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RASSEGNA STAMPA #1: BLOW UP #187, RUMORE #263

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Primo capitolo di questa mia nuova rubrica quasi-mensile (il quasi con me è d’obbligo) dove amabilmente farò una review delle riviste di review italiane. No, non lo farò di tutte, anche se ovviamente di carne al fuoco ogni mese ce n’è in abbondanza, ma io sebbene legga tutto sono tragicamente pigro quando c’è bisogno di scrivere. Pazienza.

Cominciamo alla grande con i due numeri di dicembre di Blow Up e Rumore, la prima è una rivista decisamente musicale prima ancora che rock, la seconda chiamandosi “Rumore” qualcuno potrebbe pensare sia rock (o drone! sai che figata!) ma una rivista rock non ti mette tra i migliori album dell’anno “Yeezus” di Kanye West, potete scommeterci.

Partiamo da Rumore.

Intanto vi segnalo subito il bellissimo pezzo di Maurizio Blatto con la collaborazione di Barbara Santi, ovvero “Discopanettone” che potete trovare a pagina 46, un meraviglioso excursus tra i mitici pacchi regalo che tutti abbiamo subito a Natale perché “so che a te piace la musica!” sì, ma non i Lunapop, zia. Ci sono tanti interventi di musicisti più o meno famosi davvero geniali, consigliassimo.

Dato che non voglio di certo passare per quello che lecca i culi alla gente passiamo alle palate di merda, con due recensori d’eccezione.

Ed è proprio Barbara Santi che mi casca dal pero con una tragicomica recensione dell’ultima fatica di Franco Battiato assieme ad Antony and the Johnsons. Comincia già dimostrando una certa professionalità “Sì, il dio della musica pare che esista e che li abbia fatti incontrare” va bene essere appassionati di quel dato artista o gruppo, ma addirittura l’idolatria mi sembra esagerato. Sì perché a lei “i brividi corrono lungo la schiena” di fronte a questo lavoro di cover pop dannatamente commerciali, per le quali Battiato si sarà sforzato come fa da almeno una decina d’anni, ovvero tanto quanto per alzarsi dal letto e mettersi le pantofole (sempre che lui non lieviti ad un centimetro dall’indegno pavimento). Pensa te, ci stanno As Tears Go By dei Rolling Stones, La realtà non esiste di Claudio Rocchi e (udite udite) Crazy in Love di Beyoncé! Un album “prezioso”, come questa recensione a 90° gradi.

Notevole la rubrica “Singolare” di Rumore, dove si commentano gli EP e dove, giustamente, sono richieste meno parole delle già brevi recensioni. Il tuo lavoro oh grande recensore è dunque quello di sintetizzarmi al meglio cosa troverò in quei pochi minuti di musica. Macché, troppo facile, parliamo invece di tutt’altro.

E infatti ecco il Maurizio Blatto di “Discopanettone” il quale ha evidentemente speso tutte le sue energie per il mitico articolo suddetto, dato che nel recensire “Festivalbug” dei Bachi Da Pietra, in undici righe non dice un cazzo. “Questo EP di tre brani, in uscita digitale o con il vinile con maglietta abbinata, è tra le cose migliori dei Bachi” toh, c’è la maglietta, lo sto già prenotando “Ritmica Tito Balestra e blues Madalena, straripano entrambi di terra piemontese e dei suoi frutti”. Sig. Blatto, i pezzi sono tre, se invece delle magliette, dei download, delle parole di Succi, farci dotti del fatto che un pezzo è ritmico, l’altro è blues e il terzo è esplicativo (???) ti fossi concentrato un attimo avrei anche capito che aspettarmi. Invece così è solo una segnalazione che potrei fare anche io dicendo: “caaaazooo, i Bachi spaccano, andateveli ad ascoltà!” il concetto è lo stesso ma espresso in modo più sincero.

