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Kim Fowley – The Day the Earth Stood Still

Kim

Etichetta: MNW
Paese: Svezia
Pubblicazione: 1970

All kinds of stones
And all kinds of rocks
Gonna burn down the bridge
Gonna burn down the block
Set fire to this whole damn nation
Gonna create all kinds of sensation

Nel 1970 Kim Fowley si trovava nella fredda Svezia munito delle sue pellicce appariscenti e di un significativo carico di droga. Tra le tante certezze che la sua vita gli aveva donato c’era fulgida nella sua mente d’aver già sperimentato tutto quello che il rock poteva dargli. La cosa non dovrebbe poi stupirci così tanto, a soli 18 anni Fowley aveva messo sù la sua prima rock band assoldando un certo Phil Spector e mostrando subito affascinanti doti premonitrici. Appena compiuti 20, nel 1959, eccolo con i The Renegades di Nick Venet mentre spolpa il rock anni ’50 portandolo a conseguenze che anticipavano le prime derive britanniche su suolo americano. Fowley ha sempre avuto questa fissazione di riportare il rock ai suoi gloriosi fasti, eppure al tempo stesso lo smuoveva una voglia incontrollabile di guardare al di là, di scorgere prima degli altri cosa sarebbe successo, e sarà questo suo fiuto per il puzzolente rock ’n’ roll del futuro a farne un produttore con i contro-così-detti. Non è un caso se in una vecchia intervista di Federico Guglielmi, in uno dei suoi naturali slanci di umiltà, si fosse autoproclamato «Il Nostradamus del rock.»

La lista dei progetti di Fowley negli anni ’60 non trova paragoni con il carnet  nessun musicista rock di qualsiasi epoca. La sua biografia è un turbinio di band, happening, singoli e dischi in cui è impossibile orientarsi, solo in quei frenetici anni giovanili ha prodotto gente come Jim Capaldi e i Soft Machine, ha scritto e provocato canzoni per The Skippers, Wolf Pack, Navarros, Uptones, Rogues, Fallen Angels, E. Zane Wood & The Dominion, Grains Of Sand, Bruce and Jerry, Knights of the Round Table, e tantissimi altri, riuscendo a spaziare tra ballad soul strappalacrime (Big Tears) a demenziali rivisitazioni strumentali anni ’50 (The Baddest Wolf), procedendo col garage rock più scalmanato (Goin’ Away Baby) e passando per una imprevedibile deriva psichedelia proto-barrettiana (Golden Apples of the Sun). Il suo singolo a 45 giri più famoso, The Trip, ispirò Soul Kitchen dei Doors e fu lui sempre in quegli anni a far incontrare John Lennon e Frank Zappa, suonando con quest’ultimo sia nelle sessioni che delle prime live di “Freak Out!” E questa non è che una mi-cro-sco-pi-ca porzione dell’influenza culturale che ebbe questo fricchettone sulla storia del rock.

Sotto molti punti di vista il ruolo di Kim Fowley è stato quello di Brian Jones nei Rolling Stones, solo che Fowley voleva esserlo per tutte le band del mondo.
Il Capolavoro discografico arriverà nel 1968 con quel gran tocco di hard rock che fu “Outrageous”, un album di cui dovremo parlare e di cui ho scritto almeno sette recensioni, e tutte e sette mi hanno convinto ogni volta di più che dovevo studiare, scoprire e interrogarmi ulteriormente. Per questo ho scelto un altro album: codardia, il gusto della vita vissuta a metà.

