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Podcast – Quella cosa chiamata new garage

In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.

Cliccate su play, non ve ne pentirete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Fifty Foot Hose – Cauldron

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Siamo nei primi anni ’60 a Burlingame, California. In questa cittadina si sta vivendo un boom industriale senza precedenti, le famiglie bene di San Francisco si trasferiscono qui nella contea di San Mateo, certamente anche per via di quel verde sfavillante che incornicia tutte le strade, ma sopratutto per le montagne di dollari che si accumulano nelle industrie e nei loro dintorni.

Figlio di una immigrata italiana “Cork” Marcheschi è un giovane con la passione per la musica di Edgar Varèse, nel 1962 passa il tempo sperimentando suoni e stravaganze su sintetizzatori fatti in casa alla bell’e meglio, facendo inorridire i vicini con suoni gutturali, strani gorgoglii e voci siderali.

Deciso com’era di far provare l’ebbrezza di quei rumori a tutta la comunità di Burlingame, sempre nel ’62, assieme a dei suoi amici italo-americani, da alla luce gli Hide-away, una band dallo sgangherato R&B, modellato sull’influenza di “Poème électronique” di Varèse, del jazz di ‘Frisco e del blues che ascoltava saltuariamente per strada. Da questa formazione verrano fuori gli Ethix, ovvero la band in cui Marcheschi si impegnerà in una sperimentazione più consapevole, la band dalle cui ceneri nascerà uno dei complessi più importanti della storia del rock: i Fifty Foot Hose.

Come dite?
Che razza di storia è mai questa?
Chi cazzo sono i Fifty Foot Hose?
Non saranno mica la solita merda proto-punk, proto-kraut, proto-cazzi e proto-mazzi?
No amici miei, niente del genere.

Il loro esordio, “Cauldron” del 1967, è stato uno degli album del rock psichedelico più seminale della sua generazione. Throbbing Gristle, Pere Ubu, Bauhaus, Chrome, cristo, probabilmente in questa lista c’è pure tua nonna, si perde a vista d’occhio il numero delle band che hanno subito il fascino della follia controllata di questo album.

Considerando che la stessa introduzione che avete appena letto la troverete per almeno altri TRECENTO album su internet, ci tengo a precisare una cosa. Prima di tutto che mai come ora si stanno svelando le fragili basi della critica rock, piena zeppa di “capolavori seminali”, troppi, in particolare nella psichedelia, che poi ad ascoltarli sono spesso tutti uguali, e magari stampati per la prima volta nel 2002 (per cui hanno influenzato ‘sta gran ceppa).

Non so dove volessi andare a parare con questo discorso, probabilmente mi sto rimbambendo, ma volevo dire che ci sono album che possiamo DAVVERO definire imprescindibili per la comprensione storica della psichedelia, come “Psychedelic Lollipop” (1966) dei Blues Magoos, o Sgt. Pepper (1967) dei Beatles. Ma la questione cambia, e non poco, quando dobbiamo giudicare quegli album che hanno DEFINITO il genere non solo nella loro epoca, ma ben oltre. (però basta col Caps Lock, eh)

Come non citare i primi tre dei Silver Apples, attivi fin da inizio 1967, sperimentatori assoluti, ma anche l’esordio del ’68 degli United State Of America, Piper (1967) dei Pink Floyd, il secondo album dei leggendari Kaleidoscope (“A Beacon from Mars”, 1968) e “Parable of Arable Land” (1967) dei Red Crayola, questi sono tutti album che non hanno semplicemente definito il genere, ma ne hanno esteso l’influenza fino ad oggi. Questi sono quelli che vanno ascoltati a manetta, ma non perché ce lo dice il Julian Cope o il Simon Reynolds di turno, ma perché sono una figata!

In questo calderone di genialità allucinogena non abbiate remore alcun di inserire i Fifty Foot Hose tra i protagonisti assoluti.

