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La questione Scaruffi (revisited)

Dire che Bowie è un musicista è come dire che Nerone era un suonatore di lira (fatto tecnicamente vero, ma fuorviante).
Piero Scaruffi, dalla scheda critica su David Bowie

L’idea di Piero Scaruffi era semplice: mettere online una banca dati liberamente scaricabile via ftp che fosse una sorta di archivio digitale delle sue recensioni e dei suoi pensieri su cinema, poesia, letteratura, eccetera. Ci aveva pensato nel 1986 e ben nove anni dopo nacque http://www.scaruffi.com, diventato in poco tempo il sito più imitato della storia recente dell’internet. Ciò che però ha reso celebre Scaruffi non è solo il suo essere stato una vera avanguardia nell’ambito della divulgazione digitale, ma i suoi giudizi tagliati con l’accetta su qualsiasi artista o band abbastanza popolare o non sufficientemente sperimentale.

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La tragicommedia di Kasabian e Black Keys

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È incredibile come si perseveri nel coltivare il cattivo gusto. Perché ad un certo punto l’oggettività perde di significato, l’onestà intellettuale sprofonda dietro tecnicismi (sia di scrittura da parte dei critici che musicali) e si arriva ad accettare tutto passivamente.

Gran parte del rock che viene prodotto su scala mondiale oggi trova dei fruitori appassionati praticamente ovunque, grazie a quel marchingegno luciferino di internet. INTERNET! Lo spauracchio dell’industria musicale! INTERNET! Il terrore che naviga su fibre ottiche! INTERNET! La gioia di poter trovare porno per tutte le stagioni e band per tutti i gusti!

Oggi più che mai il ruolo del critico è necessario, ma oggi più che mai il critico è inutile. Perché esiste questa contraddizione? 

La moltitudine di musica che si può ascoltare da YouTube e dai siti streaming spaventerebbe anche il più hungry degli  appassionati (o il più foolish, ma l’unione delle due cose non fa un CEO di fama mondiale semmai un eroinomane) e delle volte riuscire ad orientarsi di fronte a cotanta offerta non è facile. Allo stesso tempo se ti spunta sotto gli occhi il nome di una band che non avevi mai immaginato che potesse esistere, perché perdere tempo per capire se possa piacerti tramite il giudizio del critico di fiducia se puoi ascoltarli gratis subito?

Ma per quale cavolo di motivo il mestiere del critico è diventato “consigliere della corte regale di Tal dei Tali”? Quello lo faccio io, che ho un blog del cazzo e mi permetto anche di insultare penne di “spessore” come Zingales (ma perché sono un cojone, mentre lui è solo una notevole ciofeca), ma il critico vero, leggasi anche “quelli che scrivono su Blow Up”, non è solo un fido amico a cui chiedi un bel disco per sconquassarti le budella, è un tipo che ha studiato e si è fatto il culo per spiegarti che non sono solo rumori e suoni casuali quelli che escono dalle casse del tuo stereo (o dalle cuffie attaccate al tuo lettore mp3 del cazzo).

Ma che c’entrano Kasabian e Black Keys? Ma la controversia è proprio lì! Due band discrete che troneggiano nei social, su YouTube, e anche nelle riviste che dovrebbero essere l’ultimo baluardo contro la mediocrizzazione (newspeak in libertà) del giudizio. Io m’incazzo quando sono tutti d’accordo, c’è poco da fare.

Sui Black Keys ci spendo di quando in quando due parole, e se le spendo è perché la band mi piaceva e non poco. Ma quando mi sento dire che il salto che c’è tra un “Rubber Factory” (2004) e un “El Camino” (2011) è un evidente segno della maturazione della band io sbarello. Ma come cazzo si può dire che dalla rabbia e dal furore di Grown So Ugly o dal riff di 10 A.M. Automatic una band si evolve con la struttura che urla BANALITÀ da ogni decibel di Little Black Submarine, o quella nenia preconfezionata per MTV di Gold on the Ceiling? Una volta la critica rock bastonava queste stronzate, oggi le appoggia, perché oggi fruibilità è sinonimo di qualità. Puttanate.