Durante un lungo soggiorno nella bella e brulla Svezia, condito con droghe e sesso occasionale (che ci volete vare, è il duro lavoro della rockstar), Fowley sta producendo alcune band locali quando decide che vuole registrare un album dal contenuto bello scoppiettante, un campionario di rock ante-litteram e di rock contemporaneo che spiegasse con la sua arguta ironia quanto fosse necessario imparare a memoria la cinica lezione di Dennis Hopper. Il 1970 è l’anno in cui il musicista di Hollywood tira i remi in barca per quanto riguarda la sperimentazione di nuovi linguaggi elettrici, che d’ora in poi delegherà ai suoi figliocci (roba di prima scelta come Modern Lovers e Runaways, mica pigne come Billy Squier) ma a modestissimo avviso di questo blogger che non sa distinguere una cena da una colazione, ciò non toglie un filo di grandiosità a “The Day the Earth Stood Still”, un colpo di coda che lascia esterrefatti per lucidità e coesione artistica.

Fowley come al solito se la gioca passando attraverso influenze e contaminazioni a dir poco eclettiche, dal chitarrismo di Dave Edmunds (quello di “Rockpile”, non il baccello alieno che lo sostituirà nel “periodo new wave”, ugh!) a Vince Taylor, a cui ruba la sua celebre Brand New Cadillac lanciandola nell’olimpo del minimalismo rock ante-White Stripes (cover fra l’altro ben più radicale di quella stranota dei Clash). Fowley lascia sapientemente solo Cadillac del titolo originale, anche perché di Brand New non c’ha proprio un cazzo l’approccio del nostro, asciutto come un rocker degli anni ’50 cresciuto nei garage degli anni ’60.

Lanciato così l’album, con miraggi di automobili sfreccianti verso il progresso industriale, si apre ben presto verso le immense strade americane, dopo pochi chilometri ci ritroviamo alla ricerca di ragazze con cui condividere i nostri dolori esistenziali, mentre gli occhi si perdono nell’aridità morale che ci circonda (Pray for Rain), inseguiamo motociclisti che fuggono dalle proprie radici (Visions of Motorcycles), ascoltiamo il suono della libertà che piange e ammiriamo l’avvento di una Nazione (Birth of a Nation), il tutto col solito istrionismo hollywoodiano che Fowley secerne da ogni poco e buco del suo corpo. Le note politiche seminate nel disco ci vengono lasciate raccogliere da soli, ed sono molto chiare e amare, le masse di giovani che riempiono le strade contro la guerra non sono quei lunatici sottomessi alla propaganda marxista di cui parlano TV e radio, ma la volontà di un popolo di riscoprire la propria libertà guardando a nuove sfide, perlopiù ecologiste, spirituali, autarchiche. Per descrivere questo scontro generazionale senza copiare il pastiche zappiano, Fowley condensa nelle sue canzoni le principali influenze americane senza abusare di arrangiamenti o di complesse soluzioni in studio, dal country alle nuove leve del rock (Steppenwolf su tutti) tenta di rappresentare le molteplici declinazioni dello spirito americano attraverso la sua unica sensibilità. Eccolo quindi cantare anthem hippie dal tono hard rock come in The Man Without a Country per poi scadere coscientemente nella comicità demenziale southern di I Was a Communist for the FBI, in queste dicotomie senza soluzione di continuità la volontà non è tanto quella di impostare un concept quanto di collezionare canzoni di pura e assoluta “americanità”.

Tecnicamente questa impostazione può sembrare un limite, perché le immagini trasferimento (2)proposte sono molto diverse fra loro senza essere però abbastanza vicine da provocare l’effetto puzzle di opere sperimentali tipiche di quegli anni. Ma Fowley aveva già abbondantemente dimostrato di saper fare album così con “Outrageous”, per questo la sua attenzione stavolta è focalizzata sul comporre un canzoniere in cui le liriche svolgono un ruolo più importante del solito, proprio perché la musica è così facilmente riconoscibile all’orecchio trasporta più facilmente le sue parole così urgenti. “The Day the Earth Stood Still” non è un atto di accusa politico tramite la sperimentazione coincidendo necessariamente con una avanzata ricerca poetica (come stavano facendo Who, Zappa, Aphrodite’s Child), né il tentativo di universalizzare il proprio personale mal di vivere (Robert Wyatt, Tim Buckley, Nico), piuttosto l’idea è quella di dimostrare che l’America è stata costruita mattone su mattone col sudore di rocker come Buddy Holly e Little Richards, dai motociclisti in pelle che viaggiano come tribù nomadi, dalle ragazze che chiedono un passaggio sulla strada. Se in “Outrageous” le contaminazioni erano tutte mono-direzionate per parodiare un certo tipo di rock, in questo specifico caso la policromia di generi proposta serve sì a mostrare la complessità della società americana, ma da un solo, criticissimo, punto di vista.