Allucinante Marco Pecorari su “Aquafelix Ep” dei Cayman The Animal, il quale non solo non è buono manco a dare il voto (che oscilla tra un 6 e un 8!) ma oltretutto fa un po’ il Lester Bangs de’ noantri© di cui avevo parlato qualche post fa, e infatti:
“Il party rock ‘merigano e il progressive si incontrano al caseificio di Orte. Dietro il bancone Hart&Mould imbustano, Egerton fa il conto: nove burrate fresche di giornata per venti minuti di freschezza, in una confezione a dir poco spettacolare (una specie di cartone di pizza con manico+cd+toppa), a cura di quel genio di Ratigher. Ho già detto “freschezza”?”
E io invece ho già detto “ma che cazzo stai a dì?” Ma c’è qualcuno che queste recensioni le supervisiona? In quale incubo lisergico si trova la redazione di Rumore???

Naturalmente non può mancare la recensione dell’ultimo album di Lady Gaga (ricordiamo l’intestazione di Rumore: “Dal 1992 la tua rivista indipendente di musica underground”, sì, ed io sono Bukowski, Berlusconi è Gandhi e Renzi è J.F. Kennedy).
La firma è di un recensore degno del Rolling Stone Italia, Francesco Farabegoli, che intanto dà un bel 8/10 ad “ARTPOP” di Lady-o Ga-ga, ma poi ne tesse certe lodi da far arrossire anche la nuova diva (urgh!) del pop! “Un trip solipsista di casse tuonanti, recuperi fidget da guerra, prove vocali da brivido ed estetica white trash trasfigurata in un gioco di specchi in frantumi” eccetera eccetera eccetera. Questa per Farabegoli è la sua “opera più personale e ambiziosa” praticamente “una sorta di Downward Spiral apocrifo” COOOSA?
Ma stiamo parlando dei Nine Inch Nails in una recensione su Lady Gaga comparandoli? Ma cosa ci incastrano? È come se io scrivessi una recensione dell’ultimo album degli Opeth comparandoli a “Honey” dei The Ohio Players!!!
La tua rivista indipendente di musica underground un paio di cazzi belli e buoni.

Ci sarebbero altre perle, ma andiamo su Blow Up, che se no si offende.

Anche nella playlist del 2013 made in Blow Up compaiono qualche ciofeca ben confezionata per i soliti gonzi, come gli ultimi album di Arctic Monkeys, David Bowie e MGMT, per quello che si definisce un magazine rock ci vuole una buona dose di coraggio ad inserire album così mediocri e poco rock. Va detto che Zingales tra i suoi best ci butta dentro Pet Shop Boys, Justin Timberlake e l’ultimo Paul McCartney, onorevoli nomi da prima pagina del solito Rolling Stone. Magazine rock, magazine rock, magazine rock…

Mi ha decisamente convinto la bella e esaustiva recensione di Marco Sideri sull’ultimo live di Nick Cave (“Live from KCRW”), ero un po’ indeciso ma dopo aver letto questa recensione lo desidero con tutto me stesso. Ovviamente nella versione doppio LP.

Incomprensibile Massimiliano Busti che per introdurci in “Innerlands” dei Trapcoustic (la band italiana con le due copertine più brutte della storia) fa sfoggio di non so bene che cosa:
Nenie da neuropsichiatria infantile, tastiera fuori pitch, ballate barrettiane dal tono catatonico, registrazioni da sgabuzzino delle scarpe” insomma: una merda. Citando Sun City Girls, i Pooh e Moondog per spiegarci questo strano o quanto meno schizofrenico album si merita il titolo di Umbertoeco© del mese.

Preciso e obiettivo, fosse stato anche leggermente più sintetico sarebbe perfetto, anche perché non ci sono tante parole da spendere per “What The…” dei Black Flag, ma Federico Guglielmi conferma la sua passione (altalenante) per una musica quantomeno autentica.

Sintetico, comprensibile, decisamente autore delle migliori recensioni di Dicembre perché unisce il lato romantico a quello tecnico senza mai strafare il buon Fabio Polvani, il quale ci consiglia particolarmente il blues-rock ispiratissimo di “Devil Man” dei Blues Pills. Praticamente l’ho già ordinato.