Black-Keys

E i Kasabian? Mi dite per piacere quali sono i punti di contatto tra il primo album di Tom Meighan e Sergio Pizzorno e uno qualunque degli Oasis? Questo lo chiedo perché da anni ci fracassano i coglioni con questo paragone costante tra Oasis-Kasabian che sta in piedi giusto giusto per qualche pezzo di “Empire” (2006) e poi crolla ineluttabilmente. Sarà che tutti sanno che le due band si ammirano a vicenda e critici stanchi del proprio lavoro invece che ascoltare con cognizione di causa “Kasabian” (2004) hanno buttato lì due stronzate?

Ma ve lo ricordate “Kasabian”? Un album commerciale, certamente, ma dignitoso, con una ricerca nel sound interessante, naturalmente scontata e banale ma quantomeno personale. Reason Is Treason era un pezzo con i coglioni (ancora di più nella versione “nascosta” dopo U Boat), ma anche i suoni sporchi di Club Foot erano accattivanti. Un album quadrato, tutto d’un pezzo, con una estetica ben definita. 

Poi la rivoluzione, un “Empire” acido, a tratti addirittura acustico, con la sofferta progressione di The Doberman, che qualcuno dovrebbe spiegarmi perchè non vale mille volte la più banale e ridicola Little Black Submarine dei Keys. Ma anche la malinconica British Legion, molto Oasis negli intenti, risulta infine ben più intima di qualunque pezzo degli Oasis, molto più autentica perché meno elaborata. 

Oggi queste due band sono quanto di più lontano dall’interessante ci sia nel mondo musicale. È una tragicommedia quella di Kasabian e Black Keys, schiavi della propria immagine, profondi come una pozzanghera, merce di scambio nel flusso continuo di dati pirata.

Fever da “Turn Blue” (2014), ultima fatica dei Black Keys, è un prodotto che in una rivista seria di rock underground non verrebbe nemmeno nominato, i critici dicono che in questo album non ci sono le hit del precedente per scelta, ma non capiscono che è solamente il prodotto ad essere ancora più mediocre del precedente. Forse mi sto lasciando trasportare eccessivamente direte voi, può darsi, ma il rock psichedelico di Bullet In The Brain vale davvero di più degli Harsh Toke? Voi mi direte, giustamente, che sono band con intenti diversi, ma sempre di rock si parla, e la psichedelia con tanto di riferimenti agli anni ’70 ci sono, e allora perché Rumore non mette in prima pagina band dello stesso genere dei Keys ma con qualcosa da dire?

La cosa bella è che album come “Turn Blue” o “48:13” (2014) dei Kasabian, sono album che non dicono un bel niente, è la solita musica che non cerca qualcosa di più alto del solito riff, di una melodia d’effetto o anche di stupire tecnicamente il musicista in ascolto. 

Oggi più che mai riprendere gli anni ’70 per dire qualcos’altro è attuale, il Sun Ra ripreso da alcune band psichedeliche italiane si combina perfettamente con il mercato di Porta Palazzo (li nomino sempre ma non li recensisco mai, prometto che presto mi rimetterò in pari con La Piramide Di Sangue), il Syd Barrett dei Thee Oh Sees svela paranoie o annebbia i sensi di una società in crisi non solo economica, c’è la rabbia borghese di Ty Segall, il punk pop nevrotico di Jay Reatard così autentico, i riff post-apocalittici degli Zig Zags che riprendono le immagini di Carpenter e il Neil Marshall di Doomsday senza citarli direttamente, questo è grande rock, quello che dovrebbe sostare in quelle riviste e in quelle librerie di iTunes o playlist di YouTube di chi si dà un tono, di chi “ascolto rock”.

Il rock è un modo diverso di vedere le cose di tutti i giorni e riscoprile di nuovo, non la costante ricerca di una invenzione melodica, tecnica, linguistica o banalità del genere. 

RASSEGNA STAMPA #1: BLOW UP #187, RUMORE #263

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Primo capitolo di questa mia nuova rubrica quasi-mensile (il quasi con me è d’obbligo) dove amabilmente farò una review delle riviste di review italiane. No, non lo farò di tutte, anche se ovviamente di carne al fuoco ogni mese ce n’è in abbondanza, ma io sebbene legga tutto sono tragicamente pigro quando c’è bisogno di scrivere. Pazienza.