Il finale dell’album è una deflagrazione rock declamata da un predicatore lascivo: «Baby, is America dead? Are we dying, or are you the one instead?» Dove sta finendo questa nazione, si chiede, dove le vecchie generazioni che dovrebbero guidarla hanno perso per strada i loro valori fondativi, mentre i giovani, che ne hanno scoperto una nuova declinazione nel fango di Woodstock, vengono ignorati o soppressi con la forza? In un fluire che disvela tutte le potenzialità dei musicisti a sua disposizione, Fowley predica il suo sermone perdendosi in litanie, borbottii, versi bambineschi, urla sguaiate alla Sam Kinison, la voce adesso ruvida adesso morbida, la satira così demenziale da essere una involontaria parodia del rocker “di strada” alla Mick Jagger. Le linguacce non cambieranno il mondo, ma sono il linguaggio universale di cui adesso disponiamo per superare la retorica politica e l’accademismo snobista di una generazione che vede con disgusto i nuovi modi della gioventù.

Con questo album Kim Fowley, per la prima volta nella sua sottovalutata carriera, non sposta di un millimetro i confini del rock, perché sa di aver raggiunto un equilibrio che non ha bisogno di  nessuna legittimazione, nemmeno la nostra.

kimmone

The Rolling Stones – Between The Buttons

The Rolling Stones
Etichetta: Decca 
Paese: Regno Unito
Pubblicazione: 1967

Everything is going in the wrong direction.
The doctor wants to give me more injections.
Giving me shots for a thousand rare infections
And I don’t know if he’ll let me go

Me ne accorsi un anno fa più o meno, che già faceva freddo. Subito dopo essermi sparato “Between The Buttons” metto sù “Sticky Fingers” e già dal riff di Brown Sugar mi rendo conto che manca qualcosa. Mi metto a giocare con l’equalizzatore per un po’, eppure già arrivato ai dolci solchi di Wild Horses quella strana sensazione continua. Manca qualcosa. Forse è il surround. Magari è la manopola che regola i toni alti che si è allentata di nuovo. Io non sono un tipo da ballad, e sebbene Wild Horses sia costruita a regola d’arte per farti venire il magone, come la sequenza del cappottino rosso in Schindler List, mi lascia comunque indifferente. Quella volta però c’era qualcosa di nuovo, quella fastidiosa sensazione di vuoto, come se il suono fosse troppo pulito, modellato su insensibile plastica. Così mi venne un’idea.

Metto sù “Beggar Banquet” da Stray Cats Blues. Ascolto attento. La prima cosa che penso, lo giuro su Frank Zappa, è: cazzo come ci stanno bene quel cazzo di mellotron e il piano. Ci sono più Velvet Underground qui che nell’ultimo dei Parquet Courts. Che poi si dice sempre Heroin, ma io ci sento I’m Waiting For The Man invece. Opinioni. Che arrangiamento, che densità sonora. Cambio, metto Bitch da Sticky. Bel riff eh, però basta insomma. Sì, c’è più tiro del solito ok, suona più “rock” in un certo senso, concluso lo storico e controverso contratto con Decca gli Stones suonano più cattivi, più tirati e ovviamente più volgari, però l’ambiente sonoro è piatto, tirato a lucido e con le cazzo di chitarre davanti a tutto il resto (inoltre Mick Jones è come il cheddar, mi risulta sempre più indigesto con l’avanzare dell’età).