Breve ma inteso delirio di Girolamo Dal Maso che tenta di spiegarci “Vertebra” degli Australasia: “Rock vitaminico e onirico, suonato con gusto.” STOP “Post-rock chitarristico e sintetizzatori vintage.” STOP. Un bell’inizio a telegramma ci sta sempre bene. Ma ecco qui un chiaro esempio di bipolarismo: “Bello l’artbook, decisamente vintage pure lui, potrebbe essere un Neil Young d’annata o qualche misconosciuto gruppo gotico post-wave” uguale, sembrano facili da scambiare.

Anche Stefano Isidoro Bianchi è affetto da uno spiccato bipolarismo, criticando le parti strumentali di “Metafather” dei Imbogodom dicendo che “non hanno senso”, un bell’affare penserete voi, ma il voto oscilla tra 6 e 7. Qualcuno potrebbe criticarmi facendomi notare come poche righe prima parlasse di “belle e solenni ballad di folk apocalittico per nastri” (affermazione interessante, non trovate?) ma dato che sempre come ci dice Bianchi questo album fa parte di una trilogia, il fatto che qui i strumentali siano addirittura SENZA SENSO mi fa pensare che non sia esattamente il più riuscito dei tre. Ma se questo viaggia tra il 6 e il 7 ed ha intere parti musicali buttate lì a casaccio, allora i due precedenti devono essere dei capolavori inestimabili. Oppure no?

C’è anche il momento “oddio, ma a te ti pagano per scrivere SOLO QUESTO?” con una intensa recensione di Antonio Ciarletta sui Le Single Blanc e il loro “Aoûtat”:
“Ancora math-noise da Musica Per Organi Caldi con i francesi Le Single Blanc. Rispetto a Tougsbozuka qui il suono è leggermente più articolato, anche se meno incisivo. Comunque promossi.” con un bel 7. Bello incisivo, non c’è che dire.

Ovviamente c’è tanto altro di buono e molto di più di cattivo, ma io sono pigro e non mi metterò qui a scrivervi il resto.

Alla prossima rassegna stampa ragazzi, se volete segnalare qualcosa o insultarmi pesantemente la mamma potete tranquillamente farlo nei commenti.

Minutemen – Double Nickels On The Dime

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Dopo il punk dannato e maledetto dei The Alley Cats, e quello beach e arrabbiato degli X, concludiamo questa brevissima e personalissima trilogia del punk californiano made in eighties con un disco che non è un disco, ma è il massimo risultato del punk come genere musicale.

Legati indissolubilmente al punk antagonista dell’hardcore anti-reaganiano, il loro sound è la geniale commistione di intuizioni musicali che spaziano dai Van Halen ai Bad Brains, dai Meat Puppets ai Hüsker Dü, fondendo jazz, funk e reggae il tutto nell’arco di canzoni brevissime ma sempre compiute.

I Minutemen sono stati una grande rock band, almeno fino al 1984.

Un trio di ottimi esecutori, dal compianto D. Boon (voce e chitarra: e che voce e che cazzo di chitarra!) al veloce ma dannatamente preciso George Hurley (batterista e talvolta voce), fino a Mike Watt, un bassista che è più un mito che un uomo, ma che adesso segue Iggy Pop nella sua inutile riesumazione di un furore punk leggermente anacronistico.

Dopo due ottimi album, “The Punch Line” (1981) e “What Makes a Man Start Fires?” (1983) i Minutemen hanno come una sorta di divinazione.

Non si sa bene come cazzo sia potuto succedere, insomma, fino a un anno prima questi tre facevano soltanto della buona musica, dichiaratamente democratici e incazzati fino al midollo con le politiche repressive e la mentalità da cavernicolo di Reagan, una band hardcore da rispettare e onorare, ma nel 1984 decisero, inconsciamente, di cambiare la storia del rock.

Se le vendite esaltavano l’ennesimo disco copia-incolla dei Queen, “The Work”, arrivato al successo grazie al singolo Radio Ga Ga (che già dal titolo fa intuire la profondità culturale e musicologica intrinseca), nessuno poteva di certo aspettarsi il successo che arriderà a questo trio hardcore.