Ah, già, stavamo parlando di loro. Eravamo rimasti agli Ethix, giusto?

Nel 1966 esce il loro primo singolo, un vero e proprio schiaffo in faccia al buon gusto: “Skins/Bad Trip”. Skins è una specie di garage rock tutto storto e stonato, ma il piatto forte è senza dubbio Bad Trip. Degno di un titolo così diretto, Bad Trip è una cacofonia malata, urla e rigurgiti acidi si susseguono su una base musicale indefinita, uno degli esperimenti più deprecabili e meravigliosi mai sentiti nel rock di ogni tempo e declinazione, puro dadaismo infantile.

Inutile dirvi il successo planetario che ne seguì.

Fu David Blossom, il chitarrista degli Ethix di Marcheschi, che decise di fare un passo avanti nella sperimentazione, così sempre nel ’66 formano una nuova band con Larry Evans, anche lui chitarrista, Kim Kimsey alle pelli, Terry Hansley al basso e sopratutto Nancy Blossom alla voce (all’epoca moglie di David ma futura sposa di Cork!).

Chiusi in una camera con un Theremin, dei Fuzz-Tone e uno speaker in plastica, appartenente ad una nave della marina americana della Seconda Guerra Mondiale, cominciarono un po’ per gioco un po’ per reale necessità artistica a formare quell’arabesco psichedelico che sarà “Cauldron”.

Ad inizio 1967 gli ormai Fifty Foot Hose finiscono alla Mercury Records, al cospetto di band già affermate come i Blue Cheer. Dopo qualche sessione di prova, con l’aiuto di Dan Healy (Grateful Dead) dettero alla luce per la Limelight Records “Cauldron”. Ne furono stampate 5000 copie.

Se per molti complessi dell’epoca l’ispirazione arrivava dall’esperienza diretta di droghe più o meno pesanti, per i Fifty Foot Hose la cosa era un po’ diversa. A parte Larry Evans, che era il più canonico del gruppo, gli altri si sparavano in vena Morton Subotnick, John Cage, Terry Riley, Steven Reich, Luigi Russolo, il musicista più commerciale che conoscevano era Archie Shepp. Tutto poteva venirne fuori, ma di certo non un qualcosa di consueto.

Allora, si parla dell’album? Ma non lo sapete che Bertoncelli disapprova quelli che si mettono lì a scrivere di ogni traccia del disco, come una specie di elenco asettico? E ci frega qualcosa?

Si comincia con And After, e già Marcheschi mette le mani avanti. Rumore. E la melodia? E la tonalità? E il ritmo? Roba per vecchi rincoglioniti. Un terremoto sottomarino apre le danze, un suono che Chrome e Pere Ubu conoscono molto bene.

Segue la dodecafonia psichedelica di If Not This Time, con la voce di Nancy adesso in primo piano, qualcuno ci ha sentito qualcosa dei Jefferson Airplane, scazzando ovviamente. If Not This Time è un pezzo inconcepibile per i Jefferson come per buona parte della scena psichedelica, troppo colto, troppo intricato, dannatamente estraniante e comunque fruibile.

Opus 777 con i suoi 22 secondi anticipa di quattro anni “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream.

Primo ed ultimo calo di stile dell’album la canticchiabile The Things That Concern You di Evans, giuro che sembra uscita fuori da “In the land of Grey and Pink” dei Caravan, piuttosto fuori posto insomma.

Dopo l’intermezzo elettronico di Opus 11 scoppia la furia psichedelica di Red The Sign Post, una meraviglia stereofonica che mostra i muscoli della band, brevissimi assoli, virtuosismi elettronici, rumori assordanti e un finale deflagrante.

Ultimo intermezzo elettronico, For Paula, e poi un’altra esplosione di colori, suoni, odori, visioni con Rose. Il dialogo tra la voce di Nancy e la chitarra di Blossom è puramente sessuale, senza alcun dubbio, un continuo stuzzicarsi senza vergogna, fino ad un’orgia con tutta la band che culmina a 3/4 del pezzo.

