals Gathered Together In A Cave And Grooving With A Pict sono due uscite di Waters molto divertenti quanto fini a stesse. Non ha intenti “alti” il buon Waters, e forse con queste due composizioni sembra quasi beffarsi un po’ del resto della band, quando in realtà come confermerà negli album successivi non si discosterà poi così tanto da questa idea goliardica di sperimentazione.
The Narrow Way è un’occasione per David Gilmour di dimostrare di possedere una qualche dote compositiva. Alla fine non và oltre il compitino, ma le atmosfere si collegano comunque all’irrequietezza che aleggiava nella band e quindi nel mood nell’album stesso. Si conclude il giro con The Grand Vizier’s Garden Party di Mason, il più onirico dei quattro. Virtuosismo (non incredibile) senza direzione. Anche nel loro volto più sperimentale i Pink Floyd deficitano però di narrazione musicale. Meglio se mi spiego, però.
Album ormai conosciutissimi come “Parable Of Arable Land” (1967) dei Red Crayola hanno nella loro dimensione caotica un sottoinsieme narrativo piuttosto forte. Il disco è un passaggio ipotetico da “Junkie” (1953) il romanzo di Burroughs (edito in Italia con il titolo “La scimmia sulla schiena”) al free-jazz più spinto, frutto di una esperienza (la droga) che viene narrata tramite il caos più inascoltabile. La narrazione in un disco sperimentale può essere la chiave di lettura più affascinante e funzionale, che permette all’ascoltatore di non limitarsi ad un ascolto attivo ma meramente tecnico, quanto ad una immersione diversa dal solito nell’ambiente sonoro, fatta di stimoli e impressioni che devono essere colti dalla nostra personale sensibilità. In questo senso non si discosta nemmeno così tanto un album come “From The Caves Of The Iron Mountain” di Steve Gorn, Jerry Marotta e Tony Levin , un viaggio straordinario in queste meravigliose montagne che ha nei suoi ambienti sonori dei rimandi narrativi piuttosto espliciti (il suono dei passi, per esempio).
“Ummagumma” è un dunque un ottimo sunto dei Pink Floyd nel momento di passaggio tra Barrett e Waters.
Prima di passare ad “Atom Heart Mother” soffermiamoci un attimo su Roger Waters, in particolare con il suo primo album solista per il film “The Body” (“Music From “The Body””) del 1970. In realtà l’idea e la composizione di questo album, per alcuni sperimentale (per me un passatempo, oppure una sorta di musica descrittiva morbosamente realista), è di Ron Geesin, lo stesso che comporrà per i Floyd la mastodontica suite di Atom, autore assolutamente marginale, celebre per una continua spettacolarizzazione di esperimenti musicali di nessun valore. La sperimentazione per Waters è un qualcosa di leggero, divertente ma non troppo irriverente, difatti Waters non vuole essere un profeta della musica rock, piuttosto ha quella spinta nell’invenzione a tutti i costi di matrice infantile (perché non porta a nulla, non perché sia scritta male).
L’idea di un suono sperimentale commerciabile nasce proprio con i Pink Floyd (anche se ha i suoi precedenti nella Tobacco Road dei Blues Magoos e in “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, con la sostanziale differenza che per i Floyd divenne un marchio di fabbrica) ma nasce in primis da Waters, che già con i suoi interventi in “Ummagumma” riesce a utilizzare il linguaggio della sperimentazione in chiave incredibilmente soft-rock.
“Atom Heart Mother” era essenzialmente il “o la va o la spacca” della band, orfana definitivamente di Barrett e senza le sue idee così appetibili al mercato dovevano per forza di cose concludere qualcosa. Grazie a Geesin riusciranno a donare alle impressioni inizialmente confuse dei singoli membri una unitarietà inaspettata (di questa esperienza faranno tesoro fino a “The Wall”, per poi dimenticarla senza un motivo preciso).
Il primo lato di “Atom Heart Mother” è occupato dalla suite composta da Geesin (il quale non vedrà mai il suo nome stampato sull’album, anche se da qualche anno i legali hanno rimediato a questa “svista”) che mescola senza timore sperimentazione (Red Crayola, Magma) al blues e al prog rock. Probabilmente la suite più divertente della storia del rock assieme a Echoes (di cui parleremo dopo). Difficilmente il rock meno impegnato riuscirà a sfornare musica di questo livello, non ci sono dubbi: per quanto riguarda il soft rock commerciale i Pink Floyd di Waters sono il meglio a disposizione, e questa suite lo certifica. Il lato B propone quattro tracce, la prima minimalista e in bilico tra l’intellettuale e l’effimero, ovvero If di Waters, la bella e nostalgica Summer ’68 di Wright (che conferma la sua statura compositiva nei confronti di Waters, genio sregolato senza direzione fino al ’79), seguita dalla ottima Fat Old Sun di Gilmour, ancora oggi un suo cavallo di battaglia nelle live, una delle sue poche composizioni degne di nota. Conclude la carrellata Alan’s Psychedelic Breakfast, composta da tutti i membri della band e che trova la sua definitiva consacrazione nel leggendario bootleg “A Psychedelic Night” sempre del 1970.
