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The Brian Jonestown Massacre – The Future Is Your Past

Etichetta: A
Paese: USA
Anno: 2023

Eccovi qualche link per ascoltarvi l’album suddetto:
SPOTIFY: https://open.spotify.com/album/2gSCrwFLHcT0OhMgdMy0Qc
APPLE MUSIC: https://music.apple.com/it/album/the-future-is-your-past/1655736209

I 6 dischi essenziali per capire il garage rock (più o meno)

Non è una guida esaustiva, non è neanche un’introduzione, è giusto un mettere l’accento su delle declinazioni del garage e delle sue potenzialità espresse nel corso dei decenni.

Ween – The Pod

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Etichetta: Chocodog Records
Paese: USA
Pubblicazione: 1991

Frank, give me a pork roll egg and cheese, if you please, with some gravy fries.
Sink into a greasy mega-weedge and I sneezed and it blew my mind.

Lettore, in uno slancio di propositività: «Scusa eh, sono passati 5 mesi dall’ultima recensione, manco un’introduzione per dirci che fine hai fatto, se continuerai a scrivere, facci magari un recap degli ultimi album che hai ascoltato, anche una lista del cazzo se non ti va di fare recensioni, insomma ‘ste cose qua ecco, un minimo d’introduzione.»
Recensore, mentre da fuoco alle bollette con l’ultimo goccio di scotch: «Fottiti.»

*Ahem* I Ween sono un duo formatosi a metà anni ’80, un progetto effimero e volgare che col passare del tempo è riuscito a crescere fino a ritagliarsi un posto privilegiato tra le cult band di tutto il mondo. I due schizzati dietro questa creatura sono Aaron Freeman e Mickey Melchiondo, meglio conosciuti dai disadattati tipo me con i nomi di Gene e Dean Ween, i due “fratelli” degeneri del rock.

Per i puristi il loro miglior album è lo sprezzante doppio d’esordio in studio: “GodWeenSatan: The Oneness” del 1990. Per gli intenditori invece è il loro sesto album, il più maturo e raffinato, “The Mollusk” del ‘97. Per chi scrive, cioè me *ammicca*, la gara al disco più fico della tua band preferita della settimana è venuta a noia verso la terza media, anche se ogni tanto non mi disdegno a farla fuori dal vaso, quantomeno per il gusto di provocare i lettori che cercano solo conferme e non opinioni diverse.

Il motivo però per cui voglio stimolarvi all’ascolto di questo turpiloquio musicale dal nome “The Pod”, seconda (s)fatica dei Ween, è perché di tutti gli album mai usciti nella storia del rock questo è uno dei pochi che riesce a coniugare libertà creativa, cazzeggio e dissacrazione alla fruibilità. Sebbene io abbia spesso letto e sentito che i primi album dei Ween siano un prodotto esclusivo per veri hardcore listener, gente abituata a fare colazione con pandistelle e “Twin Infinitives”, la verità è che probabilmente questi hanno ascoltato giusto due pezzi del primo album, mentre la puntina ha continuato a scorrere nei solchi dell’immaginazione.

“The Pod” sfida l’eclettismo di Zappa come i Tenacious D fanno con Satana nel loro film, ovvero senza alcuna speranza di averla vinta. Eppure lo fanno lo stesso e lo fanno con stile. 23 canzoni per 78 minuti di puro delirio demenziale sono un rischio che nessuno prima di loro si era mai preso, nemmeno Zappa, che comunque tramite la satira e il demenziale veicolava forme di contaminazione musicale che hanno fatto la fortuna del prog e del rock più sperimentale. I Ween invece sono i figli menomati di Half Japanese e Primus, bislacche creature che sanno riffare durissimo come i migliori Butthole Surfers (Frank) fino a creare atmosfere sixties malate e distorte all’inverosimile (Captain Fantasy), e non  posso che apprezzare enormemente il fatto che non s’atteggino da eruditi decostruzionisti prestati alla musica, elargitori di controcultura tra una protesta studentesca e un apericena. Per quanto strana e fuori dagli schemi la band è, banalmente, un’emanazione del suo contesto storico, non dissimile nelle influenze dai gruppi rock-pop che stavano sfondando su MTV, ma la loro libertà d’interpretazione di quei canoni li rende gli unici ad averli davvero superati.

I fratelli Ween sono peggio di Beavis & Butt-Head, adorano descriverti cose disgustose e grottesche nel dettaglio e guardati contorcere nauseato, figli di un’epoca che nella deformazione di TV e cultura pop fondava la propria cifra stilistica (pensate a film come Gummo di Korine o ad artisti come Matthew Barney), persino le copertine dei loro album dissacrano quelle di storici album rock impegnati, quasi a prendere le distanze da qualsiasi velleità intellettualoide (“The Pod” è chiaramente una parodia di “The Best of Leonard Cohen” del ‘75). Non vi accaldate lettori consapevoli, so bene che questa capacità di sgomentare tramite la rielaborazione di frammenti della cultura pop è stata elevata in quegli anni da tante altre band, i primi due esempi che mi vengono in mente sono Flaming Lips e Beck, anche loro considerati dei weird nell’ambito della musica mainstream. Detto ciò, faccio comunque fatica a ricordare un album di questa (chiamiamola) scena completo ed esaustivo come “The Pod”, c’è tutto il passato il presente e anche il futuro! Young Signorino dite che l’avrà ascoltata Molly? E i Black Mountain di “In The Future” non si sentono presi di mira in Don’t Sweat It? Se vuoi il noise punk eccoti servito con Strap on that jammypac! Ti piacciono gli anthem alla Gloria dei Them? Che ne dici di una versione alla Butthole Surfers con Laura? Vuoi le ballad? Ce ne sono due senza senso e con un tiro malatissimo: Alone e Moving Away. C’è anche un pezzo diviso in due parti (che poi avrà degli altri prosegui negli album successivi), The Stallion, che fa figo e tira il cazzo dei proggettari. Ci sono gli assoli per i nostalgici dei ’70, ci sono i coretti per quelli dei ’60, c’è tutto e non è mai uguale a se stesso!

Le influenze sono così tante che non sembrano nemmeno tali ma quasi intuizioni spontanee. Fa un certo effetto ascoltare pezzi come Pollo Asado, capace di mescolare Jad Fair a fenomeni indie a noi contemporanei come Mac DeMarco – sì, uno ci può sentire i Meat Puppets, ma certe timbriche non possono non far pensare alla moderna retromania. Ci sono cose assurde come l’attacco di Demon Sweat per il quale maniaci del suono come Bryan Ferry avrebbero dato un braccio. Insomma, è davvero un calderone pazzesco ‘sto “The Pod”, secondo doppio album della band dopo l’esordio, eppure mai dispersivo quanto coeso come un blocco di cemento. Gene e Dean all’epoca della registrazione in studio erano affetti da una mononucleosi che li aveva spompati, magari non è solo una suggestione che questa malattia così smaccatamente adolescenziale abbia modificato l’appeal generale, amalgamando tutte le canzoni in una melassa ipnotica e al contempo febbrile.

No, non è un disco faticoso “The Pod”, semmai è dannatamente divertente e necessario, fuori dallo schema del rocker tutto capelli e testosterone ma non per questo costretto a girovagare tra i generi “alti” per legittimarsi. Questo è il rock bello come mamma l’ha fatto: stupido, grezzo e volgare. Per tutti gli altri ci sono gli U2.

La musica commerciale di Captain Beefheart e dei Pere Ubu

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Considerati due paladini del rock inteso come avanguardia e sperimentazione, Don Van Vliet e David Thomas nelle loro decennali carriere hanno tentato di intraprendere percorsi musicali più canonici, cercando di replicare il successo di critica nelle vendite dei loro album.

Si dice spesso dei musicisti underground che se ipoteticamente volessero potrebbero avere successo da un momento all’altro, ecco: questa è una sonora e rassicurante cazzata, che si basa sul fatto che produrre una ipotetica e generalissima “musica commerciale” sia facile per un musicista considerato di talento.