Double Nickels On The Dimeè stato un terremoto che ha scosso le fondamenta di tutto il rock autentico. Le 45 tracce che compongono l’originale LP del 1984 sono l’esempio lampante di come delle volte il genio si manifesti senza preavviso, e di come il rock possa anche innalzarsi dalle sue chitarre suonate alla meno peggio e diventare Musica.

Un album di questa caratura va considerato da almeno tre punti di vista:

  • quello musicale
  • quello letterario
  • quello storico

In generale per fare una buona critica a qualsiasi album i tre punti sopra elencati vanno presi sempre in considerazione, ma il terzo album dei Minutemen è uno di quei rarissimi casi in cui la rivoluzione comprende tutti e tre i punti.

Musicalmente D. Boon, Watt e Hurley spingono al massimo l’acceleratore, velocizzandosi e raffinandosi ancora di più. È straordinario constatare con quale facilità la band abbia fuso tutte le maggiori intuizioni degli anni ’80 e ’70, guardando all’avant-garde come ai più materiali Black Flag, riuscendo allo stesso tempo a non ripetersi mai in 45 tracce. Il sound complessivo ne esce incredibilmente compatto, creando nell’arco di una ottantina di minuti un’esperienza unica e irripetibile.

La musica, sebbene tecnicamente tutto tranne che scontata, è anche fruibile. Al contrario di un rock destrutturato, come quello reso celebre da Captain Beefheart, o a esempi di estremismo come nel bellissimo “Right Now!” (1987) dei Pussy Galore, i Minutemen riescono a distruggere ed estremizzare senza sodomizzare l’ascoltatore, il che è innegabilmente un pregio.

A livello letterario siamo di fronte ad una sintesi della storia del linguaggio punk-rock. Dagli inni pacifisti all’introspezione indie, dalla poesia di Patti Smith al linguaggio volgare e irriverente dell’hardcore, Double Nickels è un compendio irrinunciabile per studiare il linguaggio sociale del rock, le liriche che parlano allo stomaco senza dimenticarsi del cervello, la perfetta simbiosi tra ritmo, melodia e rumore assieme al testo.

Per la storia della musica siamo invece di fronte ad un lavoro inarrivabile, un punto di riferimento per chiunque voglia intraprendere la carriera del rocker. Non solo Double Nickels si fa rappresentante musicale e sociale di un intero movimento, riuscendo al contempo a superarlo concettualmente, ma è anche un punto di incontro musicologico di altissimo livello che merita l’attenzione degli studiosi oltre che dei rimasti con le magliette dei Ramones tipo me.

Ammetto che sarebbe stimolante recensire pezzo per pezzo questo album, valutando con attenzione tutti gli spunti e le idee buttate all’interno di questo calderone infernale. Vi dico solo che comincia con l’accensione dell’auto di D. Boone, l’invito ad entrare in un viaggio modesto con tre amici punk che girano l’America tra concerti e avventure, che ne vedono e ne sentono di tutte, che te le raccontano spassionati tra una cerveza e l’altra, con i quali puoi scherzare, vomitare e magari confessarti, puoi dividerci una pizza o magari anche una ragazza, e che quando li lascerai andare via all’orizzonte non saprai mai dove e quando te li potresti ritrovare davanti.

Voto: 9,5/10.

Nirvana – Nevermind

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Perché i Nirvana ebbero tanto successo?

Da una parte ci sono i fan, i quali semplicemente ti rimandano ad ascoltarti i loro album, dall’altra i detrattori, che li trovano una band normale (se non indecente) che ha semplicemente solcato l’onda di una moda.

C’è bisogno di fare ordine.

Partiamo da lontano, ovvero dall’hardcore. Intorno alla fine degli anni ’70 il punk inglese libera in America un’idea di rock in realtà sopita da qualche anno, ovvero quel proto-punk primordiale che aveva le sue origini nei The Stooges e sopratutto nei MC5. Perché prendo proprio la band di “Kick out the jams” in maggior considerazione? Semplicemente perché era una band fortemente politicizzata, proprio come il movimento hardcore.