Poco prima dell’uscita di questo album, come detto “o la va o la spacca” (e andò assai bene, sbancando anche in U.S.A.) uscì anche la prima raccolta dei Pink Floyd, che non è “Relics” la quale uscirà l’anno successivo, ma bensì “The Best of Pink Floyd” meglio conosciuto nelle recenti ristampe come “Master of Rock”. Questo disco è un vero e proprio spaccato della band nel periodo più critico, ovvero il passaggio di consegne da Barrett a Waters, e ci propone tutti pezzi o coevi e precedenti a “The Piper at the Gates of Dawn”, quasi una bocciatura ufficiale di quanto fatto oltre quel primo leggendario album!
Ripresi dalla botta di soldi arrivati con “Atom Heart Mother” (i quali aiutano sempre a ritrovare una certa autostima) nel 1971 pubblicheranno il ben più famoso”Relics” (la copertina originale era un disegno di un fantasioso strumento musicale, quella odierna rappresenta lo stesso strumento ricostruito da Storm Thorgerson e poi regalato a Mason, autore del disegno originale), il best of anche stavolta prende molto da Piper, ma spuntano fuori singoli dagli album successivi: i Pink Floyd stanno finalmente superando la sudditanza dal genio di Barrett.
Poco prima di “Relics” viene fatto uscire “Meddle” (sempre nel 1971), un disco che ho amato profondamente, di certo uno di quelli che ho ascoltato di più da adolescente, ma che negli ultimi anni ho dovuto ridimensionare non poco (questo non toglie il piacere dell’ascolto, sia chiaro).
Difatti il buon “Meddle” è la più grande presa per il culo mai sentita nel rock (ok, non la più grande, però ci voleva una cosa d’effetto se no qua ci s’addormenta). Non per la musica, che è tutt’altro che scarsa o mal suonata o cazzi e mazzi. Ancora una volta il lavoro di ingegneria del suono è impressionate (non lo abbiamo detto di Atom, ma è un discorso trasversale che d’ora in poi vale per tutti gli album dei Floyd che prenderemo in considerazione), ci sono pezzi che sono nella leggenda, ma il concetto dietro l’album e la sua composizione ne sviliscono non poco il prodotto finale.
“Meddle” è il copia-incolla di Atom, non solo per struttura del disco in sé (un lato per la suite e l’altro per i pezzi singoli) che va bene, ci mancherebbe, è una libertà indiscutibile e che non toglie né dona valore ad un album, ma per il copia-incolla della struttura della suite (con pochissime variazioni in generale), e poi per l’aver trovato delle sonorità che “funzionano” e averle riproposte tali e quali senza alcun tentativo di migliorare il prodotto musicale finale.
I Pink Floyd, leggasi anche come “Roger Waters e i suoi fantastici amici”, hanno trovato la formula magica per fare della musica tutta uguale ma vendibile come unica. Il sound particolare e inimitabile e la cura certosina dal punto di vista ingegneristico sono da una parte una sicurezza per i fan (vedi me, che adoro il disco in questione) ma certamente non sono un pregio per chi vuole avvicinarsi ai Pink Floyd con ormai una certa cultura rock appresa negli anni.
C’è poco di sincero e di autentico in “Meddle”, lo studio freddo e distante della band fa poco rock, ma piuttosto pop o soft-rock da masturbazione emo-tiva. Che poi tutto questo sia filtrato dal Rock e dalla sperimentazione non cambia il risultato finale. La critica sociale nei Floyd praticamente non esiste, e la capacità liriche di Waters, oggi innalzato come uno dei più grandi parolieri del rock, sono in realtà assi povere di contenuti e sopratutto a livello letterario (ovvero a quello che le compete, nulla più, nulla meno) sono piuttosto mediocri. Quello che resta alla fine è un sound.
Stavolta il lato A ci presenta i singoli e il B la suite. One of These Days già contiene in in potenza qualcosa di “The Dark Side of the Moon” ed è uno pezzi più riusciti nella carriera dei Pink Floyd. Poi c’è Fearless tra le migliori collaborazioni made in Waters/Gilmour a mio modesto avviso, semplice ma intensa, favolosa l’intuizione di Waters di inserire il You’ll Never Walk Alone (anche se, se non ricordo male, il sample usato da Waters deriva da un collage di un altro musicista, ma non mi sovviene alcun nome, inoltre questo post lo sto scrivendo a braccio in piena notte, dunque abbiate pazienza per queste dimenticanze o imprecisioni del cazzo!) famosissimo coro dei tifosi del Liverpool. Si chiude con San Tropez e Seamus, un lato A di un pop raffinato ma sopratutto, non mi stancherò mai di ricordarlo, straordinario per l’ingegneria del suono. Si è persa quasi totalmente la vena psichedelica.