È proprio questo pregiudizio sulla musica commerciale, immaginata come un calderone dalle dimensioni titaniche dentro il quale si può trovare un po’ di tutto, che fa credere a chiunque abbia un minimo di reputazione nell’ambiente di poter sfondare come e quando vuole, ma se non lo fa è per la sua inossidabile coerenza artistica. L’amara verità invece ci ricorda come nella storia siano stati pochissimi i complessi o gli artisti rock nati sperimentali e riusciti a conoscere il successo commerciale. Alcuni ci sono arrivati quasi per caso a fine carriera (penso agli Yes, oppure a Iggy Pop), altri con metodo e un grande senso del marketing (i Pink Floyd di Waters), altri ancora con collaborazioni più o meno importanti ed esprimendosi al di fuori di contesti musicali (Nick Cave), ma di solito il successo arriva quando una data scena musicale ha esaurito le sue necessità artistiche e diventa una macchietta di se stessa, come fu per il post-punk inglese, travasato in massa nelle classifiche di Billboard con il suo seguito di synth e sculettamenti dance.

Vorrei analizzare con voi il percorso che ha portato due artisti tra i più influenti della storia del rock, Don Van Vliet (aka Captain Beefheart) e David Thomas (leader e voce dei Pere Ubu), nella fitta e pericolosa giungla delle classifiche di Billboard, qual’è stato il loro approccio alla musica pop, che risultati hanno conseguito e l’effetto per le loro carriere.

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«It’s not music these guys played… Decals is not human music[…]» Scriveva in una entusiasta recensione di “Lick My Decals Off, Baby” Phil Mac Neill nel 1971. L’album uscito nel Dicembre del 1970 per la zappiana Straight Records è il quinto lavoro di Captain Beefheart e della sua Magic Band, già leggenda vivente il Capitano è additato senza mezze misure dalla critica sia come genio sia come fenomeno da baraccone, oppure in maniera più modesta come uno dei tanti “freak” di una stagione musicale decisamente psichedelica. La verità è che Beefheart nel 1969 aveva intaccato indissolubilmente la storia del rock con il suo quarto album in studio: “Trout Mask Replica”, uno dei maggiori e più originali omaggi al delta blues, rivisitato e decostruito in un modo più razionale di quanto possa suggerire lo sghembo attacco di Frownland. “Lick My Decals Off, Baby” è la realizzazione finale dei propositi artistici del musicista californiano, ovvero un totale estraniamento dei musicisti dalla musica che stanno suonando, un vero e proprio flusso di coscienza che parte da Beefheart stesso e arriva all’ascoltatore senza filtri di sorta, costruendo un discorso musicale che, nella sua ecletticità, riesce ad essere solido e coerente dal primo contatto della puntina sul 33 giri fino agli scricchiolii finali. Ci sono arrivati svariati racconti sugli eventi che susseguirono la produzione di questo capolavoro del rock sperimentale, quello più citato vede Beefheart come una specie di martire nei confronti della sua Magic Band i quali premevano per produrre finalmente un album più fruibile, e magari più vendibile. La verità è che fu proprio il Capitano a spingere verso una viscerale commercializzazione della sua musica, nella speranza di venir riconosciuto universalmente come un prodigio della sua generazione musicale, come l’amico/nemico di gioventù Frank Zappa.

Il temperamento del Capitano lo porterà a fare dichiarazioni contraddittorie sugli album che dal 1972 caratterizzeranno la sua rinascita come autore di musica pop, passando da «inascoltabili» a «capolavori» nell’arco di due o tre interviste.
Clear Spot” è il secondo album confezionato per la Reprise (storica etichetta fondata da Frank Sinatra che aveva da poco assorbito la Straight di Zappa), ed è anche l’ultimo guaito del Capitano prima della svolta. Un tentativo non molto onesto di commercializzazione che passa prima di tutto da una nuova line-up, con Milt Holland accanto a Art Tripp (aka Ed Marimba) alle percussioni (già presente in “Lick My Decals Off, Baby”) e Roy Estrada al basso, questi ultimi due strappati al feudo zappiano.

Ma come dicevamo non è di certo “Clear Spot” la vera débâcle, quella arriverà con “The Spotlight Kid”, uscito qualche mese prima sempre per la Reprise. Sebbene il tiro boogie che apre l’album possa far discutere sul solito efficacissimo dialogo tra la slide di Zoot Horn Rollo e Rockette Morton (I’m Gonna Booglarize You Baby), a regnare in tutto Spotlight è la noia e la prevedibilità, dove gli unici acuti sono derivati dai guizzi vocali di Beefheart, rigurgiti dal delta del Mississippi che però non bastano a rialzare l’album e a renderlo sufficiente. Incapace di interpretare la musica commerciale Don Van Vliet la banalizza, credendo che sia tutto un discorso di semplificazione, non riuscendo a costruire un discorso melodico orecchiabile o anche solo un riff micidiale, come se il solo aver agevolato la vita ai suoi musicisti fosse un lasciapassare per le vendite. Pezzi come When It Blows Its Stacks non sarebbero mai riusciti a scalfire una classifica che vedeva capeggiare album come “Catch Bull at Four” di Cat Stevens, “Bare Trees” dei Fleetwood Mac, senza contare Bowie, T-Rex e (urgh!) Neil Diamond. Manca il dinamismo delle produzioni precedenti, ogni pezzo sembra rallentato e suonato svogliatamente, Beefheart dimentica volontariamente per strada tutti gli elementi che rendevano il suo approccio musicale così interessante mettendo in difficoltà anche la band che non si sentivano ripagati dei loro sforzi nelle estenuanti sessioni negli album precedenti.

La musica commerciale stava andando su altre direzioni, una maggiore pulizia del suono caratterizzava ogni produzione delle major, il prog inglese aveva creato uno standard qualitativo molto alto dal punto di vista produttivo, il folk de-politicizzato incantava le platee di tutto il mondo, ma Beefheart testardo come un rinoceronte continua la sua corsa, pensando che ad uno come lui sarebbe bastato poco o niente per creare un prodotto della stessa fattura di un Neil Diamond qualsiasi.

Ormai in pianta stabile in UK il Capitano si affida al produttore Andy Martino e alla Mercury Records di Chicago che vogliono trasformarlo in un cantautore di ballads melense. Il primo album di questa trasformazione epocale è “Unconditionally Guaranteed” del 1974, distribuito nel Regno Unito dalla Virgin, la formazione della Magic Band perde Roy Estrada e vede Zoot Horn Rollo passare al basso con il ritorno di Alex St. Clair alla chitarra, ma a dare quell’atmosfera di ballate tragicomiche ci pensano Del Simmons al sax, Mark Marcellino alle tastiere e lo stesso Andy Martino che per l’occasione si destreggerà con la chitarra acustica, dipingendo note smielate piene di profonda e imbarazzante inadeguatezza. Upon the My-Oh-My è teoricamente il pezzo che dovrebbe scalare le classifiche, ma sebbene sia esaustivo nel dare una chiave di lettura sulla scabrosa idea compositiva dietro questo album, risulta ancora più sgradevole sentire il proseguo, in cui anche la voce del Capitano viene addomesticata all’inverosimile. Le ballate oltre ad essere incredibilmente convenzionali sembrano anche lentissime, This is the Day non dura 5 minuti ma nella mia testa sono almeno 20, credo che Henri Bergson si sarebbe divertito da matti con questo album. Gli accenni bluesati fanno solo male al cuore, come la slide in New Electric Ride, buttata lì senza un briciolo di decenza. Sembra davvero impossibile che il Capitano si sia ridotto a cantare robe degne del peggior James Taylor (Full Moon, Hot Sun) eppure è tutto lì, inciso su plastica nera.

L’album non decolla, anzi: frana in tutti i sensi, alla Mercury si rendono tutti subito conto che questo freak baffutto è sostenuto solo da un manipolo di aficionados, e decidono di lasciarlo arenare fino alla fine del contratto che prevedeva solo un altro album. Sull’onda dell’indignazione Zoot Horn Rollo, Art Tripp e Rockette Morton lasciano la Magic Band per andare a formare i Mallard col supporto per la produzione di Ian Anderson, una delle peggiori formazioni rock di tutti i tempi, dalla tecnica sopraffina asservita a composizioni banali e terribilmente masturbatorie. Beefheart ovviamente s’incazzò come una scimmia, additando i suoi ex-compagni con tutti i peggiori appellativi che un paroliere come lui poteva trovare, anche se la miglior risposta fu di Art Tripp, appellando Beefheart come «The old fart», citando così i fasti di “Trout Mask Replica”, ormai chiaramente obliati dal loro vecchio mentore.