Ma se gli MC5 appartenevano ad un partito vero e proprio (il White Panther, estrema sinistra) invece l’hardcore non si tende a relegarlo ad un partito vero e proprio, ma piuttosto come un movimento di protesta verso una singola persona: Ronald Reagan.

Reagan cominciò la sua avventura politica nelle file del partito Democratico, ma spaventato dal crescente pericolo del comunismo passò ai repubblicani (è importante tenere conto di questa paura che perseguiterà Reagan e ne influenzerà enormemente la politica una volta Presidente).

Non è infatti un caso se dopo aver perso contro Ford (come candidato per i repubblicani, ovviamente) nel 1976 imbastirà un famoso discorso in cui getterà il seme della sua futura campagna elettorale basata sulla paura del “pericolo rosso”.

Nel 1981 diventa Presidente, nel suo celebre discorso d’insediamento, dopo aver accennato alla crisi economica che ciclicamente attanaglia gli U.S.A., proferirà la famosa frase: “In this present crisis, government is not the solution to our problem, government is the problem.” Grillo ne sarebbe fiero.

Detto ciò nel 1981 band come T.S.O.L., Black Flag (ora con Rollins alla voce), Flipper, D.O.A. e Bad Brains trovarono modo di esplodere definitivamente, generando l’hardcore americano.

La forza di questo movimento è l’odio contro Reagan e la sua politica di austerità, presto migliaia di band si uniranno e le varie fazioni dei diversi stati cominceranno a girare per tutto il paese.

L’energia sprigionata in quegli anni fu devastante, le due band di spicco erano i Black Flag, con il loro hardcore velocissimo e potentissimo nelle live, e i Bad Brains, i quali, al contrario delle altre band, sapevano suonare.

Ci sarebbero fin troppe formazioni da citare, ma non perdiamo la bussola. Questo hardcore però finisce presto, finisce con la rielezione di Reagan nel ’85, che sancisce la fine di un sogno e la speranza che l’hardcore potesse in qualche modo cambiare le cose.

Per fortuna i semi gettati da queste band fioriranno presto.

I Bad Brains, trasformatosi in una band di reggae (è così) lasciano il timone ai Beastie Boys (che prima spaccavano i culi), arrivano i virtuosi Minutemen, i Hüsker Dü e i Meat Puppets, tutte band che influenzeranno non poco i Nirvana.

Quando nel 1987 i Nirvana compiono i primi passi vengono subito presi in simpatia.

La loro tendenza segue il punk-rock con incursioni di hard-rock, tipiche di quegli anni orfani della prima ondata di hardcore.

Le loro performance nei locali di Aberdeen (assieme ai Melvins) non saranno esaltanti per la band, la quale si unirà ben presto alla scena emergente di Seattle. Se l’hardcore nasce in tante città americane, e solo dopo la prima ondata arriverà anche a New York (le leggende narrano dopo uno storico concerto dei Bad Brains), a Seattle invece si riunisce una forte tendenza hard-rock, la quale rallenta tantissimo i ritmi forsennati dei Black Flag portandoli a quelli pesanti e mastodontici dei Black Sabbath.

Non ne farà di certo un segreto Cobain, i Nirvana prendevano dai Knack come dai Black Flag, dai dimenticati Bay City Rollers ai Black Sabbath.

La band avrà un successo enorme a Seattle, mostrandosi una delle più amate nel circolo underground emergente.

Quando nel 1989 pubblicano “Bleach” le trentamila copie vendute non sembrano così poche. Anzi. Per una band di una scena emergente e così fuori dal mainstream era un ottimo risultato. Non saranno virtuosi come gli Hüsker Dü, né violenti come i Melvins di “Ozma” (in “Bleach” alla batteria per soli tre pezzi parteciperà proprio Dal Crover, il batterista che sostituirà Dillard nei Melvins), ma “Bleach” è un album pesante e piuttosto hard, con tematiche che colpiscono fortemente l’immaginario collettivo americano di quegli anni.