Cominciamo alla grande con i due numeri di dicembre di Blow Up e Rumore, la prima è una rivista decisamente musicale prima ancora che rock, la seconda chiamandosi “Rumore” qualcuno potrebbe pensare sia rock (o drone! sai che figata!) ma una rivista rock non ti mette tra i migliori album dell’anno “Yeezus” di Kanye West, potete scommeterci.

Partiamo da Rumore.

Intanto vi segnalo subito il bellissimo pezzo di Maurizio Blatto con la collaborazione di Barbara Santi, ovvero “Discopanettone” che potete trovare a pagina 46, un meraviglioso excursus tra i mitici pacchi regalo che tutti abbiamo subito a Natale perché “so che a te piace la musica!” sì, ma non i Lunapop, zia. Ci sono tanti interventi di musicisti più o meno famosi davvero geniali, consigliassimo.

Dato che non voglio di certo passare per quello che lecca i culi alla gente passiamo alle palate di merda, con due recensori d’eccezione.

Ed è proprio Barbara Santi che mi casca dal pero con una tragicomica recensione dell’ultima fatica di Franco Battiato assieme ad Antony and the Johnsons. Comincia già dimostrando una certa professionalità “Sì, il dio della musica pare che esista e che li abbia fatti incontrare” va bene essere appassionati di quel dato artista o gruppo, ma addirittura l’idolatria mi sembra esagerato. Sì perché a lei “i brividi corrono lungo la schiena” di fronte a questo lavoro di cover pop dannatamente commerciali, per le quali Battiato si sarà sforzato come fa da almeno una decina d’anni, ovvero tanto quanto per alzarsi dal letto e mettersi le pantofole (sempre che lui non lieviti ad un centimetro dall’indegno pavimento). Pensa te, ci stanno As Tears Go By dei Rolling Stones, La realtà non esiste di Claudio Rocchi e (udite udite) Crazy in Love di Beyoncé! Un album “prezioso”, come questa recensione a 90° gradi.

Notevole la rubrica “Singolare” di Rumore, dove si commentano gli EP e dove, giustamente, sono richieste meno parole delle già brevi recensioni. Il tuo lavoro oh grande recensore è dunque quello di sintetizzarmi al meglio cosa troverò in quei pochi minuti di musica. Macché, troppo facile, parliamo invece di tutt’altro.

E infatti ecco il Maurizio Blatto di “Discopanettone” il quale ha evidentemente speso tutte le sue energie per il mitico articolo suddetto, dato che nel recensire “Festivalbug” dei Bachi Da Pietra, in undici righe non dice un cazzo. “Questo EP di tre brani, in uscita digitale o con il vinile con maglietta abbinata, è tra le cose migliori dei Bachi” toh, c’è la maglietta, lo sto già prenotando “Ritmica Tito Balestra e blues Madalena, straripano entrambi di terra piemontese e dei suoi frutti”. Sig. Blatto, i pezzi sono tre, se invece delle magliette, dei download, delle parole di Succi, farci dotti del fatto che un pezzo è ritmico, l’altro è blues e il terzo è esplicativo (???) ti fossi concentrato un attimo avrei anche capito che aspettarmi. Invece così è solo una segnalazione che potrei fare anche io dicendo: “caaaazooo, i Bachi spaccano, andateveli ad ascoltà!” il concetto è lo stesso ma espresso in modo più sincero.

Allucinante Marco Pecorari su “Aquafelix Ep” dei Cayman The Animal, il quale non solo non è buono manco a dare il voto (che oscilla tra un 6 e un 8!) ma oltretutto fa un po’ il Lester Bangs de’ noantri© di cui avevo parlato qualche post fa, e infatti:
“Il party rock ‘merigano e il progressive si incontrano al caseificio di Orte. Dietro il bancone Hart&Mould imbustano, Egerton fa il conto: nove burrate fresche di giornata per venti minuti di freschezza, in una confezione a dir poco spettacolare (una specie di cartone di pizza con manico+cd+toppa), a cura di quel genio di Ratigher. Ho già detto “freschezza”?”
E io invece ho già detto “ma che cazzo stai a dì?” Ma c’è qualcuno che queste recensioni le supervisiona? In quale incubo lisergico si trova la redazione di Rumore???