Su queste premesse nasce sempre nel 1974 “Bluejeans & Moonbeams”, un tentativo quantomeno ridicolo di tornare a forme più blues e meno folkeggianti, ma siamo lontani anni luce anche da un modesto “Clear Spot”. Ira Ingber al basso co-firma gran parte delle composizioni col Capitano, c’è spazio anche per suo fratello Elliot, già chitarrista per Moondog, Frank Zappa e Canned Heat, e presente ai tempi di “The Spotlight Kid”. Devo ammettere che sulla line-up di questo album faccio sempre un gran casino, comunque sia, per ci fosse o no, è un album di mestiere, e nemmeno di gran mestiere. Basta ascoltarsi una Twist Ah Luck per capire che siamo di fronte ad un punto zero della creatività, gli accenni blues sono ancora più dolorosi, ma non in senso espressivo (Captain’s Holiday).  L’insuccesso e l’impossibilità di rinnovare il contratto con la Mercury porteranno Beefheart ad auto-isolarsi in un camper nel deserto del Mojave.

Dopo quattro anni di isolamento e pittura (Don Van Vliet è considerato uno dei migliori esempi di post-informale negli Stati Uniti) Beefheart tornerà con un album stratosferico e geniale, “Shiny Beast (Bat Chain Puller)”, abbandonata ormai ogni velleità commerciale (a parte per Harry Irene) il Capitano è tornato a fare quello che sa fare meglio, ma questa è un’altra storia.

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Spostiamoci nel 1982, anno di pubblicazione di “Song of the Bailing Man”, l’ultima prova dei Pere Ubu prima del loro primo scioglimento. In confronto al precedente “The Art of Walking” vediamo Anton Fier sostituire il grande Scott Krauss alla batteria, Mayo Thompson riconfermato dopo aver sostituito Tom Herman nel 1980, Tony Maimone al basso e Allen Ravenstine ai suoi synth. David Thomas come sempre istrione e grande Padre Ubu anche in sala registrazione, ancora più teatrale del solito con i suoni di Ravenstine messi in secondo piano dopo esser stati protagonisti quasi assoluti dei momenti più paranoici di “Dub Housing”, “Modern Dance” e “The Art of Walking”, la sezione ritmica furiosa e a tratti esageratamente virtuosa. In breve, il solito grande album per la band, che sperimenta e fa avanguardia a sé, mentre il post-punk di sponda inglese si era già venduto quasi in blocco alle classifiche.

Il ritorno dei Pere Ubu, dopo le magnifiche divagazioni soliste di Thomas di cui non oggi non parleremo, è targato Marzo del 1988, dopo una difficile ricucitura tra Thomas e i membri storici. A Ravenstine, Maimone e Krauss si uniscono Jim Jones alla chitarra (già membro di molte formazioni rock underground tra cui gli Electric Eels di John Morton), alla batteria accanto a Krauss addirittura il leggendario Chris Cutler degli Henry Cow (già batterista aggiunto anche nei Gong e nei Residents) e lo sperimentatore John Kirkpatrick con il suo Melodeon (variante della fisarmonica). L’album uscito per la Fontana Records è “The Tenement Year”. Piuttosto diverso dalle produzioni precedenti degli Ubu, sopratutto per l’influenze musicali accumulate da Thomas nel suo periodo solista, un album eccentrico ma non anarchico, che riesce ad alternare momenti più rilassati a grandi intuizioni (come nella eclettica Busman’s Honeymoon o nella sguaiata George Had a Hat), senza dimenticare un Ravenstine in grande spolvero.  L’unico problema per Thomas è che sebbene la critica continuasse ad acclamarli le vendite non sembravano proporzionate a quelle entusiastiche recensioni.

Tolto momentaneamente Kirkpatrick ed inserito nella formazione Stephen Hague, produttore di grandi successi pop e tastierista, Thomas cerca di dare ai Pere Ubu una nuova forma, in linea con una musica più accessibile e melodica. Al contrario di Beefheart per David Thomas la musica commerciale non è soltanto banalizzazione di archetipi musicali, ma parte di un processo di espurgazione dai suoi peccati punk (è un periodo complesso per il cantante da Cleveland, anche spiritualmente).

Arriva così nel 1989 “Cloudland”, un album decisamente pop. L’approccio della band è quello di rielaborare gli stimoli per loro più interessanti nella musica commerciale a loro contemporanea (Police e Talking Heads in primis), riuscendo al tempo stesso a mantenere un certo dinamismo ed un tiro non indifferente. Non è un caso se un loro singolo, Waiting for Mary, sbanchi addirittura su Billboard arrivando al numero 6! Sebbene qualche rigurgito post-punk qua e là (Pushin, Flat e in parte anche The Wire) l’album risulta compatto, capace di tirare fuori melodie piacevoli e proponendo la voce unica e irriproducibile di Thomas in una veste non più nevrotica e instabile, ma dolcemente intima ed emozionante.

Siamo molto lontani come esiti artistici da qualsiasi album precedente dei Pere Ubu, si sta parlando esclusivamente di forma e nessuna sostanza, ma con grande umiltà e intelligenza Thomas capisce che il loro approccio non può essere supponente, tipo da super-star dell’underground che si “abbassa” per ragioni commerciali, ma bensì quello dell’addentrarsi in una nuova esperienza, «Put yourself in our shoes, for us going to expensive studios and doing lots of remixes was an experiment in itself.» E così i Pere Ubu sperimentano su nuove forme, e dopo il proto-punk, il post-punk, il rockabilly e il jazz ecco il pop da classifica, distorcendolo e reinterpretandolo su una nuova prospettiva, che dava decisamente il meglio di sé quando Thomas diventava un atipico crooner dal carisma indiscutibilmente magnetico.

Ripetersi però diventa difficile per la band, la nuova formazione fissa vede il grande Eric Drew Feldman (Snakefinger, Pixies e presente anche negli tre ultimi album della rinascita artistica di Captain Beefheart) sostituire Ravenstine, il quale farà solo qualche comparsata, e vede anche l’addio di Cutler, in compenso compare sporadicamente John Kirkpatrick. Esce nel 1991 sempre per la californiana Fontana Records, prodotto da Gil Norton (che aveva già confezionato “Doolittle” e “Bossanova” dei Pixies), l’album si chiama “World In Collision” ed è certamente il più grande sforzo pop della band.

Va detto che stavolta a parte l’eccezionale vena melodica di Oh Catherine, e forse Life of Riley, l’album appare più modesto del precedente, sebbene Oh Catherine riscontri un buon successo (non paragonabile a quello di Waiting for Mary, ma sufficiente per finire in tarda serata da David Letterman) non basta a lanciare l’album in classifica. Nonostante la band mantenga quella dignità che Beefheart aveva decisamente perso al suo secondo tentativo commerciale, non riesce più a trovare quella chiave di volta che li aveva visti vicini al successo mondiale.

Perso anche Eric Drew Feldman i Pere Ubu restano in quattro con l’aggiunta quasi inconsistente di Al Clay. Story of my Life” esce nel 1993, un album che alterna riff fastidiosi a composizioni che, per dirla buona, risultano quasi sempre banali. Thomas cerca di ridare un sound più “rock” alla band, forse vedendo il successo di complessi come gli U2, ma il risultato è tremendamente posticcio (tanto che Maimone lascerà la band subito dopo l’uscita dell’album). L’aspetto peggiore di questo disco è che si sente la mancanza di Thomas, sommerso da una melma sonora incoerente e con accenni epici decisamente fuori fuoco.

Dal 1993 i Pere Ubu ritorneranno più volte, cercando di riprendere la vena creativa di un tempo, ma senza mai riuscirci pienamente, azzeccando giusto due o al massimo tre pezzi in ogni album. Al contrario quindi del nostro Capitano i Pere Ubu non riescono a rinascere dalle ceneri con un album epocale, come mai?

Probabilmente proprio per l’approccio di Thomas di fronte alla musica così-detta commerciale da sperimentatore, proseguendo quella ricerca musicale che cominciava dai suoi Rocket from the Tombs fino ai primi album dei Pere Ubu, quegli album commerciali ne erano una diretta conseguenza e non una deriva. Per Beefheart invece c’era una profonda divisione concettuale tra un “The Spotlight Kid” e “Shiny Beast (Bat Chain Puller)” come pure per gli album successivi, ovvero “Doc at the Radar Station” e “Ice Cream for Crow”, per l’artista californiano una volta accantonato il discorso commerciale si poteva ricominciare da dove si era lasciato, come se nulla fosse.