Si arriva senza protezioni al volo vertiginoso di Fantasy, 10 minuti senza riferimenti, un capolavoro questo davvero senza tempo, degno della potenza evocativa di War Sucks dei Red Crayola. Blossom con la chitarra fa quello che cazzo gli pare, Terry Hansley praticamente dà fuoco al basso mentre Kim Kimsey, che in un primo momento tiene stabile la jam infernale, perde i freni inibitori, fino al culmine che viene spezzato dalle note di una chitarra acustica, per poi risalire verso il caos. Montagne russe psichedeliche, un continuo sù e giù che non dà mai un attimo di respiro, melodie psych che si mescolano a dadaismo e cacofonia. Quasi meglio di una birra fredda d’estate.

E dopo una tale follia controllata la mente viene nuovamente sconvolta… da una improbabile cover di Billie Holiday. Amatissima da Nancy, God Bless the Child viene infarcita di interventi elettronici del tutto arbitrari, rendendola quantomeno particolare. Personalmente non ho mai ben capito il perché di questo pezzo, però suona da Dio, per cui gliela abboniamo.

E quando pensi di averle sentite tutte, ma proprio tutte, ecco Cauldron, un finale criptico, un collage dadaista di voci, alcune deturpate orribilmente, un’esperienza angosciante e incomprensibile, degna della new wave più spinta e concettuale.

Quello che discosta questo album dalla produzione a lui contemporanea è l’incredibile quantità di riferimenti culturali più o meno immediati, e la perfetta armonia tra sperimentazione spinta e fruibilità.

Trascendendo generi, influenze e se vogliamo anche ogni norma del buon senso, i Fifty Foot Hose non fecero in tempo a fare il secondo album (doveva chiamarsi secondo le leggende “I’ve Paid My Dues”) che si sciolsero, lasciando comunque ai posteri un album tra i più seminali e belli della storia del rock.

TAO Love Bus Experience, la ridicola moderazione ne Il Fatto Quotidiano e lo “spirito del rock”

Ho sempre desiderato aprire un post con quelle immagini del cazzo su cibo e bevande che impazzano su Instagram. BANG!
Ho sempre desiderato aprire un post con quelle immagini del cazzo su cibo e bevande che impazzano su Instagram. BANG!

Con un titolo del genere vi starete chiedendo quali sostante psicotrope io assuma abitualmente. Perlopiù il tè. Deteinato.

Qualche giorno fa ho avuto una illuminate diatriba con cantautore rock italiano nella sezione commenti del Fatto Quotidiano. Come saprete la versione online del FQ è una sorta di Novella 2000 dove ci schiantano blogger più o meno imbarazzanti (si va dagli ufologi fino a Andrea “Ciao Sic” Scanzi), ma se non siete nati ieri su internet questo lo sapete già, però è possibile che non conosciate TAO, né il suo Love Bus Experience.

TAO è un cantautore milanese che un giorno lesse “Peace & Love” di Guaitamacchi e decise (intorno ai primi del 2000) di portare il verbo del rock in tutta Italia. Un po’ in ritardo forse, ma non per questo il suo non è un percorso onorevole.

Quello che degli anni ’60 TAO decide di riportare alla luce è la musica più conosciuta e abusata in tutti gli anni ’90 e i primi del 2000, ovvero il beat. Non proprio una scelta controcorrente in un mondo che ha dovuto subire la seconda ondata britannica proprio in quegli anni (il dannato brit-pop di MTV), ma lo diventa in questi tempi, in cui sia in California che in Europa si stanno riscoprendo gli anni ’60 meno alla mano (il garage rock, Syd Barrett solista, la prima psichedelia e le solite cose di cui parliamo in questo blog).