Naturalmente non può mancare la recensione dell’ultimo album di Lady Gaga (ricordiamo l’intestazione di Rumore: “Dal 1992 la tua rivista indipendente di musica underground”, sì, ed io sono Bukowski, Berlusconi è Gandhi e Renzi è J.F. Kennedy).
La firma è di un recensore degno del Rolling Stone Italia, Francesco Farabegoli, che intanto dà un bel 8/10 ad “ARTPOP” di Lady-o Ga-ga, ma poi ne tesse certe lodi da far arrossire anche la nuova diva (urgh!) del pop! “Un trip solipsista di casse tuonanti, recuperi fidget da guerra, prove vocali da brivido ed estetica white trash trasfigurata in un gioco di specchi in frantumi” eccetera eccetera eccetera. Questa per Farabegoli è la sua “opera più personale e ambiziosa” praticamente “una sorta di Downward Spiral apocrifo” COOOSA?
Ma stiamo parlando dei Nine Inch Nails in una recensione su Lady Gaga comparandoli? Ma cosa ci incastrano? È come se io scrivessi una recensione dell’ultimo album degli Opeth comparandoli a “Honey” dei The Ohio Players!!!
La tua rivista indipendente di musica underground un paio di cazzi belli e buoni.

Ci sarebbero altre perle, ma andiamo su Blow Up, che se no si offende.

Anche nella playlist del 2013 made in Blow Up compaiono qualche ciofeca ben confezionata per i soliti gonzi, come gli ultimi album di Arctic Monkeys, David Bowie e MGMT, per quello che si definisce un magazine rock ci vuole una buona dose di coraggio ad inserire album così mediocri e poco rock. Va detto che Zingales tra i suoi best ci butta dentro Pet Shop Boys, Justin Timberlake e l’ultimo Paul McCartney, onorevoli nomi da prima pagina del solito Rolling Stone. Magazine rock, magazine rock, magazine rock…

Mi ha decisamente convinto la bella e esaustiva recensione di Marco Sideri sull’ultimo live di Nick Cave (“Live from KCRW”), ero un po’ indeciso ma dopo aver letto questa recensione lo desidero con tutto me stesso. Ovviamente nella versione doppio LP.

Incomprensibile Massimiliano Busti che per introdurci in “Innerlands” dei Trapcoustic (la band italiana con le due copertine più brutte della storia) fa sfoggio di non so bene che cosa:
Nenie da neuropsichiatria infantile, tastiera fuori pitch, ballate barrettiane dal tono catatonico, registrazioni da sgabuzzino delle scarpe” insomma: una merda. Citando Sun City Girls, i Pooh e Moondog per spiegarci questo strano o quanto meno schizofrenico album si merita il titolo di Umbertoeco© del mese.

Preciso e obiettivo, fosse stato anche leggermente più sintetico sarebbe perfetto, anche perché non ci sono tante parole da spendere per “What The…” dei Black Flag, ma Federico Guglielmi conferma la sua passione (altalenante) per una musica quantomeno autentica.

Sintetico, comprensibile, decisamente autore delle migliori recensioni di Dicembre perché unisce il lato romantico a quello tecnico senza mai strafare il buon Fabio Polvani, il quale ci consiglia particolarmente il blues-rock ispiratissimo di “Devil Man” dei Blues Pills. Praticamente l’ho già ordinato.

Breve ma inteso delirio di Girolamo Dal Maso che tenta di spiegarci “Vertebra” degli Australasia: “Rock vitaminico e onirico, suonato con gusto.” STOP “Post-rock chitarristico e sintetizzatori vintage.” STOP. Un bell’inizio a telegramma ci sta sempre bene. Ma ecco qui un chiaro esempio di bipolarismo: “Bello l’artbook, decisamente vintage pure lui, potrebbe essere un Neil Young d’annata o qualche misconosciuto gruppo gotico post-wave” uguale, sembrano facili da scambiare.