Echoes è una sintesi perfetta del sound dei Pink Floyd, copiando quanto fatto con Geesin (rivelatosi un spunto di fondamentale importanza per la loro carriera a venire, e ringraziato a suon di patate) riescono condurci in un viaggio immaginifico, costruito con sapienza ma anche con una certa dose di freddezza. Resta un pilastro della composizione del soft rock, ben poca roba nel prog che vedeva i King Crimson sfoderare in due anni “Lizard” e “Island” (preparandosi all’apice compositivo di “Lark’s Tongues In Aspic” del ’73) e i Soft Machine robetta come “Volume Two” e “Third”. I paragoni con la scena progressive ormai non reggono più, ma i Pink Floyd sono già un prodotto a sé stante, proprio come voleva Waters.
Divertente il “caso” italiano di Paolo Ferrara e del suo “Profondità”, un album che creò qualche diatriba anni fa a causa di alcune assonanze con i pezzi dei Pink Floyd, se non addirittura dei veri e propri plagi. Secondo qualcuno la band di Waters avrebbe copiato molte idee da questo disco di Ferrara per poi inserirle in album come “Meddle” ma anche in “The Dark Side of the Moon” e “Wish You Were Here”. Vi invito all’ascolto delle tracce facilmente reperibili su YouTube, capirete da voi come le sonorità siano ben oltre la data suggerita da Ferrara (1972, secondo l’esimio), ma resta comunque un album piacevole e per niente scontato. Un caso simpatico, nulla più.
Nel ’72 esce “Obscured by Clouds”, sul quale direi di aver speso il giusto numero di righe. Ma nel 1972 esce anche il meno conosciuto “Pink Floyd – Zürich 1972”, con una bellissima versione di Childhood’s end da Obscured, che merita l’ascolto per quanto mi riguarda.
Pink Floyd, la discografia (parte prima)
Questo speciale sulla discografia dei Pink Floyd [diviso in tre parti, questa, quella e quell’altra] lo faccio per allontanarmi ufficialmente da due categorie di pensiero sulla band:
- la prima è quella per cui “The Piper at the Gates of Dawn” è l’unico disco decente della loro discografia, per me non è così, anche se lo ritengo il migliore (tranquilli, spiego anche il perché);
- la seconda categoria è quella per la quale qualsiasi cosa abbiano prodotto i Pink Floyd, dagli album alle raccolte, dai singoli ritrovati ai bootleg, fino ai dischi solisti dei componenti della band è oro colato, dannato oro colato. O comunque meglio di tanta altra roba a-prescindere;
I Pink Floyd sono stati la terza band rock che ho conosciuto, subito dopo Genesis e Led Zeppelin, non c’è dubbio che esista un legame affettivo tra me e il gruppo, non lo nego né tanto meno cercherò di negarlo proponendovi una visione oggettiva della loro discografia, le mie opinioni sugli album sono un miscuglio che va dall’ascolto giovanile e passivo fino alla riflessione storico-contestuale, senza dilungarsi troppo e senza alcun punto di riferimento se non la mia esperienza.
Non parlo quasi mai delle band fuori dal contesto degli album prodotti, non mi interessa, ho letto biografie di molti gruppi e anche dei Pink Floyd, ma non le ritengo quasi mai rilevanti a meno che non ci sia una diretta correlazione tra il prodotto finale e la percezione dell’ascoltatore (badate bene: non dell’autore ma dell’ascoltatore).
Possiamo cominciare?
Bene.
Piuttosto celebri i primi passi dei Floyd, spesso ci si dimentica come la band non soffrì mai così tanto la fame come qualcuno dice, infatti già con i primi singoli da Arnold Lane/Candy and Currant Bun fino anche ai meno celebri Apple and Oranges e Julia Dream riscuoteranno subito un buon successo. Il pubblico che accoglierà i Pink Floyd di stampo fortemente “barrettiano” è un pubblico ormai ben allenato alla psichedelia (quasi sempre legata al garage almeno in America), in fondo anche Fresh Garbage degli Spirit era un hit, i ragazzi ascoltavano i The Leaves, i Canned Heat, il grandissimo Tim Buckley, i The Move, i Jefferson Airplane e duemila altre band che non mi metto qui a elencare.
Quindi il sound dei Floyd non era ostico per niente alle orecchie europee e statunitensi, in particolare per essere una band psichedelica i Pink Floyd non tratteranno mai male l’ascoltatore e quasi mai lo porteranno ai limiti della sopportazione, anche nelle sperimentazioni più “estreme” i Pink Floyd resteranno sempre ben aggrappati a dei canoni estetici e comunicativi universali.
La forza carismatica di Barrett dettava legge nella band, la sua creatività esplosiva lo poneva inevitabilmente al di sopra degli altri membri. Probabilmente Syd Barrett è stato uno dei musicisti più influenti di tutta la storia del rock, e la portata di questa influenza non è ancora stata ancora stimata con precisione.
Anche singoli come It Would Be So Nice di Richard Wright soffrono fortemente l’ascendente musicale di Barrett, si salva proprio il b-side di questo singolo, ovvero Julia Dream di Roger Waters, non così tanto forse, ma di certo se c’era una personalità che voleva spiccare nella composizione di singoli appetibili (non facendo carta carbone di Barrett) quello era Waters.