Lasciare l’underground per sposare una musica più fruibile e potenzialmente vendibile non è una cosa semplice, e di certo non è priva di conseguenze. Sicuramente c’è una voragine artistica tra i Pink Floyd di Barrett e quelli Waters, ma la musica in generale non è solo necessità artistica, è anche competenza tecnica e la capacità di comunicare semplicemente tramite una grammatica fluida e intangibile, si possono criticare anche ferocemente fenomeni come il brit-pop, gli U2 o i Foo Fighters dal punto di vista della proposta artistica, ma non bisogna mai dimenticarci che c’è anche un contesto più ampio dove la melodica orecchiabile, il riff tamarrissimo e la voce virile e potente non sono elementi che da sé fanno un successo commerciale, ma hanno bisogno di tanto studio e dedizione. Ciò non toglie che il miglior album degli U2 non vale una scoreggia travestita di David Thomas.

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Per alcuni appunti biografici e curiosità ho spulciato questi due bei librini che vi consiglio vivamente:

  • Luca Ferrari, “Captain Beefheart – Pearls before swine Ice cream for crows”, Sonic Book, 1996
  • Duca Lamberti, “Pere Ubu, David Thomas – The geography of sound in the magnetic age”, Sonic Book, 2003

L’eterna adolescenza dei Violent Femmes

Articolo di: bfmealli

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Il tempo è il critico più spietato: smonta, ridimensiona o sminuisce del tutto determinati artisti che, ai loro tempi, erano considerati dei grandi. La difficoltà maggiore, in un’opera d’arte non è tanto piacere ai propri contemporanei ma non sopperire alla spietata onta del tempo. D’altra parte ci sono dei monoliti così ben piantati al suolo da non smuoversi minimamente con l’incedere degli anni e, quando penso quali opere possono fregiarsi di tale capacità, sicuramente non posso non citare i Violent Femmes.

I Violent Femmes hanno commesso lo stesso magnifico errore di Orson Welles: hanno toccato il loro massimo vertice al primo colpo. Anche se il resto delle loro produzioni possiamo considerarlo buono il paragonare non regge tra il primo capolavoro con le seguenti opere.

Ciò che mi ha incuriosito, riguardo al disco del trio di Chicago è come è possibile che il loro garage acustico possa essere ancora fresco, come riesca ancora a parlare a tantissime persone nonostante le rivoluzioni musicali che ci sono state dal 1981, data del loro primo disco, fino ad oggi. Ciò che mi ha portato a trarre delle conclusioni sono due ragioni: 1) La genuina sincerità musicale, priva di fronzoli, di stereotipi, di virtuosismi inutili e 2) la capacità di riuscire a comunicare un disagio, uno stato, che è l’adolescenza.

Per capire meglio l’importanza dei Violent Femmes è giusto leggerne i testi. Le parole dipingono uno stato adolescenziale che tutt’oggi resta vivo. Il disco parla di giovani, ai giovani, senza volere essere giovani (cosa davvero difficile se si considera la monoliticità dell’impresa).

Ovviamente la meraviglia delle loro liriche si rafforza se pensiamo che questo disco parla di una generazione che viveva ancora nella guerra fredda, dove i cellulari ed internet non esistevano, dove la società non si era così tanto deformata dai meme e dai social network. Eppure i deliri da marijuana di Blister In The Sun sono gli stessi che potrebbe avere un ragazzo del 2015; le pene amorose di Confessions non sono poi così distanti da quelle che un adolescente oggi potrebbe provare; lo stesso vale per quel sentimento di spleen che ben descrive un disagio dovuto all’età, al luogo natio ed alla noia come viene cantato in To The Kill.

I Violent Femmes parlano e parleranno ad ogni generazione un linguaggio universale fatto di strumenti acustici, gioie, pene, sconfitte, vittorie, amori, tradimenti e frustrazioni che ogni adolescente vivrà fin tanto che il mondo non conoscerà il Fallout.

Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui: L’algebra del bisogno.

Built To Spill – Perfect from Now On

UNITED STATES - APRIL 10:  Photo of BUILT TO SPILL and Jim ROTH and Brett NELSON and Doug MARTSCH and Brett NETSON and Scott PLOUF; Posed studio group portrait L-R Jim Roth, Brett Nelson, Doug Martsch, Brett Netson and Scott Plouf  (Photo by Wendy Redfern/Redferns)

Dato che le riviste di tutto il mondo stanno elogiando oltremodo il ritorno a 33 giri dei Built To Spill (che non credo sia ancora disponibile per noi mortali, e comunque me lo potrò permettere alla meglio verso natale) mi pare quantomeno adeguato passare del tempo a scrivere di quanto sia stato importante “Perfect from Now On”, il loro terzo album del 1997, e di come questo meraviglioso disco dovrebbe essere considerato uno di quelli da avere ad ogni costo, come il primo dei Pink Floyd o “Aftermath” dei Rolling Stones.

È che, essenzialmente, se non hai ascoltato Perfect ti sei perso semplicemente il meglio degli anni ’90. Un’unione trascendentale tra Syd Barrett, Captain Beefheart e l’hardcore, un incontro, quello tra i primi due, già celebrato nel 1980 dai Soft Boys di Hitchcock, ma che nei Built To Spill trova nuova linfa vitale da una generazione che di grunge non c’ha proprio un cazzo.

Ok ok ok, forse Beefheart c’entra poco, forse la loro ispirazione erano effettivamente Barrett, la seconda ondata hardcore e certamente Hitchcock, forse di Zoot Horn Rollo e di Jeff Cotton non gliene fregava una cippa a Doug Martsch, però i suoi Built To Spill hanno spesso il piglio ordinatamente scalmanato della Magic Band, molto più dei Mule di P.W.Long, tanto per dire.

E quel piglio da blues storto nella forma ma non nell’anima si sente eccome nel micidiale attacco di Distopian Dream Girl, uno dei più belli della Storia Del Rock (la mia personale classifica recita più o meno così: 1) Moonlight On Vermont, 2) Old Pervert, 3) Humor Me, 4) Psycho, 5) 1969, 6) Louie, Loui, 7) Distopian Dream Girl e via dicendo, comunque sia è una classifica parecchio suscettibile a cambiamenti). Beh, ok, quello è un pezzo dal secondo album, però se una band sa fare una roba così vorrà pur dire qualcosa!

Quello che caratterizzava “There’s Nothing Wrong with Love”, il secondo lavoro dei BTS, era la freschezza dei pezzi, molto dinamici e zeppi di spleen anni ’90, mentre in Perfect il suddetto spleen diventa dominante, e la forma si modifica attorno alla sostanza. I tempi si allungano, la consapevolezza aumenta.

Ecco, spleen è una parola chiave per comprendere fino in fondo questa band (Alberto Leone nella bio per Ondarock la userà seicento volte, crist’iddio), ma lo spleen cos’è? È giovanile malinconia, è insofferenza verso la vita e i suoi avvenimenti, un concetto ovviamente universale sempre esistito e cazzi e mazzi, ma che trova la sua definizione, nell’ambito del rock, negli anni ’90.

Il grunge riprende l’hard rock, anche se è figlio dell’hardcore, i Built To Spill riprendono la psichedelia anche se sono figli dell’hardcore. Badate bene che è questo il punto di svolta, la cosa che rende i BTS tra i grandi dei ‘90. L’hard rock come genere è una gabbia espressiva: intro, riffone, melodia, riffone, assolo di trenta minuti, melodia, chiusura (se dal vivo aggiungersi: “altro assolo”), o lo fai così o fai un altro genere, c’è poco da fare. Ma i BTS se ne straffottono di Deep Purple, Led Zeppelin e amenità varie, prendono il genio sregolato di Barrett e lo reinterpretano da bravi figli dei vari “Zen Arcade”, “Damaged”, “Double Nickels on the Dime” e via dicendo.

Per cui se la malinconia di Barrett era comunque stemperata dalla voglia di raccontare strane favole, qua lo spleen si scontra con la rabbia hardcore punk (politica sì, ma anche generazionale), e quello che ne viene fuori è la musica instabile, nervosa, dinamica ma ordinata dei BTS.

Nel primo album del ’93, “Ultimate Alternative Wavers”, ci sono ancora troppe incertezze. A volte si sfocia nel manierismo, mescolando una grande potenza espressiva ad eccessi chitarristici (penso a Shameful Dread), ma è comunque un esordio CON LE PALLE, dove Martsch mostra i muscoli e la sua eccezionale abilità come compositore.