Il suo esordio discografico è “Folìverpool” nel 2005, un album di imbarazzante fattura, pop rock melodico anni ’90 con ritornelli sdolcinati e citazioni beat (Solo Lei) che trova il suo manifesto compositivo e concettuale in La Musica Ed Io, una reminiscenza del “potente rock” delle Vibrazioni o dei catanesi Sugarfree. Un ritorno agli anni del Piero Pelù di “Soggetti Smarriti” di cui sentivamo proprio il bisogno. Da quel genere non si evolverà mai il buon TAO, anche le liriche sono perfettamente coerenti con la musica e con la scena rock pop italiana, un misto di Afterhours e Negramaro, provate se avete coraggio ad ascoltarvi L’Ultimo James Dean se desiderate una agghiacciante conferma (sono l’ultimo bohémien/ sono solo l’altro eroe della solitudine/ sono l’ultimo James Dean/ uno che si schianterà/ percorrendo la corsia/ fra l’amore e l’anarchia).

Un suo grande merito però va per il modo con cui ha deciso nel solito 2005 di portare la sua musica in giro (e no, non sto parlando della sua comparsa in metà delle reti televisive italiane o su X-Factor), ovvero in un pulmino Volkswagen (il leggendario Kombinazionenwagen) la versione anni ’70 di quello che negli anni ’50 scarrozzava le band di surf rock strumentale per le coste californiane, diventato un mito generazionale negli anni ’60. Se siete miei lettori da un po’ certamente vi pruderanno le orecchie sentendo una storiella del genere, ma andiamo con ordine.

Il 7 Novembre sul blog di Pasquale Rinaldis nel FQ esce questo articolo “‘Spirit of rock’: il primo ‘rockumentario’ è firmato Tao” preceduto l’anno prima da una intervista al cantautore sempre dello stesso Rinaldis. Io conoscevo già TAO perché l’avevo visto esibirsi nel suo bus qualche tempo fa, ma non sapevo che con lo stesso ci andasse in giro per l’Italia. Di solito non commento mai sul Fatto, eppure stavolta mi è scivolato il dito sulla tastiera: 

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano

Se seguite il mio blog sapete cos’è Jam In The Van, un progetto di crowdfunding nato intorno al 2010 che riprende la tradizione californiana (nata nei lontani anni ’50) di suonare rock in un pulmino. Mi dispiaccio però che sia proprio TAO a portare questa antica e gloriosa tradizione in terra italica, anche perché come vi ho detto il suo rock non è di certo una reminiscenza di Dick Dale o del garage californiano, ma piuttosto un cugino dei milanesi Vibrazioni.

Ma ecco che, dopo poco, arriva una risposta:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (1)

E qui Valerio “TAO” Ziglioli ci dimostra, nel caso ancora non l’avessimo capito, a che livello infimo è la musica italiana. Analizziamo insieme il commento.

TAO esordisce dicendo che non sa proprio cosa sia Jam In The Van, e con questa certezza deduce che io non sappia cosa sia il TAO Love Bus Experience. Qualcuno mi spiega dove sta il sillogismo? Come fai sapere che le due cose non c’entrano un benamato cazzo se non conosci una delle due? Telepatia? Onniscienza? Sostanze psicotrope? Al limone o alla pesca?

Accortosi in corsa che forse si stava contraddicendo mi chiede un link di conferma. Scusa TAO, ma a te il bambin Gesù non ti ha donato delle mani? Larry Page e Sergey Brin non ti hanno fatto dono di Google? Blocchiamo la nostra disamina solo per un secondo e proponiamo al caro TAO, che essendo un nostalgico ha poca confidenza col web (sebbene il suo canale YouTube carichi video dal lontano 2006), un breve tutorial su come cercare le cose su Google:

1) Vai sul tuo browser di fiducia e digita sulla barra di ricerca “google”, clicca sul primo link indicato e dovresti trovarti di fronte questo:

Google

2) Ora digita sulla barra sotto la scritta colorata l’oggetto della tua ricerca:

Google (2)

3) Clicca su “Cerca con Google” e ti troverai di fronte a questo bel panorama:

jam in the van - Cerca con Google

4) Clicca sul primo link e scoprirai nell’arco di trenta secondi tutto quello che ti serve sapere per dare un giudizio sul mio commento. Ma immagino che il tuo tempo sia troppo prezioso per fare una lunga ed estenuante ricerca nel meandri del deep web.