I Floyd si fanno strada nei locali più “in” del momento, la psichedelia in quegli anni sta già perdendo la sua carica rivoluzionaria iniziale per diventare un divertissement per la medio-borghesia, la gente leggeva Burroughs, Kerouac e Bukowski, ma pochi ne assimilavano il contenuto, stava nascendo una moda.
Nel 1967 esce “The Piper at the Gates of Dawn”, con molta probabilità il più grande album psichedelico di tutti i tempi, e anche quello che ne decretò la fine come genere (nella sua accezione classica, of course), inoltre è uno degli album più seminali di sempre e che ancora oggi ha delle influenze gigantesche (Thee Oh Sees, White Fence, Jacco Gardner, Jeffrey Novak, solo per citarne alcuni dei giorni nostri).
Piper è una raccolta incredibile di idee e intenzioni, da una parte Barrett che vorrebbe diventare come Jimi Hendrix, dall’altra lo stesso Barrett che al massimo è l’incubo folle di Jimi (mettete in confronto Interstellar Overdrive a Uranus Rock, Syd è chiaramente contemplativo e introspettivo, Jimi estroverso e manierista). Distorto, confuso, allegro e irriverente, sono pochi gli aggettivi che sfuggono alla penna del critico quando si ritrova di fronte ad un disco così complesso quanto elementare, così importante quanto incompreso.
Qui c’è la sintesi di tutto il movimento psichedelico, diluito in brevi pillole appetibili (anche commercialmente) dalla fulgida e insana mente di Syd Barrett. Il resto della band fa da comparsa se eliminiamo Take Up Thy Stethoscope and Walk, il singolo di Waters che musicalmente però non si discosta dal sound imposto da Barrett (e intavola già dal 1967 quel personaggio che Waters si porterà dietro di critico dell’umanità, impegnato a discostare l’uomo dalla scimmia, un ruolo che, a parer mio, non riuscirà mai a interpretare in modo credibile).
Astronomy Domine, l’attacco di Lucifer Sam (geniale la recente cover dei MGMT), il riff di Interstellar Overdrive, lo scampanellio delle biciclette di Bike (splendidamente coverizzata nel secondo album di Ty Segall), tutto in Piper è passato alla leggenda. L’unico brano ereditato dai singoli è The Scarecrow (uscito quello stesso anno assieme alla celebre See Emily Play) per il resto Barrett dimostra la sua infinita capacità creativa, un genio incredibile.
Peccato che Barrett decise di bruciarsi il cervello, dimostrando ancora una volta che anche un genio può essere un perfetto idiota. In fondo anche un visionario come Kubrick disse che Spielberg è un grande regista, e lo disse da sobrio, dunque a posteriori possiamo dire che al buon Barrett non è andata poi così male.
Il successo di singoli come Interstellar Overdrive inizieranno i Floyd ad una carriera non proprio qualitativamente altissima nel cinema (diciamo pure merdosa, dai). La traccia sarà difatti utilizzata per “Tonite Lets All Make Love In London” di Peter Whitehead, un regista mediocre noto soltanto per aver registrato molte band rock agli esordi, lo si ricorda perlopiù per il precedente “London ’66–67” che raccoglie due registrazioni dei Pink Floyd e qualche intervista. Secondo Wikipedia Whitehead è considerabile come un precursore del video-clip, ma è solo una delle tante voci imbarazzanti di Wikipedia, nulla più.
Nessun album dei Pink Floyd intaccherà in modo così profondo la musica rock, per quanto le vendite siano propense a farci credere che con “The Dark Side Of The Moon” e “The Wall” i Floyd abbiano espresso il loro meglio, il che non è improbabile almeno se consideriamo l’uscita di Barrett e l’inevitabile avvicendamento di Waters come la creazione di un’altra band diversa dalla prima, Piper è una pietra miliare che la musicologia deve prendere in considerazione in modo più serio e analitico, un monumento dalle proporzioni colossali.
L’attività dei Floyd tra il ’67 e il ’69 è frenetica, il che quasi sempre presuppone un notevole calo della qualità, eppure questi tizi riusciranno a produrre comunque qualcosa di interessante.
Senza il genio folle di Barrett i Floyd rischiano seriamente di diventare una copia edulcorata di Arthur Brown o dei The Move, ma si salvano grazie ad una serie di scelte dettate dal caso e dal cinismo di Waters.
Gilmour arriva per rattoppare i vuoti lasciati da Syd e porta un sound nella chitarra che pian piano verrà fuori e resterà nell’immaginario collettivo fino ad oggi. Una tecnica pulita, un suono sempre riconoscibile. Peccato che non valga un laccio di Barrett in quanto composizione, non è un caso se con l’insuccesso di Point Me at the Sky Waters deciderà conclusa l’esperienza dei singoli (sapendo bene di non poter più contare sulle idee geniali ma appetibili commercialmente di Barrett) e si concentrerà sugli album e sul donare un sound ben preciso alla band. Il suo.
