Etichetta: Memphis Industries
Paese: UK
Anno: 2022
Archivi tag: ausmuteants
Podcast – Il new garage oltre gli USA!
Oltre il new garage di Ty Segall e dei Thee Oh Sees c’è qualcosa? Dite la scena francese? Perché quella australiana no? E quella cyperpunk tedesca? E quella psych italiana? E quella weird-punk-sperimentale islandese? In questo episodio di Ubu Dance Party niente Coca-cola per i nostri radioascoltatori, ma i soliti schiaffi e ottima musica che ci compete.
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Ausmuteants -Band Of The Future
Etichetta: Aarght! Records - AARGHT037 Paese: Australia Pubblicazione: 26 Agosto 2016
So che è un’opinione impopolare ma a me i side-projects degli Ausmuteants mi stanno sulle palle, anche gli amatissimi Frowning Clouds, anzi loro prima di tutti! È che questi quattro australiani fuori dalla band mi suonano troppo derivativi di certi sixties che sì, ci scaldano ancora il cuore come le storie di Guareschi, ma che – in estrema sintesi, hanno spaccato i coglioni e saturato il mercato. Perché ascoltarmi un revival dei Monks, dei Troggs o dei Sonics quando ho già i vecchi album – che fra l’altro spaccano decisamente di più. Però quella volta là che i quattro si ritrovano tutti assieme sotto quel magico nome così punk e così dolcemente reietto, ecco che la magia del Natale si ripropone anche il 26 Agosto.
Se “Order Of Operation” del 2014 era un piccolo capolavoro della scena punk mondiale questo “Band Of The Future” impone gli Ausmuteants come il gruppo più muscolare, cazzuto e ispirato del globo.
Sì è vero, sono solo canzonette, e la più lunga dura 2 minuti, e non avrà mai l’impatto di un vero capolavoro, ma la condizione di fragile equilibrio tra la necessità di esprimere la contemporaneità e la nostalgia del punk e del garage moderno, trovano finalmente la loro dimensione in questo album. Se vi pare poco fate voi.
Il revival anni ’80 sta coinvolgendo tutte le forme d’arte e non solo la musica, pensate al cinema con It Follows o alla TV con Stranger Things (ma se ne potrebbero citare decine di esempi), musicalmente la sua forma più pura e quindi anche limitatamente nostalgica è la synth wave. Se è vero che c’è chi prende i suoni tipici della synth wave per farne qualcosa di unico (penso alle musiche di Cliff Martinez nella prima stagione di The Knick e nel Neon Demon di Refn) la maggior parte delle uscite discografiche sono poco più che stronzate, e hanno il loro epicentro nel Regno Unito. E capite bene che tra UK e Australia sebbene i chilometri di distanza c’è ancora qualcosa di più profondo che le unisce.
Già nei loro primissimi lavori gli Ausmuteants rielaboravano le pulsioni synth in un modo tutto loro, mescolando la freddezza di quei suoni alla adolescenziale furia punk con una certa facilità.
Forme più elaborate di questo mix nelle terra dei canguri le abbiamo già assaporate, c’è quella eclettica dei Total Control di “Typical System” (2014), o quella dark e cronenberghiana dei Nun, ma mai con il tiro e l’entusiasmo di questo “Band Of The Future”.
Per quanto la tracklist dell’album abbia in parte dei forti rimandi col passato (titoli come I Hate You e Liars all’aficionados rimandano rispettivamente a Monks e Richard Hell) il dialogo cominciato nel 2014 con il web ora è più un dato di fatto.
Si comincia a rotta di collo e si finisce a rotta di collo, una valanga sonora degna dei migliori Minutemen, da una band che non ha la tecnica sopraffina dei californiani ma di certo ne condivide l’impeto.
La presenza del synth è forte come nell’album precedente ma l’amalgama è decisamente più riuscita, i pezzi sono tutti ultra-compatti, non solo per lo scarsissimo minutaggio, ma perché non c’è mai un reale protagonista nella strumentazione, non c’è la solita chitarra onanistica né i giri acchiappa bischeri col synth, è tutto asservito all’espressività di ogni singola traccia.
Potenzialmente sono tutti singoli micidiali, il mio preferito ovviamente è una stoccata alla critica musicale: Music Writers.