Di nuovo cambio, stavolta tocca a Please Go Home da Between. Non mi era mai piaciuta tanto. Non mi basta più tenere il tempo con il piede. La chitarra a destra stile Bo Diddley vibra finché non diventa un miraggio desertico alla Link Wray, la batteria a sinistra martella ipnoticamente, persino la voce si perde a tratti, il contesto sonoro è impreziosito da Wyman e dall’oscillatore suonato da Brian Jones. Brian Jones. Che idiota. In “Sticky Fingers” non c’è Jones. Who’s Been Sleeping Here sta scorrendo sul piatto e io mi rendo conto di quanto Jones oltre ad aver chiaramente dato un importante contributo alla band come fine musicista, ne era invece il principale interprete dell’ambiente sonoro, un paziente costruttore di oscillazioni, temi impercettibili eppure fondamentali per il concetto, vibrazioni febbrili, rifiniture tutt’altro che masturbatorie. Brian Jones stava agli Stones come Blixa Bargeld a Nick Cave.

Dite quello che vi pare ma anche se Jones non appare, il suo spettro si aggira ancora in Gimme Shelter, nella cura maniacale di quella atmosfera vertiginosa che caratterizza l’apertura di “Let It Bleed”. Lo si sente ancor di più con l’ascolto in successione di “Sticky Fingers” e “Exile On Main Street”. Ho sempre considerato Exile come una sorta di compendio della grandezza degli Stones, eppure mentre All Down the Line scorre piacevolmente di sottofondo lo sento ancora, quel vuoto. 

“Between The Buttons” è decisamente il capolavoro dei Rolling Stones, ad oggi riesco a vederlo molto più chiaramente, e lo dico sebbene sia consapevole che sia stato in pratica il loro unico grande flop durante il periodo d’oro del rock inglese. Ovviamente continuo a considerare “Aftermath” uno degli album fondamentali per comprendere il rock, ma in Between esiste una coerenza di fondo inedita per la band, oltre che una cura al dettaglio che non svilisce la forza dei singoli pezzi.

Ora non voglio fare le distinzioni alla cazzo: arte o non-arte, perché il rock è sopratutto intrattenimento e non roba da sedie di velluto da ascoltare sorseggiando un cocktail (urgh!), poi è chiaro che chi scrive preferisca Klaus Schulz ai Chicago o “Metal Machine Music” a qualunque album dei Farfuglio (/Foo Fighters), ma nemmeno sono abituato a negare i fatti: quando leggo le righe di passione di Klosterman per i Mötley Crüe non posso non amarli un po’ anche io proprio perché quintessenza della cazzoneria e dello show a stelle e strisce.

Ora: non so che volessi dire con questa cosa dei Mötley Crüe, non ci capisco più niente fedeli seguaci, ma quello che so (oltre al fatto che come al solito non correggerò questo post, perché non ho il tempo nemmeno per guardarmi allo specchio da mesi) è che sì: “Aftermath” è imprescindibile, “Beggars Banquet” è molto più catchy (Dear Doctor mi esalta ogni volta che l’ascolto, come ha fatto un gruppo con questa sensibilità a scrivere cose come Too Tough resterà per sempre un mistero), ma il vero gioiello di questa leggendaria band resta quell’esperienza pop-rumoristica-lisergica di “Between The Buttons”.

Non diciamo psichedelia per favore, che col Texas e gli Acid Test i Rolling Stones c’entrano come i cavoli all’apericena (oppure si usa? che cazzo è un’apericena?), non diciamo progressive che facciamo ridere perfino quelli di Rockit. Between è il lavoro più inglese della band londinese per eccellenza, peculiare proprio per la sua forte connotazione nazionale, uno sguardo disincantato verso il passato che deflagra definitivamente tra She Smiled Sweetly e Cool, Calm & Collected. Jagger non fa più i versacci, Richards non è quasi mai in primo piano, stavolta protagonista impercettibile un cromatismo che a parer mio si magna tutto Sgt. Pepper, grazie allo sforzo profuso dalla mente perfezionista di Brian Jones.