Nel ’68 ci riprovano con il cinema, scrivendo qualche pezzo mediocre per il tragico “The Committee”, una merda allucinante del prode Peter Sykes, conosciuto dagli studenti del DAMS e dai nerd per aver dato vita al mitico serial “The Avengers”, un divertente serial inglese che seguiva la moda cinematografica del momento delle spy-story e si basava sui feuilleton a tinte poliziesche e pieni di figa.
Dopo questa indecente prova si rifaranno con “A Saucerful of Secrets”.
Il disco è una pietra miliare della band, un po’ meno del rock. Perché dico questo? Waters prende le redini della band e la trasporta verso dei lidi pericolosi, dalla psichedelia di stampo garage si passa al prog inglese, ma sopratutto mette giù le basi per un sound talmente particolare da essere unico.
Se da una parte il sound inimitabile dei Floyd è una caratteristica che esalta i fan, dall’altra rende inattaccabili i suoi detrattori, i quali quelle sonorità proprio non riescono a mandarle giù. Forse il problema dei Pink Floyd di Roger Waters è quel lavoro da equilibrista che non porterà mai la band alla sperimentazione estrema come invece poteva sembrare con “A Saucerful of Secrets” e con “Ummagumma” dell’anno successivo, e neanche ad un tentativo di fare genere (tranne che per il caso “The Wall”).
Quindi sebbene Saucerful non sia una pietra miliare del rock (per quanto riguarda la composizione e la portata innovativa – che è di fatto nulla) è un disco abbastanza della Madonna. Bisogna chiaramente apprezzare il sound della band, ma questo vale per tutti i gruppi con un sound così “personale”, unito al fatto di avere a cuore il prog.
Saucerful è dannatamente prog, un prog che si muove in termini quasi mai seri o puramente tecnici, ci sono molti rimandi ancora alla psichedelia americana, e Barrett incombe sulla band come un fantasma che li tiene tutti per le palle (Jugband Blues). Per quanto mi piaccia questo album alla lunga stanca, spesso le idee buone vengono ripetute fino alla nausea, ma alcuni spunti sono indimenticabili.
L’atmosfera generale dell’album si percepisce da due tracce potenti e epiche sotto molti aspetti: Let There Be More Light e Set the control for the Heart of the Sun. Riff ripetuti all’infinito aleggiano nell’aria e scandiscono il tempo come in un rituale sacro, nel mezzo un mucchio di idee non sempre attinenti, ma ben costruite e sopratutto ben realizzate dal punto di vista dell’ingegneria del suono.
Ed ecco quindi comparire fin da subito un altro caposaldo che caratterizzerà la band in tutti i suoi album successivi, e in particolar modo da “Atom Heart Mother” in poi, ovvero la cura maniacale del suono dal punto di vista prettamente ingegneristico. Una carta che i Floyd sapranno giocare bene sempre dal 1970 in poi.
Detto questo Saucerful è stato molto rivalutato recentemente come album, forse anche troppo, in particolare considerando il brio del primo album, qui del tutto sparito.
Nel ’69 Barrett si ripresenta con l’uscita del singolo Octopus/Golden Hair, un prologo di quel che sarà “The Madcap Laughs”, il suo primo album solista del 1970.
Di “The Madcap Laughs” ci sarebbe molto da dire, ma se mi prolungassi per ogni album sarebbe un post ancora più tremendo di quanto già è. Delle sessioni di registrazione di questo incredibile disco si è parlato fin troppo, tanti ancora però non ascoltano con attenzione questo lavoro, come anche il successivo “Barrett” uscito qualche mese dopo (e con qualche acciacco in più).
Dalle leggende che lessi su quelle sessioni notai perlopiù due cose: la fragile e inconsistente personalità di Gilmour, quasi intimorito da Barrett, e la totale follia di Wyatt nel vedere in Barrett qualcosa che in realtà non c’era già più.
Il disco è ovviamente geniale, ben diverso dalle sonorità di Piper, maturato non direi, piuttosto Barrett si è dato ad altro continuando a sfornare singoli straordinari per ecletticità e commerciabilità (Terrapin, Love You, Here I Go, Octopus, Long Gone, She Took A Long Cold Look). Quello che si evince accostando il Barrett del dopo-Piper e il resto dei Floyd è che sebbene nella totale pazzia che stava divorando Syd in quegli anni era lui quello ad avere le idee chiare, al contrario del resto della band, la quale era alla disperata ricerca di singoli “alla Barrett”. Sarà la progressiva presa di posizione di Waters a salvare i Pink Floyd da un lento ma chiarissimo declino (almeno per i critici e per gli ascoltatori dell’epoca). Per lui sarà facile superare la passività di Gilmour, la timidezza di Wright e l’indifferenza di Mason per poter imporre la sua idea su cosa dovessero essere i Pink Floyd.
Le sonorità di Madcap derivano da tutto quello che Barrett ascoltava, dai Nice ai Soft Machine, ma sintetizzato dalla sua personalissima visione. Wyatt vedeva in Barrett un genio avveniristico, cosa che Barrett è stato finché la droga non gli ha bruciato il cervello. Ora era solo un genio sregolato, ma che da solo, senza cioè l’aiuto di altri musicisti e di amici, non avrebbe potuto fare molto.