Diecimila meglio del nuovo e pretenzioso Ty Segall, che come tutta la scena californiana si stanno godendo il loro momento d’oro rammollendosi decisamente, gli Ausmuteants sono ancora sul pezzo, tra i loro fan eccellenti ci sono anche band di altrettanto spessore della scena ferrarese (Hallelujah!), scena che in generale dialoga molto bene con il punk australiano e che produce del punk di livello altissimo (ci sono delle involontarie rassomiglianze anche tra i già citati Total Control e i grandiosi Mirrorism per dire).
Non scomodiamo paroloni per concludere questa così poco professionale recensione, diciamo solo che ci sono poche cose a giro che valgono la pena di essere sparate a mille dallo stereo o in auto, ci sono poche cose che vi faranno venir voglia di spaccare tutto come questo album, ci sono poche cose che riprendono la grandezza degli ottanta senza scimmiottarla come gli Ausmuteants.
D’Angelo And The Vanguard, russian.girls, Gangbang Gordon, The Stevens, Total Control
Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:
- non mi interessano,
- notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.
Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?
Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.
Eeeee via con le danze!
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D’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)
[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda di Dogma, ma vabbè, succede.]
Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’b una tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’b made in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.
Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.
Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deaths per esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?
Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.
Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.
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russian.girls – Old Stories (2014)
A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.
Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.
Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.
“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).
Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambient avant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).
Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.
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Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)
Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.
Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).
Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exam mescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.
L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.
Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsense guardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.
L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.
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The Stevens – A History Of Hygiene (2013)
Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.
Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.
Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).
La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.
Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.
Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.
Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.
A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.
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Total Control – Typical System (2014)
Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.
Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthem garage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteants più garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.
Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.
In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.
Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Party è semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!
Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Spring lo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.
Ci sono troppi “capolavori”!
Ho una lista di dieci album che voglio recensire, più tre discografie che ho già incominciato e altre robe. Però no, meglio un post sul perché non voglio più scrivere la parola “capolavoro” per un album contemporaneo, questo sì che interessa, questo sì che vi ossigena il cervello.
A questo punto credo proprio che il mio livello di incapacità di tenere un blog da “1” a “10” sia un bel “Andrea Scanzi”.
Troppe volte nelle scorse recensioni ho parlato di “capolavoro”. Sì. ok, l’unica volta che lo ricordo distintamente è quella su “Order of Operation” degli Ausmuteants, però sono SICURO che ci siano altri casi simili in altri post. Che comunque non rileggerò. Questa recente epidemia di insano entusiasmo verso alcuni album è dovuta a due fattori:
- trovo ridicoli e imbarazzanti gran parte degli album usciti quest’anno tacciati di tale insigne, tra cui “Commune” dei Goat (che mi piacevano e mi divertivano finché non me l’hanno menata a dismisura su quanto siano fighi) e l’ultimo dei The War on Drugs (profondo come una pozzanghera, paraculo e rifinito in sala missaggio per piacere a nonne, mamme, zie e papà);
- sono stranamente di buonumore, e questo mi porta a scrivere più cazzate del solito.
Tutto questo lo scrivo sul blog perché, come qualcuno ormai avrà capito, questo spazio nel web sta crescendo assieme a me, e non avendo altri mentori* se non i critici musicali che impestano le riviste che leggo e i miei commentatori, cresce a rilento. Una delle cose che ho capito in questi ultimi due anni è che un capolavoro lo si può definire in maniera corretta solo dopo la sua storicizzazione.
Di fronte ad opere particolari come il primo album dei Velvet Underground o “Trout Mask Replica” nel momento in cui erano uscite non era facile approcciarsi, c’è chi le disdegnava (i VU erano proprio ignorati, come si fa con i barboni o coi leghisti) o chi le esaltava, ma personalmente non credo affatto che il primi siano tutti imbecilli mentre i secondi tutti profeti, credo solo che entrambe le categorie fossero dei critici un po’ troppo supponenti.
L’importanza di un album si intravede nella generazione successiva, per la sua influenza positiva. Ovvio, se per Beefheart si può benissimo parlare di un album fondamentale, anche solo per gli effetti nella new wave e il post punk (ma la sua influenza si estende dai Pere Ubu fino ad oggi), ho sei seri dubbi invece sulla discografia dei Deep Purple, che sì, hanno influenzato tantissimo, ma hanno influenzato tantissima merda sopratutto.