Detto ciò, caro TAO, ma dove l’hai letto il “commento poco carino” sulla tua persona? Ti è mai sortita in mente la possibilità che dato che stavo parlando di musica io mi riferissi alla tua musica? Oppure ogniqualvolta qualcuno commenta qualcosa su un gruppo o un musicista si riferisce a lui personalmente?

“Suggerisco, prima di spararle grosse di informarti” e che purtroppo TAO non possedendo i tuoi poteri extra-sensoriali sono costretto a seguire il tutorial qui sopra! Me tapino…

Ovviamente gli rispondo:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (2)

Come vedete nessun insulto, solo un giudizio, forse troppo laconico, sulla musica. Gli dò pure un cristo di link (questo). Credo che, nel 2014, mi sia permesso dire che la tua musica è divertente e smuove i fianchi ma non va oltre una ballad dei Bisonti.

Ecco, se avesse voluto incularmi gli sarebbe bastato un bel «Il rock parla delle cose banali, la vita è banale, quindi se mi dici che la mia musica è banale è solo un complimento.» Chapeau, cazzo, m’hai proprio colpito! Sarebbe stata una risposta non solo intelligente, ma anche convincente, che mi avrebbe fatto rivalutare anche quel doppio mattone di “Love Bus/Love Burns”, ed invece:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (3)

[Prima di tutto un appunto ai giovani lettori: il “né” è una congiunzione negativa che si scrive con l’accento acuto. Delle volte queste cose possono scappare, lo so bene anche io che scrivo recensioni senza nessuno le corregga, ma in un commento di 9 righe su disqus cercate di evitare queste… chiamiamole pure “sviste”.]

Come sapete Jam In The Van è un gruppo di ragazzi che vanno in giro in pulmino e filmano le esibizioni delle band al suo interno. Ovviamente non è esattamente come il bus di TAO, trasformatosi in palco ambulante, eppure si rifanno entrambi ad una tradizione californiana degli anni ’50 (che TAO ignora bellamente), non solo, avevo specificato che il progetto di Jam In The Van nasce intorno al 2010, mentre il suo è del 2005. Perché incazzarsi? Non si sa.

Ma poi arriva una delle frasi più assurde cha abbia mai letto: “Sinceramente della attuale scena italiana non me ne frega assolutamente niente, anche perché non esiste una scena italiana e se esiste non mi ha minimamente colpito.” mi ricorda il Gorgia di Platone, solo molto più imbranato. È come se non conoscesse l’esistenza del tasto backspace della tastiera, per cui è costretto a rincorrere quello che lui stesso scrive. Dì che della scena italiana non te ne può fregare di meno e finiscila lì! È già sufficiente per giudicarti come musicista, non abbiamo bisogno d’altro! Prima di tutto esistono parecchie scene in Italia, una poi degna di attenzione internazionale (la Psichedelia Occulta), se non ti ha minimamente colpito ci fa altrettanto piacere, ma ti prego, non dire che “non esiste”, che cazzo di figura ci fai?

Riguardo a come definisco la tua musica (che di rock ha solo la strumentazione) non sono “punti di vista” perché come il punk è diverso dall’hard rock anche il tuo cantautorato anni ’90 è diverso dal beat o dalla figura “rockettara” che vuoi dipingerti addosso, con tanto di furgoncino da figlio dei fiori e il capello alla Bill Haley. Se quello che suoni è tutt’altro che banale allora Tiziano Ferro è sperimentale.