Di certo non sono i testi il valore in più dei Nirvana, nulla di che come liriche (non che nel rock in generale ci siano chissà che cime) ma la voce di Cobain farà diventare ogni pezzo dei Nirvana un vero e proprio inno generazionale.

Sempre sull’orlo di spezzarsi la voce di Cobain è tra le più espressive di tutta la storia del rock, segno anche di una personalità fragile ma all’epoca ben lontana dalle terribili pressioni emotive che la condurranno ad una fine tragica.

Ma l’impensabile arriva con “Nevermind”.

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La premessa storica è necessaria per capire come “Nevermind” fosse un album incredibilmente al di fuori dell’idea di rock che i media propinavano (e propinano) alle persone, frutto proprio di quella rabbia e di di quella frustrazione che ha le sue radici nell’hardcore.

È un album scomodo “Nevermind”, un album che svetta al primo posto aprendo le porte a tantissime altre band (primi fra tutti Alice in Chains, Soundgarden e Pearl Jam) e dando voce all’underground (Melvins e Meat Puppets tra tutti).

Il messaggio di “Nevermind” era destabilizzante, un attacco diretto all’establishment dal suo interno, proprio come disse “King” degli Urge Overkill:

[…]anche se in maniera indiretta, “Nevermind” manda affanculo il governo, lo status quo e gli imbecilli. E si può estendere tutta la loro filosofia all’anti-razzismo, l’anti-fascismo e l’anti-censura.

Tanti gli atti della band che sovvertivano lo status quo delle majors, a partire dal celebre video di Smell Like Teen Spirit, in cui la band decise di suonare davvero scatenando il putiferio negli spalti (il tutto assolutamente in disaccordo con il regista, il quale però riprese comunque anche dopo che la situazione andò fuori dal suo controllo).

Oppure la loro esibizione a Top of the Pops, in cui sempre contro le regole chiesero che la voce non fosse in playback, e imbastirono uno show demenziale che mandò su tutte le furie i direttori dello show.

I Nirvana non potevano essere corrotti perché autentici, non erano una band costruita a tavolino per essere fotogenica e piacevole, tutt’altro.

Cobain fu dapprima il più entusiasta del successo, ma mano a mano che esso cresceva sempre di più in lui crescevano anche i problemi. La droga sarà certamente il fattore scatenante che portò ad una spirale decisamente discendente il giovane rocker.

Il grande successo della band, planetario dopo “Nevermind”, è l’apice di un lungo percorso che vide nei Nirvana una band portatrice di un forte messaggio politico e sociale, figlio dell’hardcore e del suo successivo fallimento. È la storia di ben due decenni d’America condensati in una band, non è un caso se la parola “empatia” sarà usata molto spesso per spiegare lo stato d’attrazione dei fan alla figura di Cobain.

Non ci deve stupire quindi che l’ultima lettera che Cobain scrisse, pochi istanti prima del suicidio, fosse rivolta prima di tutto ai suoi fan.

Se band che hanno sfornato album che sono la Storia del rock, come “Double Nickels on the Dime” dei Minutemen, “Meat Puppets II” dei Meat Puppets o “Zen Arcade” dei Hüsker Dü oggi sono oscurate dalle chitarre distorte di Cobain, dai ritmi e dalle melodie tutt’altro che rivoluzionarie dei Nirvana, è dovuto alla forte autenticità che si cela dietro il messaggio e la storia (ben più profonda) che questa band rappresenta.

Sì, lo so che non ho recensito “Nevermind”, sono un coglione.

  • Pro: un album storico, la voce di almeno due generazioni.
  • Contro: se preferite “Double Nickels on the Dime” al fottuto grunge si ‘sta ceppa non posso di certo dissentire. Anzi.
  • Pezzo consigliato: Polly è struggente e decisamente rappresentativa dell’angoscia e delle ripercussioni emotive della fine prematura dell’hardcore.
  • Voto: 6,5/10