Ci sono generi poi che secondo me si auto-escludono direttamente dalla categoria masterpiece, come il suddetto hard rock, che nella sua chiusura concettuale (riff, assolo, voce che fa «aaaAAAaaaaAAAH!», riff, assolo, coda finale di dieci minuti in live) non ha più nulla da offrire, per cui o lo superi trasformandolo in altro oppure fai revival.
Ci sono anche casi di album dimenticati di grande valore, che delle volte hanno persino anticipato delle correnti (Pärson Sound?), devo dire che ancora non so bene come approcciarmi di fronte a tali eccezioni, diciamo che per ora li ritengo solo “grandissimi album” e porto a casa (sono troppo professionale).
Avevamo anche incominciato un discorso sul concetto di capolavoro nel rock, ma il mondo reale non mi aiuta a sviluppare questo spazio virtuale. Vediamo se quest’anno le cose vanno meglio, ma immagino che tutto dipenda solo da me e non da altri fattori.
In questo 2015 ci sarà qualche re-review in più, ovvero tornerò su alcuni album che ho recensito nell’anno appena passato perché in certi casi vanno ridimensionati (“Order of Operation” per l’appunto) in altri approfonditi (l’esordio dei Nun, i Molochs, i Corners, etc…).
Grazie a tutti quelli che ogni tanto passano e lasciano il proprio pensiero, spero sempre che questo sia prima di tutto uno spazio divertente e stimolante, poi magari un giorno sarà persino competente!
*tra gli altri mentori che vorrei citare ci sono: L’Uomo Ragno, Martin Heidegger, Tristram Shandy e Sid Meier.
Ora vado a videogiocare, (adoro far esplodere cose con questo pezzo):
Ausmuteants – Order of Operation
Is there any shared creed, code, ideal or mantra that the band shares or lives by?
No fat chicks.
Vi piace il synth pop? Allora adorerete fino allo sfinimento gli Ausmuteants, pochi cazzi e fine della recensione.
No? Davvero? È che c’avrei da studiare per gli esami, da comprare le diciotto bottiglie di rosso per il poker di sabato e… e vabbè, prima il dovere poi la lussuria.
Direttamente dall’Australia (o almeno credo) gli Ausmuteants sono tra le quelle band che invece di guardare ai sixties si sta interessando agli eighties. Mentre i Dreamsalon riscoprono Pere Ubu e Fall, mentre i Corners si sfondano di Gun Club e synth punk, mentre i Nun risciacquano nel pop gli immortali Einstürzende Neubauten, questi pazzi Ausmuteants sono una sorta di Devo dei tempi moderni, solo che invece di addobbarsi come un albero di natale e professarsi cultori di una filosofia spicciola buona solamente per riempire le note dell’album, questi sono davvero fuori di testa.
Sebbene i suoni ricordino quelli degli ottanta più synth questa band è radicata nel suo tempo e il loro terzo album uscito quest’anno è senza troppi giri di parole un fottuto capolavoro, dove la follia dadaista è sinonimo di informazione (quella schizofrenica di internet), dove il porno non è più trasgressione, dove è inutile parlare di de-evoluzione ma piuttosto di de-personalizzazione progressiva del soggetto.
“Order of Operation” è uscito a Settembre per la Goner e la Aarght Records, polverizzando di fatto tutta la scena garage, che dopo questo album sembra talmente fuori luogo da provocare un sincero imbarazzo anche a chi, come me, la adora anche nelle sue sfaccettature più ridondanti. La copertina richiama ai moderni manuali di istruzione per PC, con una fotocopiatrice in bella vista, eppure il senso di distacco del bianco-nero-grigio e quel suono così sintetizzato e freddo, nelle loro mani diventa pura furia punk.
Capisco che Bertoncelli consigli di non recensire più i singoli pezzi, ma come cazzo fai quando ti trovi di fronte a qualcosa di talmente paradossale come Bolling Point, dove il feedback degli Stooges e il ritmo ballabile dei Talking Heads si mescolano come cioccolata in polvere e latte, o forse no, o forse questi Ausmuteants sono veramente l’unica novità in una anno dove le riviste rock cercano nuovi spunti nell’elettronica, nella dubstep, nell’alt pop (che definizione di merda) o nei nuovi album di cinquantenni/sessantenni che ormai hanno dato tutto a tutti, tranne al fisco.