“Barrett” è l’ennesima (e ultima) prova di quanto detto: un genio unico, un fenomeno irripetibile, ma la sua portata è stata irrimediabilmente bruciata da una emotività prepotente che lo rese troppo fragile per questo mondo.
Lontano dalla pochezza della critica sociale di Waters (nulla in confronto ad altri musicisti coevi del bassista dei Pink Floyd), Barrett viveva in un mondo tutto suo, magnifico e terribile, fantasioso quanto tragicamente reale.
Quando a Lucca, al Summer Festival del 2006, Waters (per l’occasione accompagnato anche da Mason, me lo ricordo bene dato che c’ero anche io) dedicò la prima parte del concerto a Barrett deceduto il giorno prima, avevo sedici anni, e per quando idiota già lo fossi sapevo comunque bene che Barrett non avrebbe mai potuto fare altro ormai, dato il suo stato mentale e fisico, eppure mi sentì molto triste. Mi resi conto che un’epoca intera era stata spazzata via, e che quel concerto altro non era che un rituale pagano per ricordare quello che fu, come più o meno tutti i concerti dei sopravvissuti a quegli anni di sesso, droga e non sempre rock and roll.
[per la seconda parte clicca qui]
The Move – Move
Negli anni ’60 sono venute sù così tante band che oggi è davvero difficile fare il punto della situazione.
Un genere particolarmente sfigato è il progressive, oggi noto perlopiù grazie ai gruppi più influenti. Si và dalla musica complessa e consapevole dei Weather Report ai barocchismi degli Yes alla genialità di Peter Gabriel con i Genesis. Purtroppo molte band che furono come un ponte ideale per il prog e i suoi sviluppi vengono tutt’ora ignorate. Tempo fa parlai dei Rare Bird, band eclettica che decise di andare avanti con un hammond, due tastiere, una batteria, un basso e nemmeno mezza chitarra, tirando fuori dal cappello un disco eccezionale nel 1970 come “As Your Mind Flies By”. Oggi invece ci concentreremo su una band molto diversa.
Le influenze che portarono il prog a diventare un genere ben (insomma) definito sono state tantissime, e non tutte d’accordo con loro! Si va dalla psichedelia nel garage rock a John Cage e alle tecniche stocastiche, fino a Anthony Braxton e magari qualcosa dalla musica di fine ottocento.
Comunque nella maggior parte erano band che nascevano sulla scia dei deliranti anni ’50-’60, ragazzi che vedevano nella strumentazione elettrica una via di scampo e un simbolo della lotta contro al generazione precedente, la loro emancipazione, la loro libertà.
Alcuni di essi a forza di sperimentare iniziarono ad interessarsi ai generi suddetti, cominciarono ad affinare la loro tecnica, e sempre in quegli anni iniziarono i primi bisticci tra le band.
Il successo incredibile degli Who portò in quel di Londra una lotta musicale senza paragoni. Ogni quartiere si sentiva in dovere di rispondere, ma la guerra dei mod era una vera e propria guerra a suon di chitarra e batteria!
Tra le band più rappresentative ci sono certamente gli Small Faces, ma è ingiusto che il tempo si sia lasciato dietro una band eclettica come i The Move.
I The Move nascono proprio come risposta a questa situazione musicale, una risposta di tutto punto che racchiudeva in sé alcuni dei maggiori talenti della Londra dell’epoca. Roy Wood fu il filo conduttore della band, dai The Nightriders ai Move fino ai Electric Light Orchestra: la sua sarà una carriera in decisa ascesa, potremmo dunque definire i Move come il momento di passaggio per Wood dall’anonimato alla fama.
Cosa c’è nei The Move che possa far presagire al salto con gli ELO?
Tante cose, anche se al contrario degli ELO i The Move erano un progetto in continuo movimento (come si intuisce dal nome della band), si ispirarono ai Beatles come ai Faces, ai Byrd e ai Creem, e tentarono molto presto, cioè già al secondo disco, di appoggiare appieno il movimento prog inglese.
Nel 1970 con “Shazam”, e nel 1971 con “Looking On” riuscirono a ritagliarsi un posto importante in quella difficile Londra, mischiando pop basilare al prog e a qualche timida sperimentazione.
A mio modestissimo avviso il lavoro più interessante è il primo disco, omonimo ovviamente, del 1968, il quale racchiudeva le esperienze della band dal ’65 fino a quel momento. Fu una band molto vivace politicamente, niente a che vedere con i feroci MC5, ma ricevettero denunce e censure di ogni genere. I loro testi andavano da gente chiusa in cliniche per l’infermità mentale ad attacchi a noti politici, alcuni dei loro pezzi degli ultimi ’60 hanno ritrovato la luce solo negli anni ’90!
“Move” è un disco pop, con tinte prog, decise virate psichedeliche e qualche tentativo sperimentale (davvero accennato e ingenuo). Con le dritte di Dennis Cordell e della Regal Records Zonophone questa band sembrava pronta per sbancare ovunque.