Ma ecco che colpisce con la supercazzola definitiva: “lo Spirito del Rock”! E che è, il nuovo superalcolico di Marilyn Manson? Dai amico, sul serio? Mi ricorda una tizia ad un convegno che se ne uscì con «L’arte di Leonardo Da Vinci non va studiata accademicamente, perché è energia» e quando la interruppi per chiederle secondo lei quanti joule aveva L’Ultima Cena non mi volle rispondere. Questa idea di rock mi ricorda tanto «La mia “arte” fotografa la realtà, non la inventa. Questo è il linguaggio del rock. Chi vuol capire veramente ascolti. E se a qualcuno dà fastidio, tanto meglio. È ora che si svegli» di Vasco Rossi, giustificare la propria libertà di fare musica dietro parole a caso come “arte”, “anima”, “spirito”. Però in effetti con “arte” si rientrerebbe nel contesto “snob” che il buon TAO snobba, per cui forse il suo mentore è lui:

billy idol 2

Ma poi mi sovvengono anche dei dubbi sulla sua conoscenza della materia. Da quando l’indie rock è snob? Volete dirmi che gli Arctic Monkeys ora sono un gruppo di nicchia solo per intellettuali? E quelli che ascoltano John Zorn che sono, eremiti?

Ho provato a rispondere anche a questa sequenza di deliri rimanendo sempre educato, cercando di criticare la musica, non la persona (di cui, dopo questo battibecco, forse ho meno stima di prima) ma il moderatore mi ha rispedito al mittente il commento. Come mai? Valutiamo i termini della moderazione nel FQ:

'Spirit of rock'  il primo 'rockumentario' è firmato Tao - Il Fatto Quotidiano (4)

Ok, niente insulti, niente off topic, niente accuse di alcun genere, ma allora perché non mi avete accettato questo (lo screenshot è dalla mia home di disqus):

Disqus Profile - Callimaco

Volete dirmi che perché ho scritto “banale” l’ho insultato? Una risposta al musicista di cui parla l’articolo è off topic? L’ho accusato di seviziare bambini? Ho persino detto che quella ciofeca immensa di “Love Bus/Love Burns” era un pop-rock accettabile, proprio per stemperare lo spirito rock di TAO (che gli annebbiava la vista mentre leggeva i miei commenti), per quale motivo non far passare il commento?

Gentile Pasquale Rinaldis, non so se è lei stesso o altri a moderare il suo blog, però chiunque sia ha dei seri problemi di comprensione del testo.

Detto questo a me dispiace parlare in toni così acidi di un musicista italiano, però TAO oltre a dimostrarsi poco incline alla lettura dei miei commenti si è pure prodigato a sparare una serie di frasi fatte sul rock che uccidono la bellezza del rock stesso, denigrandolo come vorrebbe Billy Idol ad un semplice linguaggio tra camionisti per scaricare la stanchezza della giornata.

Beh, non è così. Il rock nasce per provocare, lo si può fare in maniera becera eppure poetica come i Ramones o cercare un linguaggio più complesso come nei Pere Ubu, ma lo sostanza non cambia, che sia il primo album dei Velvet Underground o uno dei Thee Oh Sees non cambia, il rock si riconosce sempre perché ti infastidisce, di fa ridere, ti fa pensare, mentre il beat in chiave anni novanta e la poesia spicciola di TAO non è rock, è mediocrità.

TAO fa bene quello che fa, e non lasciatevi ingannare dai miei giudizi sulla musica perché io sostengo questo Love Bus Experience. Ognuno può imbracciare una chitarra e cantare, lo diceva anche Lester Bangs che il rock non è una cosa seria, e lo credo fortemente anche io, ma non per questo la tua musica diventa intoccabile. Non è che se ti senti un rocker lo sei. E non è che se il tuo rock suona come un pezzo dei Corvi riadattato dagli Sugarfree o da Daniele Silvestri allora non sei banale.