Quando parte Freedom Of Information non sai bene se stai ascoltando degli scapestrati dal CBGB o degli artistoidi da SoHo, ma poi le liriche ti riportano ad un mondo più reale, perché è quello che hai intorno mentre la ascolti.
Furia e demenzialità si incontrano in We’re Cops, una specie di hardcore punk suonato da dei Devo impasticcati, oppure sentite come le atmosfere dark dei Nun che si possono ritrovare nei primi istanti di Family Time vengano spazzate via dalla chitarra post punk di Shaun Connor o come direbbe Jake Robertson «fake synth punk», è meraviglioso come gli Ausmuteants riescano a declamare slogan senza senso o parlare di disgrazie (tra cui il suicidio) mantenendo sempre un’allegria nevrotica, è come ascoltare dei commenti su Facebook interpretati da David Thomas!
Quanto sono potenti e poetici i due minuti scarsi di Wrong? La poesia non è nel testo ma nella commistione tra testo e musica, proprio come nella diametralmente opposta Felix Tried To Kill Himself (composta mentre Robertson rifletteva sul proprio suicidio guardando La Strana Coppia di Gene Saks), proprio non mi spiego come facciano questi pazzi a riuscire a mantenere una così geniale tensione fra ritmo e liriche per tredici tracce, non rallentano mai, non si stancano, riescono sempre a trovare una melodia (o un rumore) dannatamente interessanti ed a incastonarci le parole giuste, non importa che sia un testo descrittivo o semplicemente casuale, l’effetto è sempre lo stesso: armonia.
Come si può realizzare in modo innovativo un classico pezzo stile inno punk come 1982? Ma è chiaro: con quel sound piatto del synth di Jake Robertson, quella chitarra pulita ma incazzata di Shaun Connor, la sezione ritmica garage punk di Marc Dean (basso) e Billy Gardener (batteria) sembra tutto banale e innovativo allo stesso tempo, non sai mai se gli Ausmuteants ti stanno prendendo per il culo oppure stanno facendo della fottuta arte inconsapevolmente.
C’è una importante evoluzione dall’esordio (“Slip Personalities”) e dal secondo album omonimo dell’anno scorso. Nel primo pagavano una certa sudditanza ai grandissimi Chrome, regalandoci comunque momenti notevoli (Blood Nose ha un giro di synth che mi fa impazzire), nel secondo i pezzi raramente superavano i due minuti e l’estetica alla Kraftwerk (troppo distaccata) ogni tanto veniva fuori, certo c’erano i Kinks (Bad Day è una geniale versione non-riesco-a-suonarla di You Really Got Me) e perle punk geniali come No Motivation, ovvero quello che gli Hives non sono riusciti ad essere in vent’anni di carriera in una sola canzone. Ma sopratutto Shaun ha preso in mano i testi e i concetti, elevando la band da semplici cantori delle solite stronzate (sesso, droga e rock and roll) a dissacratori delle stesse, rimescolandole, denudandole e contestualizzandole come poche band o forse nessuna, prima.
– Va bene – diranno i più rompicazzo – tanta roba, però non sono mica i Goat con le loro atmosfere anni ’70 e le influenze nordiche-mistiche-tribaleggianti-alt-rock, perché dici che ‘sti sgorbi hanno prodotto un capolavoro? – Perché quando quando dei ragazzini che hanno come copertina su Facebook una loro foto con indosso delle tette finte, tirano fuori un album così, dove si scoprono gli automatismi e la schizofrenia dell’informazione e della parola nei nostri giorni, allora SÌ, quella è arte.
Non so se ho sbattuto la testa troppo forte, ma dopo una settimana di ascolto “Order Of Operation” mi sembra sempre più bello, sempre più incredibile, sempre più un capolavoro del garage rock contemporaneo.
La citazione all’inizio dell’articolo, e le altre sparse a giro, le ho prese in prestito da questa bella intervista alla band dal mitico blog It’s Psychedelic Baby, ve la linko QUI.
Che si fa ora, ce li spariamo un paio di video? Massì, dai…
Perfomance in studio di Felix Tried To Kill Himself:
Live di Freedom Of Information, con alla voce Shaun Connor (il pezzo d’altronde è suo):