Saturo come nessun altro album degli Stones, a parte forse “Their Satanic Majesties” che per me è quasi tutto pattume (ma che oggi vive una stagione di rivalutazione ingiustificata e francamente ridicola), composto nel momento più fertile della storia della musica rock, quel 1967 che vide al massimo splendore pesi massimi come Small Faces, Red Crayola, Lovin’ Spoonful, Kaleidoscope, Godz e Fugs, Electric Prunes, Doors, Deviants, Byrds, la blues band di Butterfield, Pink Floyd, Moby Grape, Love, Leonard Cohen, Velvet Underground, un 1967 che gli Stones riescono a segnare con un’opera molto più complessa di quanto possa sembrare dopo un paio di ascolti, o nel mio caso anni. Posso dire a mia parziale discolpa di non essere mai stato il primo della classe, se buttate un occhio alle vostre spalle io ero quello che all’ultimo banco disegnava le avventure di Conan il Barbaro con i pennarelli Carioca.

Ora non è che Sticky e Exile siano da buttare, proprio qualche giorno fa (settimane? mesi? anni?) elogiavo il dialogo omoerotico tra Richard e Mick Taylor in Can’t You Hear Me Knocking, ma alla luce della densità maniacale di Between, che badate bene non è il solito barocchismo dimostrativo delle avanguardistiche tecniche di produzione tipicamente inglese, ma bensì consapevole costruzione di strati sonori che veicolano un (TRIGGER WARNING) messaggio, non posso che lanciarli giù dal balcone, cercando di prendere in testa il condomino con la passione per i Nazareth. 

L’avessero scritta nel 1971 Who’s Been Sleeping Here assomiglierebbe probabilmente ad una ballad qualsiasi, senza quel meraviglioso ingolfarsi della batteria nel mezzo, e avrebbe un Richard in primo piano, magari acustico, a coprire qualsiasi mancanza compositiva. She Smiled Sweetly sembra uscita fuori da qualche musica per parata, Jagger accompagnato da un organo da chiesetta di periferia, col pianoforte che compare a destra per sottolineare la struggente melodia, senza eccessi di patetismi o dramma, dannatamente inglese. Il pop storto di Connection possiede uno spleen formidabile considerando che dura un minuto e mezzo senza grandi cambiamenti, e dove l’urgenza delle parole si sposa perfettamente col basso percussivo di Wyman. Yesterday’s Papers è forse l’unico pezzo che non mi ha mai convinto del tutto, con le solite infiltrazioni classiche che caratterizzano il pop inglese del Merseybeat, che disprezzo con tutto il cuore perché fini a se stesse, arzigogoli che impreziosiscono una scrittura che però esprime un sacco di banalità. Ma subito dopo il lavoro del solito Wyman al piano elettrico in My Obsession fa passare ogni paura. Senza Jones questi preziosi passaggi si perderanno per sempre dietro il primato del riffone spacca-caviglie. Miss Amanda Jones vede alla destra Wyman e Richards, alla sinistra Jones e Ian Stewart al piano, un rock n’ roll col piglio del miglior Jerry Lee Lewis ma arrangiato deliziosamente.

I più attenti di voi si saranno già accorti da un po’ che parlo della versione inglese dell’album e non di quella USA, sinceramente non me ne frega molto a quale versione siete più affezionati, sono entrambe il capolavoro degli Stones per me, sebbene qualche purista sicuramente rabbrividirà a cotanta affermazione.

Bruciate le vostre copie di “Some Girl” e “Undercover” eretici, Cristo di è fermato a “Between The Buttons”.