Anche Stefano Isidoro Bianchi è affetto da uno spiccato bipolarismo, criticando le parti strumentali di “Metafather” dei Imbogodom dicendo che “non hanno senso”, un bell’affare penserete voi, ma il voto oscilla tra 6 e 7. Qualcuno potrebbe criticarmi facendomi notare come poche righe prima parlasse di “belle e solenni ballad di folk apocalittico per nastri” (affermazione interessante, non trovate?) ma dato che sempre come ci dice Bianchi questo album fa parte di una trilogia, il fatto che qui i strumentali siano addirittura SENZA SENSO mi fa pensare che non sia esattamente il più riuscito dei tre. Ma se questo viaggia tra il 6 e il 7 ed ha intere parti musicali buttate lì a casaccio, allora i due precedenti devono essere dei capolavori inestimabili. Oppure no?

C’è anche il momento “oddio, ma a te ti pagano per scrivere SOLO QUESTO?” con una intensa recensione di Antonio Ciarletta sui Le Single Blanc e il loro “Aoûtat”:
“Ancora math-noise da Musica Per Organi Caldi con i francesi Le Single Blanc. Rispetto a Tougsbozuka qui il suono è leggermente più articolato, anche se meno incisivo. Comunque promossi.” con un bel 7. Bello incisivo, non c’è che dire.

Ovviamente c’è tanto altro di buono e molto di più di cattivo, ma io sono pigro e non mi metterò qui a scrivervi il resto.

Alla prossima rassegna stampa ragazzi, se volete segnalare qualcosa o insultarmi pesantemente la mamma potete tranquillamente farlo nei commenti.

RASSEGNA STAMPA #0 Critica alla critica rock italiana

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La critica rock in Italia non esiste.
Esiste semmai una critica musicale, la quale però ha un difettuccio alla base: voler essere Totale.

Il critico musicale medio italiano recensisce avant-jazz, avant-rock, avant-dubstep, avant-polka e così via, senza problemi, e lo fa da quando aveva diciannove anni appena compiuti.
Qualcosa non mi torna. Ma mica perché a diciannove anni io recensivo l’Uomo Ragno e i peggiori locali dove bere la peggior birra (cioè, anche per quello, ma vabbè) e non Moondog.

Bisogna intanto fare una premessa necessaria: almeno il 50% dei critici ha dalla sua un’ottima conoscenza musicologica, spesso sono anche musicisti di buon livello e sopratutto sono davvero appassionati della musica Tutta. Però non sanno esprimere un cazzo di concetto.

Lo stile del critico musicale italiano (perché, ricordiamocelo, la critica rock in Italia non esiste, ma ci torneremo magari in un altro post) si divide in due macro-categorie:

  • l’elegiaco citazionista (detto anche lUmbertoeco©)
  • il Lester Bangs de’ noantri©

L’Umbertoeco© è quel critico etnomusicologo che in 10 righe ti cita Flaubert, Heidegger, Evola, Papa Francesco e qualcosa di Alberto Basso (su Bach) mentre sta recensendo l’ultimo di Madonna. L’inutile prosa satura di citazioni enciclopediche che oltre alla mera masturbazione non solo non ti aiutano alla comprensione del dannato album, ma spesso lo trascendono andando verso la dimensione metafisica dell’Iperuranio lasciandoti estasiato e rincretinito allo stesso tempo.

Peccato che, con quei 20 o 30 € al mese che mi ritrovo per comprarmi qualche disco (saltando qualche pranzo) mi piacerebbe sapere cosa cazzo c’è dentro, non cosa frulla nella testa psicotica dell’Umbertoeco©.

Il Lester Bangs de’ noantri© è quel critico che molti credono rock. Ah! Il pavido discepolo di Bangs non capisce che non basta scrivere cazzate per trasformarsi nel suo mito di infanzia, perché Leslie era un poeta della critica, mentre lui è più vicino al pollo di bensoniana memoria. Per spiegarti l’ultimo degli Arcade Fire tira fuori una parabola sulla buona cottura del cotechino, per una review storica di un album degli Agent Orange parla dei suoi problemi con la ragazza, per esprimere quello che prova nei confronti di “Metal Machine Music” riempie la pagina di scarabocchi mettendo in crisi la redazione (ma come lo pubblichiamo???) ma lui è Il Poeta, Voi non lo potete capire. Ma manco io.