Gli basta un anno per sfornare “There’s Nothing Wrong with Love”, una sorta di concept album/manifesto generazionale. I suoni sono più puliti, la chitarra appare più definita, e i suoi dialoghi elettrici continui drappeggiano ogni pezzo superando i vincoli estetici della psichedelia classica (e avvicinandosi tantissimo ai Dinosaur Jr.), il sound ormai è loro e loro soltanto. Tra riff azzeccati e finali inaspettati si arriva al vero capolavoro dell’album, che ho già citato ma che ri-cito perché questo è il mio cazzo di blog, ovvero Distopian Dream Girl.

E poi niente, dopo questi due album tosti, ma non eccezionali, bisognerà aspettare fino al 1997 per trovarsi di fronte alla magnificenza di “Perfect from Now On”. Ad ascoltarlo oggi questo album, come i precedenti, ha un grosso problema: è davvero anni ’90. Uno strano problema direte voi, appartenere ad un periodo musicale è inevitabile, anche se sei un genio avveniristico sei comunque “figlio del tuo tempo”, ma nei BTS si soffre un po’ per la voce, stuprata da migliaia di band su MTV, ci si storcono ogni tanto le budella per il suono della chitarra, diciamo che la superficie, il primo impatto, non è quasi mai dei migliori. Questo discorso però è valido solamente se sei nato nei ’90, come me, altrimenti cazzotenefrega.

Ma se si supera l’iniziale sconcerto di trovarsi di fronte a quei suoni che hai volontariamente dimenticato per cedere la tua anima ai Ramones, ecco che viene fuori tutta la grandezza della band. Prima di tutto la tecnica, non buttata lì per farsi belli, ma al servizio del discorso musicale/spleen, come nei nove minuti di Untrustable/Part 2 (About Someone Else), inizialmente monolitica, statica, e poi profonda, giocosa, inaspettata. Sebbene I Would Hurt a Fly sia il pezzo più conosciuto dell’album (anche perché rispecchia quell’idea comune di rock intimista anni ’90) è nel resto che la band compone un arazzo di dolce complessità, senza la pesantezza dei progger né l’autoreferenzialità delle band grunge.

Ma quanto è tirato l’intro di Made-Up Dreams? Già in quelle note acustiche e nella voce di Martsch c’è tutta la potenza inespressa di quello che seguirà. Come resistere al dialogo elettrico di Stop the Show, che culmina in un finale devastante e ipnotico?

Non c’è un pezzo in più, è tutto proprio come dovrebbe essere. E senza quella forzatura di essere un manifesto generazionale, come nell’album precedente, Perfect diventa uno specchio fedelissimo della sua generazione, con tutti i suoi difetti e le sue sorprese, con l’introspezione e la necessità di essere ascoltati dagli altri.

La cosa bella è che dopo il ’97 i BTS hanno continuano a sfornare album (cinque in tutto, contando il nuovo arrivato, “Untethered Moon”) e non ci riescono proprio a far cagare. È più forte di loro. Qualcosa di buono lo trovi sempre, un’idea, un guizzo. Però l’inesplicabile tensione giovanile di “Perfect from Now On” rimarrà lì, in quella dimensione dove mettiamo momenti brutti e belli, con i contorni ormai sfumati dalla malinconia.

Nirvana – Nevermind

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Perché i Nirvana ebbero tanto successo?

Da una parte ci sono i fan, i quali semplicemente ti rimandano ad ascoltarti i loro album, dall’altra i detrattori, che li trovano una band normale (se non indecente) che ha semplicemente solcato l’onda di una moda.

C’è bisogno di fare ordine.

Partiamo da lontano, ovvero dall’hardcore. Intorno alla fine degli anni ’70 il punk inglese libera in America un’idea di rock in realtà sopita da qualche anno, ovvero quel proto-punk primordiale che aveva le sue origini nei The Stooges e sopratutto nei MC5. Perché prendo proprio la band di “Kick out the jams” in maggior considerazione? Semplicemente perché era una band fortemente politicizzata, proprio come il movimento hardcore.

Ma se gli MC5 appartenevano ad un partito vero e proprio (il White Panther, estrema sinistra) invece l’hardcore non si tende a relegarlo ad un partito vero e proprio, ma piuttosto come un movimento di protesta verso una singola persona: Ronald Reagan.

Reagan cominciò la sua avventura politica nelle file del partito Democratico, ma spaventato dal crescente pericolo del comunismo passò ai repubblicani (è importante tenere conto di questa paura che perseguiterà Reagan e ne influenzerà enormemente la politica una volta Presidente).

Non è infatti un caso se dopo aver perso contro Ford (come candidato per i repubblicani, ovviamente) nel 1976 imbastirà un famoso discorso in cui getterà il seme della sua futura campagna elettorale basata sulla paura del “pericolo rosso”.

Nel 1981 diventa Presidente, nel suo celebre discorso d’insediamento, dopo aver accennato alla crisi economica che ciclicamente attanaglia gli U.S.A., proferirà la famosa frase: “In this present crisis, government is not the solution to our problem, government is the problem.” Grillo ne sarebbe fiero.

Detto ciò nel 1981 band come T.S.O.L., Black Flag (ora con Rollins alla voce), Flipper, D.O.A. e Bad Brains trovarono modo di esplodere definitivamente, generando l’hardcore americano.

La forza di questo movimento è l’odio contro Reagan e la sua politica di austerità, presto migliaia di band si uniranno e le varie fazioni dei diversi stati cominceranno a girare per tutto il paese.

L’energia sprigionata in quegli anni fu devastante, le due band di spicco erano i Black Flag, con il loro hardcore velocissimo e potentissimo nelle live, e i Bad Brains, i quali, al contrario delle altre band, sapevano suonare.

Ci sarebbero fin troppe formazioni da citare, ma non perdiamo la bussola. Questo hardcore però finisce presto, finisce con la rielezione di Reagan nel ’85, che sancisce la fine di un sogno e la speranza che l’hardcore potesse in qualche modo cambiare le cose.

Per fortuna i semi gettati da queste band fioriranno presto.

I Bad Brains, trasformatosi in una band di reggae (è così) lasciano il timone ai Beastie Boys (che prima spaccavano i culi), arrivano i virtuosi Minutemen, i Hüsker Dü e i Meat Puppets, tutte band che influenzeranno non poco i Nirvana.

Quando nel 1987 i Nirvana compiono i primi passi vengono subito presi in simpatia.

La loro tendenza segue il punk-rock con incursioni di hard-rock, tipiche di quegli anni orfani della prima ondata di hardcore.

Le loro performance nei locali di Aberdeen (assieme ai Melvins) non saranno esaltanti per la band, la quale si unirà ben presto alla scena emergente di Seattle. Se l’hardcore nasce in tante città americane, e solo dopo la prima ondata arriverà anche a New York (le leggende narrano dopo uno storico concerto dei Bad Brains), a Seattle invece si riunisce una forte tendenza hard-rock, la quale rallenta tantissimo i ritmi forsennati dei Black Flag portandoli a quelli pesanti e mastodontici dei Black Sabbath.

Non ne farà di certo un segreto Cobain, i Nirvana prendevano dai Knack come dai Black Flag, dai dimenticati Bay City Rollers ai Black Sabbath.

La band avrà un successo enorme a Seattle, mostrandosi una delle più amate nel circolo underground emergente.

Quando nel 1989 pubblicano “Bleach” le trentamila copie vendute non sembrano così poche. Anzi. Per una band di una scena emergente e così fuori dal mainstream era un ottimo risultato. Non saranno virtuosi come gli Hüsker Dü, né violenti come i Melvins di “Ozma” (in “Bleach” alla batteria per soli tre pezzi parteciperà proprio Dal Crover, il batterista che sostituirà Dillard nei Melvins), ma “Bleach” è un album pesante e piuttosto hard, con tematiche che colpiscono fortemente l’immaginario collettivo americano di quegli anni.

Di certo non sono i testi il valore in più dei Nirvana, nulla di che come liriche (non che nel rock in generale ci siano chissà che cime) ma la voce di Cobain farà diventare ogni pezzo dei Nirvana un vero e proprio inno generazionale.

Sempre sull’orlo di spezzarsi la voce di Cobain è tra le più espressive di tutta la storia del rock, segno anche di una personalità fragile ma all’epoca ben lontana dalle terribili pressioni emotive che la condurranno ad una fine tragica.

Ma l’impensabile arriva con “Nevermind”.