Se volete fare un po’ di casino con un chitarra, vi prego, non dite mai che lo fate per lo spirito nobile del rock, così sembrate usciti da un film con Meat Loaf, dite la verità: dite che lo fate per divertirvi e perché credete sia la cosa più bella del mondo. Niente stronzate auliche o pseudo-hippie. E se qualcuno vi dice che fate cagare vi consiglio vivamente di rideteci sù, perché il rock non è un cosa seria.

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E dopo tutta ‘sta manfrina eccovi dei video del buon vecchio TAO, della roba così non ve la proponevo dai tempi degli Scotch!

Un po’ di Bono e tanto pop anni ’90 con L’Ultimo!

Ecco un singolo perfetto per le radio più intraprendenti (radio Subasio, se ci sei batti un colpo!):

Un po’ di rock più politico e socialmente rilevante, roba da fra tremare i CCCP:

The Abigails – Tundra

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Buono! Stai fermo lì! Sì, lo so, il country ti fa cagare, ma solo perché sei uno stronzo supponente. Lo dico per te amico, ti stai perdendo della grande musica.

Ti presento Warren Thomas, il quale sebbene sia cresciuto a suon di punk è venuto sù come un trasognato Hank Williams, la sua è una voce profonda d’altri tempi e ha l’aria di uno che la sa lunga.

I The Abigails nascono dalla necessità di Thomas di esprimere il suo country su un palco, possibilmente in una bettola nascosta nel deserto del Mojave, viaggiando su una roulotte scassata. Eppure questo country-man  dal suono arido e caldo viene dalla garagista Los Angeles, ed è prodotto dalla solita Burger Records, e come se non bastasse uno dei suoi amici più stretti, Wyatt Blair, suona negli psichedelici Mr. Elevator & The Brain Hotel.

Tutto questo non ha niente a che vedere con quel sound da saloon di Always, eppure siamo sempre nella assolata California.

Parla d’amore Thomas (sì, beh, parla di “fica” come piace dire a lui), parla di Gesù, ma se ne frega di credere in qualcosa, lui racconta la vita tramite le potenti immagini bibliche (No Jesus) e i cliché del romanticismo spicciolo, e lo fa come non si sentiva da tempo.

Già nel 2012 con “Songs Of Love And Despair” aveva espresso il suo carisma e il suo magnetismo, ma con “Tundra” (2014) si aggiungono melodie davvero memorabili (The One That Let Me Go) e grandissime cavalcate country. L’universalità di pezzi come Story Of Pain dovrebbe convincervi, non è una questione di suono più o meno nostalgico, ci sono certe cose che possono essere raccontate solo in questo modo, con quella poesia elegante e sofferta, mentre la chitarra viene acidamente pizzicata da un residuo di galera che vi sta fissando da inizio concerto.

C’è qualcosa di immenso in questo “Tundra”, non so se parlare di capolavoro perché oggi qualsiasi cosa è un dannato capolavoro frutto di un incredibile genio, abituati come siamo a non dare alcuna importanza alle parole stiamo umiliando la musica che ci esalta. Diciamo solo che Warren Thomas è un musicista e un ammaliatore, sporco e fragilmente autentico.

Il ritmo incalzante di 29 è un apripista perfetto, il finale strascicato e ironico di Ooh La Lay chiude l’album con meravigliosa auto-ironia.

L’album tiene botta pezzo per pezzo, le liriche di Thomas e la sua forza istrionesca valgono già da sole l’acquisto, poi ci sono quei piccoli capolavori come Medication che decine di band garage avrebbero voluto scrivere (sembra uscita fuori da un album dei The Seeds!), insomma gente, stiamo parlando di uno degli album più piacevoli di quest’anno, non importa se avete un sacco di pregiudizi sul genere, ascoltare questo ragazzo è un buon modo per farvi passare la spocchia.