Tutta ‘sta menata per dire che?
Per dire che semplicemente quando compro una rivista di critica musicale mi sta bene trovare un bell’articolone di diciotto pagine sugli album fondamentali del rap thailandese, magari in stile Umbertoeco©, però le cazzo di recensioni da dodici righe che siano comprensibili!

Sintesi, prima di tutto, perché chiaramente c’è poco spazio, quindi evitare di parlare della nonna o scansare l’idea di utilizzare passaggi da Chiffren der Transzendez di Jaspers.
Si deve sapere il genere (senza per forza andare nel particolare, se si posso evitare i vari avant-indierockpsichedelicofolkmetal sarebbe gradito), si devono sapere le influenze (va bene quando sono mirate, ma non tirate fuori band conosciute solo da amici e parenti, perché se no siamo punto a capo) e infine un bel giudizio personale.

Il giudizio personale è la cifra, Pirsig direbbe il valore statico, che vi definisce e che permette al lettore di capire per cosa protende un critico. Se so che Tizio ama il punk e abbiamo gusti simili quando leggo una sua recensione di un disco punk mi oriento bene per l’acquisto, quando invece lo stesso tizio ne scrive una di un gruppo free jazz metto le mani avanti e aspetto il parere di qualcun altro prima di lanciarmi in negozio.

Qui scatta un altro problema, ovvero che il 90% dei critici italiani non ha gusti.

Sono arrivato a questa conclusione dopo anni di letture e ho notato che molte delle mitiche penne anni ’70 e ’80 si sono ammorbidite in modo indecoroso. E quelle che non si sono ammorbidite o sono quei giovani che dovrebbero dare fuoco a tutto, non hanno gusti, per cui gli piace tutto e recensiscono qualsiasi cosa con un entusiasmo trascinante. Però io non posso comprare tutto e sopratutto non avendo Te critico un metro di giudizio (ami qualsiasi cosa produca dei suoni/rumori) né dei fottuti gusti, dato che dici di amare gli MC5 ma adori anche gli Arcade Fire, sbavi per i Sonics ma anche per i Radiohead, ti fotteresti Arthur Brown ma anche King Krule, allora sei inutile.

Compro le riviste perché con due lire da spendere le voglio spendere bene. Nella mia finora breve vita ne ho prese di inculate micidiali grazie ai vari talentuosi critici di Buscadero, Mucchio, Rumore, Blow Up (e altre riviste metal e pop che compravo all’epoca del liceo ma che non vedono più la luce da anni). Probabilmente avessi usato i soldi degli abbonamenti comprando dischi a casaccio sarebbe andata meglio.

Gary Glitter, Utopia, Arctic Monkeys, il peggior album di Paul Weller, ma sopratutto i vari ultimi “capolavori” dei mostri considerati sacri (e che ho dovuto rivalutare profondamente) come Eric Burdon, David Bowie, Eric Clapton, Deep Purple e via dicendo, che impestano il mercato con la loro roba riciclata senza un minimo di creatività e con tanto marketing.

Per me se un critico scrive che l’ultimo dei Deep Purple (“Now What?!”, 2013) è un bel disco non capisce un cazzo di musica e di rock in particolare. Mi dispiace. Uno che considera “AM” (2013) degli Arctic Monkeys un potente e innovativo disco rock (e sottolineo: ROCK) ha un’idea di rock che non solo non combacia con la mia, ma che è chiaramente confusa e corrotta, o quantomeno soffre di disturbi bipolari.

Bene.

Questo post è una presentazione di una mia nuova e sempre simpatica rubrica dove andrò a elogiare o sputtanare senza rimorsi, con pochissima modestia (lo so che sono la feccia delle società, non ci sono problemi, mi sta bene così) e con tutta la rabbia di chi ha speso più di venti merdosi euro per “Glitter” di Gary Glitter, tutti gli articoli che troverò meritevoli della mia funesta ira.

Comincerò presto perché nei numeri di dicembre di Rumore e Blow Up ci sono delle chicche gustosissime.

Alla prossima.