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La premessa storica è necessaria per capire come “Nevermind” fosse un album incredibilmente al di fuori dell’idea di rock che i media propinavano (e propinano) alle persone, frutto proprio di quella rabbia e di di quella frustrazione che ha le sue radici nell’hardcore.

È un album scomodo “Nevermind”, un album che svetta al primo posto aprendo le porte a tantissime altre band (primi fra tutti Alice in Chains, Soundgarden e Pearl Jam) e dando voce all’underground (Melvins e Meat Puppets tra tutti).

Il messaggio di “Nevermind” era destabilizzante, un attacco diretto all’establishment dal suo interno, proprio come disse “King” degli Urge Overkill:

[…]anche se in maniera indiretta, “Nevermind” manda affanculo il governo, lo status quo e gli imbecilli. E si può estendere tutta la loro filosofia all’anti-razzismo, l’anti-fascismo e l’anti-censura.

Tanti gli atti della band che sovvertivano lo status quo delle majors, a partire dal celebre video di Smell Like Teen Spirit, in cui la band decise di suonare davvero scatenando il putiferio negli spalti (il tutto assolutamente in disaccordo con il regista, il quale però riprese comunque anche dopo che la situazione andò fuori dal suo controllo).

Oppure la loro esibizione a Top of the Pops, in cui sempre contro le regole chiesero che la voce non fosse in playback, e imbastirono uno show demenziale che mandò su tutte le furie i direttori dello show.

I Nirvana non potevano essere corrotti perché autentici, non erano una band costruita a tavolino per essere fotogenica e piacevole, tutt’altro.

Cobain fu dapprima il più entusiasta del successo, ma mano a mano che esso cresceva sempre di più in lui crescevano anche i problemi. La droga sarà certamente il fattore scatenante che portò ad una spirale decisamente discendente il giovane rocker.

Il grande successo della band, planetario dopo “Nevermind”, è l’apice di un lungo percorso che vide nei Nirvana una band portatrice di un forte messaggio politico e sociale, figlio dell’hardcore e del suo successivo fallimento. È la storia di ben due decenni d’America condensati in una band, non è un caso se la parola “empatia” sarà usata molto spesso per spiegare lo stato d’attrazione dei fan alla figura di Cobain.

Non ci deve stupire quindi che l’ultima lettera che Cobain scrisse, pochi istanti prima del suicidio, fosse rivolta prima di tutto ai suoi fan.

Se band che hanno sfornato album che sono la Storia del rock, come “Double Nickels on the Dime” dei Minutemen, “Meat Puppets II” dei Meat Puppets o “Zen Arcade” dei Hüsker Dü oggi sono oscurate dalle chitarre distorte di Cobain, dai ritmi e dalle melodie tutt’altro che rivoluzionarie dei Nirvana, è dovuto alla forte autenticità che si cela dietro il messaggio e la storia (ben più profonda) che questa band rappresenta.

Sì, lo so che non ho recensito “Nevermind”, sono un coglione.

  • Pro: un album storico, la voce di almeno due generazioni.
  • Contro: se preferite “Double Nickels on the Dime” al fottuto grunge si ‘sta ceppa non posso di certo dissentire. Anzi.
  • Pezzo consigliato: Polly è struggente e decisamente rappresentativa dell’angoscia e delle ripercussioni emotive della fine prematura dell’hardcore.
  • Voto: 6,5/10

The White Stripes – The White Stripes

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[AGGIORNAMENTO ALLUCINANTE: in un momento di noia ho recensito l’intera discografia di Jack White, la quale contiene una versione aggiornata di questo post, se volete farvi un giro non avete che da cliccare QUI.]

Il primo disco è sempre il migliore. A volte il secondo, e a volte persino il terzo, ma dal quarto in poi sono casi davvero rarissimi. A questa statistica non si sottraggono nemmeno i White Stripes di Jack e Meg White, due nomi (d’arte) che hanno attirato attorno a sé una montagna di gossip di cui, sinceramente, non ce ne frega una benamata mazza.

Appena una band diventa famosa parte a bomba la divinizzazione della stessa, con la conseguente “fame” di gossip: di che si fa Jack White? Ma Meg se la scopa? Perché chiamarsi Jack White se poi non fai una band con Jack Black? E via discorrendo.

Peccato che la musica non c’entri un bel niente con queste idiozie. C’è da dire che è nato a Denver, il che è fondamentale per comprendere i vari perché della sua musica. White è un bianco che si sposa con il blues dei neri mischiandolo con una buona dose di garage-rock, cresciuto nella città dove poteva meglio conoscere i classici dei due generi.

Le sue prime uscite come musicista non sono certo formidabili, ma pian piano Jack inizia a trovare uno stile tutto suo, già percepibile in “Makers Of High Grade Suites“, tre pezzi registrati assieme a uno dei fratelli Muldoon dei The Muldoons, usciti soltanto nel 2000.

Probabilmente “Makers Of High Grade Suites” è il lavoro che segnerà in maniera indelebile il sound della chitarra di White nei White Stripes, suono che perderà progressivamente con i The Raconteurs, e poi con i Dead Weather (dove spesso suonava la batteria) e infine nel suo ultimo lavoro da solista, “Blunderbuss (2012), dove riecheggia qualcosa del suo retaggio garage in Sixteen Saltines, anche se l’esecuzione è una delle più anonime del focoso chitarrista.

La voglia di spaccare i culi, comunque, sembra ormai persa. Intuibile forse già ai tempi di un suo flirt poco conosciuto con Beck in “Guero” (2005) dove suona il basso in Go It Alone con fare tragicamente blues sulla solita verve noise-intellettuale del bravo Beck. La sua attenzione per una musica meno intuitiva del garage trova la sua totale definizione in un progetto assieme a Alison Mosshart, l’eclettica cantante dei The Kills.

I Dead Weather sono stati un po’ la negazione di un percorso fin lì fatto da White. Non c’è una reale evoluzione in “Horehound” (2009) e in “Sea Of Cowards” (2010), al massimo una unione di intenti nel far convergere il sound dei Kills, dei Queens Of The Stone Age, dei The Raconteurs e dei White Stripes. Il solito super-gruppo insomma, un primo disco interessante (perché propone suoni interessanti) e un secondo noiosissimo (perché li ripropone spudoratamente).

Il dramma di White è quello di non aver trovato una valvola di sfogo ideale per la sua straordinaria creatività dopo l’esperienza degli Stripes. In generale trovo che il suo meglio lo dia proprio in quel garage-rock con tinte blues che caratterizzano i suoi lavori iniziali, piuttosto che in questa sua veste moderna di vate del rock and roll in tinta twist, che sebbene produca dei bei pezzi non hanno nemmeno l’ombra dell’energia e della potenza di dischi come “De Stijl” (2000) e “White Blood Cells” (2001).

Poi ci sono i premi, le collaborazioni, i film (abbastanza divertente il corto dove Meg e Jack interpretano se stessi) e tantissima altra roba, però per la lista della spesa esistono le biografie.

Una di cosa di cui invece proprio non mi capacito è lo schieramento netto che si è creato contro il primo disco degli Stripes (che spesso si allarga ai primi tre). Ho letto addirittura che “White Blood Cells” sarebbe un disco studiato a tavolino perché è il terzo disco di una serie di album tutti uguali (che è una spiegazione del cavolo, a questo punto gente come Zorn, Segall e Zappa vanno a farsi friggere).

Il primo disco degli Stripes risente ancora tantissimo dell’esperienza con “Makers Of High Grade Suites”, è sopratutto garage, e di certo non è così banale come lo vogliono far passare. Inoltre parlare di banale nel garage è qualcosa di talmente idiota che è difficile da categorizzare. Dai The Castaways ai The Datsuns sono cambiati gli strumenti, sono migliorate le sale di registrazione, ci sono state tantissime influenze che hanno cambiato il sound tipico di questo genere, e il garage nei primi del 2000 ad un certo punto divenne un’accozzaglia di cose spesso difficilmente definibili (con questo non voglio certo dire che è tutta merda, diosanto! Cioè, quanto amo io “Electric Sweat” dei The Mooney Suzuki pochi al mondo!).

Quello che hanno fatto gli Stripes è stato portare indietro le lancette, riportare il garage ad essere diretto, sincero e ingenuo, quando ancora i metri di paragone erano Son House e gli Stooges. Se poi prendiamo in esame proprio questi anni c’è nel garage un ritorno alle origini pazzesco, si ruba ai MC5 ma anche al primo garage di origine psichedelica, si riprendono i Rats, si riprende Kim Fowley, si riprende anche gente fuori dagli schemi come Syd Barrett!