La Regal fu tra le etichette che unite si trasformarono nella EMI, e gran parte del suo valore lo deve proprio alle orecchie di Cordell, produttore di successi mondiali come “A Whiter Shade Of Pale” (1967) dei Procol Harum e il glorioso “With a Little Help from My Friends” (1969) di Joe Cocker.
Sì, ok, mi sono un po’ perso in seghe mentali come al solito.
Il disco si apre con Yellow Rainbow, da Barrett ai Beatles per i Move c’è un passo, certamente a livello compositivo non hanno niente da invidiare ai secondi, magari peccano un po’ di creatività.
Segue bene Kilroy Was Here (Wood è un trascinatore nato), conferma la psichedelica vena creativa anche (Here We Go Round) The Lemon Tree con una una ingenua sezione d’archi che fa sorridere senza infastidire.
Molto garage la Weekend di Bill and Doree Post, molto Beatles Walk Upon The Waters.
Flowers In The Rain è una di quelle cose per cui ringrazi gli anni ’60. Spensieratezza derivata da un uso poco ragionevole di acidi, con quegli effetti sonori che sarebbero quasi ad un livello narrativo (è presente un effetto temporale). Ricordo che anche Le Orme, nel loro primo disco, nel singolo Oggi Verrà utilizzarono un effetto simile (un po’ più scrauso magari) ma senza donargli questa piccola, timida, valenza narrativa. È comunque un punto a favore per i The Move.
Hey Grandma spinge sul rock, e non possiamo che apprezzare. Il disco fin qui non annoia mai, nessun capolavoro, ma buona e sana musica popular.
Useless Information è un riempitivo semplice senza motivo di esistere. Più divertente e filo-zappiana Zing Went the Strings of my Heart, una nota di colore decisa nell’album.
Daje cogli archi con The Girl Outside, un sound molto italian style, ma non c’è da sorprenderci. I Move hanno avuto un breve ma intenso momento di popolarità in Italia, grazie al singolo Blackberry Way (ideato assieme all’Equipe 84, in Italia è conosciuta come Tutta Mia La Città), addirittura nel ’71 i The Move canteranno in Italiano con Something nel loro disco”Looking On”.
Fire Brigate è simpatica, ma nulla più. Mist on a Monday Morning fa molto primo prog, con l’idea del suono del clavicembalo e gli archi e Wood che canta come un vero lord inglese. Gustoso.
Chiude una versione un po’ infima di Cherry Blossom Clinic, certamente il loro capolavoro, ma in questo singolo c’è solo la potenza di quello che poi sarà atto nell’album successivo, ovvero “Shazam”, dove troneggia senza dubbio una Cherry Blossom Clinic Revisited di ottima fattura, psichedelica e prog oltre modo, uno dei miei pezzi preferiti del ’70 per follia e goliardia.
Insomma, “Move” dei The Move non ha cambiato le nostre vite alla fine di questo ascolto, ma non ci ha nemmeno fatto pentire dei soldi spesi.
- Pro: un disco da custodire come documento storico, in “Move” potete sentire tutte le influenze che definirono alle orecchie della gente generi come il garage, il prog, la musica psichedelica e il pop raffinato degli ELO.
- Contro: pochissimo, le ingenuità in questo caso sono un valore aggiunto per me!
- Pezzo Consigliato: non è di questo disco, ma Cherry Blossom Clinic Revisited è davvero un gioiello perduto dei ’70. Godetevelo.
- Voto: 6,5/10
La Questione Scaruffi
DISCLAMER: Questo articolo è brutto e vecchio e invecchiato male, leggiti QUESTO che è molto meglio!
Piero Scaruffi, per chi non lo sapesse, è una delle personalità più assurde d’Italia (anche se preferisce l’America è pur sempre italiano).
Scaruffi è uno storico del rock (non ama tanto la definizione di critico) che tempo fa tirò fuori una enorme Storia Del Rock ora on-line nel suo vecchissimo (e se vede) sito, un’opera enciclopedica/critica/storica che fa sembrare la Gerusalemme Liberata poco più che un romanzo tascabile alla Camilleri. C’è di tutto, dai Rolling Stones alla band del circolo ARCI sotto casa (se vivi a New York, chiaramente), e il metro di giudizio di Scaruffi è di certo alquanto differente da quello del critico medio, dunque per me è stato fonte, assieme ad altri, di informazioni preziose.
Tutti, o quasi, odiano Scaruffi. In Italia almeno il 98% della popolazione.
In Primis perché il Piero nazionale non sa tenere a freno la lingua, se una band, anche rinomata (se non soprattutto), non gli piace, la distrugge sotto ogni punto di vista.
Per sintetizzare se no qui si fa notte: Scaruffi premia la sperimentazione, il nuovo (che segua però una precisa logica di pensiero, non: nuovo fine a se stesso), le correnti che cambiano davvero il corso della storia musicale, che pongono nuovi limiti o ne che distruggono di vecchi.
Per me è un ottimo metodo di critica, anche se mi trovo spesso in disaccordo con le idee di Scaruffi, non posso far finta di non notare che questo accade quasi sempre quando ci sono in ballo band che mi piacciono. E questo lo dico per onestà intellettuale.