I primi tre dischi, sputtanati dalla critica italiana, hanno anticipato di almeno cinque-sette anni questa tendenza. Ty Segall, oggi, lo dimostra abbastanza bene.

Detto questo il garage degli Stripes si esaurirà ad una velocità sorprendente, e il minimalismo voluto da Jack White verrà ripreso solo in parte, anche se credo sia una delle cose più belle mai fatte nel garage, perché unica nella sua semplicità. Alla faccia dei detrattori.

The White Stripes-The White Stripes

Il disco è prodotto dalla Sympathy for the Record Industry, una delle più gloriose etichette americane, che annovera talenti del calibro dei Bad Religion, dei Suicide, i Von Bondies (con i quali White ha avuto un forte diverbio tempo fa), i New York Dolls e addirittura i The Gun Club. Non male!

L’album è decisamente eterogeneo nel sound, la chitarra troneggia con riff minimali, nessuna distorsione barocca, niente assoli da undici minuti, zero virtuosismo, siamo proprio tornati alle basi, solo energia.

Jimmy The Exploder è questo ed altro. Il punto di forza di White è certamente la facilità con cui introduce riff su riff. Il ragazzo non si prodiga in copia-incolla, è piuttosto ispirato, semmai.

Consideriamo un attimo la questione della batteria di Meg. Non è Meg che suona male, Meg suona semplicemente da cani, ma è questo quello che sa fare, ed è questo quello che Jack vuole da lei. White non fa la sua musica e poi ci mette Meg, ma costruisce i pezzi partendo proprio dai suoi ritmi da “scimmione” (definizione sua, mi astengo da giudizi estetici), in pratica utilizza i ritmi di questa batteria minimale per non uscire fuori dagli schemi, si pone un auto-limite antro il quale fare esplodere la sua creatività.
Poco originale?
Va bene…

Il disco scorre giù veloce e assassino, Stop Breaking Down, del grande Robert Johnson, è un pezzo forte, rapido e minimalista, ma in potenza anche lento e barocco, The Big Three Killed My Baby è uno dei singoli con più forza degli ultimi anni del garage, Suzy Lee viaggia sulle corde del blues e del garage come in Sugar Never Tasted So Good.

Bellissime Cannon e Astro, un paio di accordi, potenza e quella vocina straziante di Jack che urla al microfono.

I pezzi sono tutti i ottima fattura, come anche la cover di Dylan (One More Cup Of Coffee) e l’ennesima versione del classico blues St. James Infirmary, che, udite udite, trova in questo disco degli Stripes la sua consacrazione, almeno per me (mi fa tremare le budella, che ci posso fare?).

Il disco si chiude con la luciferina I Fought Piranhas, bellissima prova di slide e potenza.

C’è poco da dire su questo disco, ma molto da ascoltare.
Magari stavolta con un po’ più di umiltà.

  • Pro: garage non purissimo, un ritorno alle origini del genere nelle sue venature più blues.
  • Contro: troppo leggero. Sebbene ci siano delle sferzate anche importanti, pezzi come  When I Hear My Name sono potenzialmente delle bombe, ed invece sembra che White preferisca la versione light.
  • Pezzo Consigliato: amo Astro. Lo so che ho qualcosa di sbagliato dentro, ma sono fatto così!
  • Voto: 7/10

[approfitto degli Stripes per informarvi che ho un nuovo blog (ancora???) di recensioni cinematografiche, Alla Ricerca Del Bellerofonte]

I Muse copiano i Radiohead

La questione “i Muse copiano i Radiohead” è una delle poche diatribe degli ultimi anni ad aver resistito all’ossidazione.

A nessuno gliene frega più niente dei paragoni allucinanti tra Beatles e Oasis, o della rivalità tra quest’ultimi e i The Verve, gran parte delle inimicizie che hanno segnato confini invalicabili nei gusti di molti sono andate perdute, anche le più storiche ormai al di sopra delle possibilità dei protagonisti stessi, vedi quella tra Peter Gabriel e Phil Collins (di cui un giorno ci occuperemo, probabilmente con sei o otto post) o la Storia Infinita tra Roger Waters e il resto dei Pink Floyd (leggasi anche: David Gilmour).

Quello che accomuna prima di tutto Muse e Radiohead è che sono due gruppi ancora super-attivi e che sono entrambi amatissimi.

Ma i Muse copiano i Radiohead?
Secondo me no, ed è anche semplice capire il perché.

I disco che fu per primo incriminato fu chiaramente “Showbiz” dei Muse, disco d’esordio del 1999, bollato come copia-incolla del ben più famoso “The Bends” dei Radiohead del 1995, uscito la bellezza di quattro anni prima.

Che un gruppo degli anni ’90, giovane, con ottimi gusti musicali, ascoltasse e assimilasse i Radiohead ci può stare. Definire però “Showbiz” solo alla luce di questo sarebbe riduttivo, oppure sarebbe addirittura un errore di sopravvalutazione del prodotto. Riduttivo perché di tutto si può incolpare la band di Bellamy tranne che di spudorata copia! Le influenze che caratterizzano “Showbiz”, come tutte quelle che caratterizzano i dischi d’esordio, sono figlie del loro tempo, i rimandi a tutto il rock alternativo sono tanti, di certo non aiuta la voce di Bellamy stesso (simile a quella di Yorke) ma non credo si sia fatto operare le corde vocali per entrare in una cover band dei Radiohead. La sopravvalutazione scatta nel momento in cui ci rendiamo conto che “The Bends” è un lavoro dove i Radiohead dimostrano di aver già le idee molto chiare, al contrario “Showbiz” è un album ancora pieno di ingenuità.

È davvero difficile trovare dischi d’esordio senza impronte musicali derivate direttamente dai gusti della band, compreso il disco d’esordio dei Radiohead: “Pablo Honey”. In questo album i Radiohead affrontano tanta roba alternativa, gli Smiths, i Talking Heads, addirittura gli U2, e se qualcuno suggerisce pure i Krafwerk non deve certo vergognarsi. Non solo le influenze ci sono ma sopratutto si sentono! La differenza è che i Radiohead sì sono sensibili ai movimenti alternativi e anche al grunge, ma protendono inconsapevolmente verso lo sperimentalismo, anche se mai a livelli memorabili, che può essere sia sviluppo che negazione di questi stessi generi musicali (come poi sarà).

Esempi di dischi d’esordio quasi senza legami col passato più vicino sono eccezioni molto particolari, come può essere se vogliamo proprio fare un esempio “Irrlicht” di Klaus Schulze, ma l’originalità è da ravvedersi solo sotto certi aspetti tecnici.

Ancora più difficile trovare in “Showbiz” dei veri e propri copia-incolla con “The Bends”, i quali oltretutto risulterebbero alquanto anacronistici nel momento in cui già nel ’97 i Radiohead compivano una svolta epocale per la musica commerciale con il successo mondiale di “Ok Computer”, mentre nel ’99 i Muse stavano ancora plasmando la loro musica basandosi sugli ultimi Sonic Youth e non avevano ancora assimilato del tutto le ripercussioni storiche di “The Bends”.

Inoltre col passare degli anni le scelte fatte da questi due gruppi sono semplicemente inconciliabili, sia per quello che concerne la tecnica e il sound, che più profondamente un approccio concettuale alla mondo musicale a 360°, che ha contraddistinto nettamente il lavoro dei Radiohead rispetto ad una maggiore superficialità dei Muse, sempre più relegati nell’etichetta di band-spettacolo.

Prendiamo in esame l’anno di svolta dei Muse, il 2003, quando pubblicano “Absolution” e varcano la soglia definitiva del successo mondiale, in quello stesso anno i Radiohead tireranno fuori dal cappello un disco di cui si è molto parlato come “Hail To The Thief“.

Proviamo a contestualizzare i Muse del 2003: ben due anni dopo l’ultimo lavoro la band sforna un disco ben lontano da qualunque infiltrazione dei vicini album dei Radiohead, anzi trovano finalmente una loro dimensione sonora. Magari l’ossessiva ricerca di wall of sound bestiali per spaventare la gente nelle live e le spinte prog (molto semplificate) non sono obiettivamente il massimo (oddio, concordo con Onda Rock! Vi prego lapidatemi!), ma alla fin fine il disco suona bene e appare come un lavoro ben pensato, organico e tutt’altro che scontato. Il tema è quello dell’apocalisse e più in generale della morte. La presenza di parti orchestrali potrebbe stupire, se non pensiamo però al fatto che i Muse devono tanto alla musica classica e devono ancora di più alla musica per film (con cui riempiranno di citazioni dischi e live successive fino ad oggi). I testi sono una summa del peggior complottismo made in U.S.A., tragici.

Nel 2003 i Radiohead si scontrano per la prima volta con la realtà informatica, a causa di una fuga incontrollata di mp3 provenienti proprio dalla lavorazione di “Hail To The Thief”. Secondo molti il sesto disco della band non è esattamente l’apice del loro lavoro, anzi: è una brutta copia di “Ok Computer”. Chiaramente non è così semplice, il disco esce con qualche problema è vero, ma di certo non si può dire che sia una sorta di riempitivo in un momento di vuoto creativo. La critica portata avanti da Yorke e company in “Hail To The Thief” è fortemente politica, con continui richiami alla situazione americana, un rigurgito della più famosa band inglese contemporanea che di certo non era facile da tradurre in pezzi sperimentali alla “Amnesiac” o alla “Kid A”. Questo disco ha quindi un valore concettuale prima ancora che musicale, concetti che vengono comunque tradotti in una musica decente, molto più consapevole di quella in “Ok Computer” e molto più diretta nell’esplicazione di un malessere materiale e tragicamente contemporaneo.

È dunque chiaro che sia gli intenti che l’approccio al rock nelle due band siano palesemente incompatibili e i loro sviluppi successivi lo confermano sempre di più.

Insomma: una questione assolutamente inesistente, dovuta principalmente alla feroce schiera di fan che contraddistingue i due complessi rock più seguiti (e forse sopravvalutati) al mondo.

Almeno per ora.

Soundgarden – Superunknown

[Questa è la mia prima recensione, ci sono un sacco di errori e banalità, prima o poi ne farò una nuova versione totalmente diversa (anche nel giudizio), ma mi piace che resti qua, con tutti i suoi difetti e le cazzate.]

Chiariamo: questo blog parla di musica ovviamente, ma non più seriamente di come voi parlereste, in una bella serata tra a amici, dell’ultimo film di Sylvester Stallone. Chiaro? Bene.

Come saprete è uscito l’ultimo disco dei Soundgarden “King Animal“, non ho ancora avuto il tempo per ascoltarlo se non per l’unico singolo uscito (Been Away Too Long), ma per l’occasione ho deciso di battezzare questo blog chiacchierando con voi del loro maggior successo: “Superunknown“.

Un paio di premesse: fanno heavy metal, abbastanza tosto. Negli anni ’90 c’è stato un po’ di casino nel rock, sia nella sua accezione diciamo “classic” che nella sua accezione “heavy”. La progressiva disgregazione in generi e sotto-generi ha trovato il suo culmine proprio nei ’90, ma in realtà la questione è piuttosto semplice perché a parte i residui di alcune correnti storiche (come il progressive) possiamo ridurre il panorama in: metal (e i suoi derivati), rock alternativo e grunge.

Il grunge è un genere che riconduciamo perlopiù tra la fine degli ottanta e i primi novanta,  purtroppo si fa davvero una confusione snervante su cosa sia e quali siano i gruppi che lo rappresentavano. Diciamo che la prossima volta ci farò un post, ma vorrei solo puntualizzare che di grunge i Soundgarden hanno forse l’origine e i temi trattati in comune, però il sound ha preso molto velocemente chiare tinte heavy metal. Basta.

A me i primi dischi dei Soundgarden non mi fanno impazzire. Sebbene la tecnica, le ottime influenze, il sound piuttosto fresco e via dicendo, la sensazione che provo ascoltando per in intero dischi come “Ultramega Ok“, “Louder than love” e “Badmotorfinger è quella di una costante sensazione di confusione. Ci sono singoli di grande potenza e completezza, ma in un contesto disordinato e piuttosto rumoroso (il che non è un problema di solito, anzi, ma non è un rumore esplicitamente espressivo come nel garage, suona quasi casuale)

“Superunknown” esce nel 1994 con l’etichetta A&M Records, casa discografica che aveva tra i suoi pezzi forti gente come Joe Cocker e il nostro Gino Vannelli, mentre tra quelli un meno forti (o se volete tragicomici) i Nazareth e gli Extreme. Superunknown è un piccola perla di saggezza in un anno complicato per il rock tra l’egemonia grunge, dei Nirvana e dei Pearl Jam, e una rivoluzione in corso d’opera nell’ambiente alternative con “Mellow Gold” di Beck. La prima cosa che sconvolge l’ascoltatore è l’armonia, il lavoro di produzione e mixaggio sono clamorosi, tra i i più belli in ambito metal (come non citare per fare un esempio “Vol. 3 (The Subliminal Verses)” degli Slipknot, opera del grandissimo Rick Rubin), difatti invece della solita confusione ci si trova di fronte un disco di cui non cambieresti una virgola.

C’è chi vi dirà “è il disco più commerciale dei Soundgarden!”, se per commerciale intende “comprensibile” forse ha ragione.

Non c’è una traccia che spunta particolarmente tra le altre, il disco scorre giù senza intoppi. Magari pezzi come Half sono un po’ troppo protesi verso una psichedelia che strizza l’occhio agli Zep di Kashmir (fra l’altro il tema psichedelico è sempre stato presente nei lavori precedenti), spezzando un po’ le logiche fin lì protratte, ma il pezzo in sé è più che apprezzabile.

The Day I Tried To Live è il pezzo più prevedibile, quelli con un sound più spiccatamente moderno sono certamente Fell On Black Days e Superunknown, che contengono ancora qualche divertente accenno di punk (altra declinazione sempre presente nei lavori della band).

Il pezzo più famoso è certamente Black Hole Sun, fra l’altro uno dei video più angoscianti di anni strapieni di video veramente angoscianti.

Le linee di basso sono un piacere inestimabile, credo che nella produzione di Ben Shepherd (non fortunatissimo al di fuori del gruppo) siano la cosa migliore che gli sia mai passata per la testa. La batteria spesso mi ipnotizza, come in Spoonman, dove ritmi metal e tribali sembrano fondersi nell’ennesimo rimando ai Led Zeppelin, fra l’altro chiodo fisso di Cornell anche negli Audioslave dove troverà a dargli man forte su questo aspetto anche Morello.

Di questo disco credo di non aver mai apprezzato a pieno il lavoro del chitarrista, Kim Thayil. Sì, lo so, è molto sottovalutato, è un bestia, è fortissimo, sei un demente se non ti piace e via dicendo, però a me gli assoli di Thayil mi fanno venire prurito alle mani, che ci posso fare? Sulla tecnica non mi metterò mai a parlare in questo blog, quindi se volete fate vobis.

Trovo che nell’armonia di pezzi come Spoonman l’assolo di Thayil ci stia come il ketchup sulla pizza, pazienza.

Sugli altri membri della band niente da ridire, sebbene le ultime virate pop del bravo Chris Cornell mi abbiano fatto prendere un ulcera fulminante mi accontento degli ottimi lavori fin lì fatti.

Ah, l’ultimo disco, come vi ho detto non l’ho ascoltato, ma dal singolo estratto che vi citavo a inizio post mi sembra che siamo tornati a quella buona confusione di un tempo, adesso pure anacronistica. Però non si sa mai, prima l’ascolterò sempre fiducioso (sono ottimista di natura) poi ne parleremo un’altra volta magari.

Mi scuso in anticipo per la confusione, se manca qualcosa o dico solo cazzate, siete liberi di insultarmi nei commenti.

E non dimenticatevi di provare a suonare un sassofono!

  • Pro: lo ascolti tutto senza mai saltare una traccia e non è una cosa che succede spesso nel mondo del rock più blasonato.
  • Contro: no, non sono i lavori dei muratori nel piano di sotto, sono proprio gli assoli di Thayil.
  • Pezzo consigliato: tutto il disco tutto d’un fiato.
  • Voto: 7/10

[ringrazio Ares, che nel leggere questo post si è accorto che avevo scambiato impunemente il nome di Kim Thayil con quello di Kim Warnick, vorrei poter dire che è stato un lapsus dovuto al fatto che credo che Thayil suoni come una ragazzina, ma in realtà è stato un indecente errore di copia-incolla]