È ormai storico il suo astio verso i Beatles, visti nel suo libro come un mezzo commerciale prima ancora che musicale; tale considerazione gli ha creato una folta schiera di nemici che, almeno a mio avviso, sono quasi sempre dei perfetti cretini.
Quando mai in Italia si dà peso al giudizio di un critico? Quasi mai, e c’è una ragione ben specifica perché ciò accade: il critico italiano medio tende a parlar bene di qualunque band, meglio ancora se famosa. Leggersi certe recensioni sul Rolling Stone fa venire i brividi, il servilismo verso le case discografiche è lampante, quasi perverso nella sua continua ostentazione.
Inoltre c’è da dire che gran parte dei provetti critici nostrani raccontano panzanate a tutto spiano, per poi fare le pulci a Scaruffi.
Che i Beatles siano nati come risposta politically correct al rock and roll nero non mi pare una bestemmia, è un dato di fatto negabile soltanto con una disonestà intellettuale assoluta. Possiamo discutere sul fatto che fossero validi o meno, o che fossero solo capitati al momento giusto nel posto giusto (o col produttore giusto nell’etichetta giusta), possiamo discutere sulla qualità dei singoli e degli album, ma è innegabile che i Beatles non hanno inventato nulla di trascendentale, ma piuttosto sono stati portavoce di uno stile e di un modo di fare musica a loro coevo. Se avete letto delle note negative in questa analisi è perché partite col pre-concetto (sbagliato) che non inventare sia una cosa negativa. Perché? Non è che siete come Scaruffi allora?
Parliamo dei critici sul web che vogliono la testa di Scaruffi? Una leggenda metropolitana che va molto di questi tempi, figlia chiaramente di un ignoranza mascherata da conoscenza, è che i Led Zeppelin abbiano copiato dagli Humble Pie.
Ma porca pupazza, tra tutti i santi gruppi da cui i Led Zeppelin hanno spudoratamente copiato (anche se è inesatto, e poi vediamo perché se me lo ricordo) mi prendi gli Humble Pie di Frampton e Marriott? Già trovare le somiglianze per me è una forzatura. Nascono praticamente nello stesso anno, ma da due situazioni assolutamente diverse. I primi dalle ceneri degli Yardbirds (o dei New Yardbirds, o dei Nouvelle Uccell’ o come cavolo si chiamavano dopo il duecentesimo cambio di formazione) band dalla formazione blues che dà alla chitarra quell’importanza fondamentale che poi sarà l’oggetto della discussione musicale in ambito rock per gran parte dei primi ’70. I secondi nascono dalla ex-band di Steve Marriott, gli Small Faces, i mod in diretta concorrenza con i mod per eccellenza: gli Who. Cacchio gli Small Faces ci acchiappavano di soul e di presenza sul palco alla Who, ma gli Yardbirds facevano ben altre cose.
Una volta che Humble Pie e Led Zeppelin si sono formati già di partenza le diversità sono chiare, limpide. I Pie sono la versione hard degli Small Faces, ma senza la vena psichedelica, e sopratutto senza idee particolarmente sconvolgenti (c’erano anche i Cream là a giro, mica la banda dei fiati di San Miniato basso), mentre gli Zep non solo sono la versione molto (alla terza) più hard degli Yardbirds, ma portano avanti nuove idee plasmando il vecchio blues, che sarà una fonte di approvvigionamento costante in tutta la loro carriera da hard-rocker, spingendo verso una psichedelia più funzionale e meno “a caso”, polverizzando il primato del prog e portando il grande rock nei grandi stadi.
Un paio di differenze insomma.
Vabbè, come al solito nei miei post non si capisce niente, ma la questione è proprio terra terra. Prima di criticare Scaruffi vorrei perlomeno avere un pizzico della sua cultura (generale). Poi chiaramente è un borioso del cacchio, la pagina di nonciclopedia su di lui è più attendibile di quella di wikipedia, non ci sono dubbi, però è anche vero che c’è una forte analfabetizzazione musicale in Italia.
Anni fa, quando Scaruffi parlava bene di Beefheart, dei Red Crayola, dei Fugazi, dei Pere Ubu, di quel gran cazzone di Klaus Schulze, nessuno se li cagava di striscio (parlo del mondo ancora più analfabetizzato musicalmente che è internet) ora sono i miti di un sacco di gente.
Io credo che la critica musicale, come la critica artistica in generale, solo nel tempo dimostra la sua validità.
Nel 1874 la gente s’andava a vedere Cabanel, Bouguereau, Baudry, e quella era considerata da tutti i critici Arte Immortale, mentre quegli sfigati che facevano la mostra a casa di Nadar (fotografo piuttosto eclettico, a mio avviso assomiglia tantissimo allo zio Eduard di Mort À Crédit) erano considerati imbecilli destinati a finire nel dimenticatoio per sempre.
P.S.: Essendo nata nei commenti la solita diatriba sui Beatles eccovi una mia riflessione in merito.
P.P.S.: [2021] Questo articolo è vecchio e scritto di getto da un giovane me molto irriflessivo, se volete un aggiornamento su questa “questione” eccovi un succosissimo link.