  • Link utili alla popolazione: se volete ascoltarvi in streaming questa meraviglia non avete che da cliccare forte QUI per la pagina Bandcamp della band, se invece avete bisogno di dire a Warren che al prossimo giro la birra la offrite voi cliccate QUI per la pagina Facebook.

Che dite, ce lo schiaffiamo qualche video?

Cioè, guardate come cazzo sta Warren:

Questa è Black Heil dall’album d’esordio:

Sempre nel nostro Van preferito:

Harsh Toke – Light Up and Live

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Credete che i festival come Coachella siano solo per fighette che si bagnano ad ogni uscita degli Arcade Fire? Quando pensate alla California invece delle belle spiagge e delle tette vi vengono in mente feedback lancinanti, molta birra e tante, tante belle tette? Beh in questo caso gli Harsh Toke sono la band che fa per voi.

Capitanati da due skater famosissimi in patria (c’è Justin “Figgy” Figueroa alla chitarra, al basso Richie Belton) gli Harsh Toke non si pongono di certo chissà quali seghe mentali, o rasponi materiali, quando si approcciano al rock, il loro sound è un mix decisamente riuscito di Hawkwind, Blue Cheer, prog classico e jam infernali, non lontani dai riff potenti e decisamente vintage dei Kadavar. Non è un caso se l’etichetta sia la stessa, questa Tee Pee Records, piccola e misconosciuta, ma con qualcosa da dire in mezzo a tutto questo revival ’60-’70 californiano.

Chiaramente parlare di revival per Thee Oh Sees, Ty Segall, White Fence, Kadavar, Blue Pills e via discorrendo è riduttivo (anche se in alcuni casi, come nei Blue Pills, è fin troppo esaustivo), ma non percepire Syd Barrett nei Thee Oh Sees significa esser sordi (mentre ridurli solo a quello significa esser scemi).

Cosa c’è da dire sulle quattro tracce che compongono “Light Up and Live”? Pochissimo.

Da un certo punto di vista la mancanza di un concetto alla base di questi album può far storcere il naso a qualcuno. Perché continuare con viaggi psichedelici nel 2014, sopratutto se privi di importanti novità? Beh, diciamo pure che qualche nota differente gli Harsh Toke ce la mettono in questo album. Intanto la struttura dei brani, fluida, ineluttabile, più che ricercare una perfezione (King Crimson) lascia scorrere le idee, tramortendo. Certamente è fluida anche la struttura di un “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream, come di qualsiasi album degli Acid Mothers Temple, ma i giri di basso ammiccanti ai Black Sabbath, i riff che volano fino a perdersi nella stratosfera (i già citati Hawkwind), la grezzità del suono lontano dal perfezionismo tecnico tipico del prog fanno di “Light Up and Live” un ponte di contatto tra i rimandi agli Spacemen 3 negli Zig Zags e le violente derapate strumentali nei Thee Oh Sees (Lupine Dominus).

Rest in Prince e Weight of the Sun sono unite nella musica, ma la band di Figueroa non ci dà punti fermi o momenti di riflessione, preferisce frastornarci fino all’inverosimile. Ma il vero schiaffo arriva con la title track, dieci minuti che già a metà esplodono con una potenza devastante per poi prolungarsi fottendosene altamente della tensione, delle regole, del buon senso e della fruibilità, ma ha un motivo tutto questo o è della musica semplicemente senza idee?

Il senso c’è, ed è un po’ disperso in tutte le pubblicazione californiane (e quelle in linea col sound californiano) contemporanee, il bisogno di creare un muro che invece di dividere inglobi tutto. L’alienazione degli anni ’60 che si poteva provare negli Acid test (mentre i Grateful Dead stordivano folle di fumati) nasceva con premesse del tutto diverse da quella delle odierne furiose e psichedeliche sessioni di jam degli Harsh Toke, i muri che propongono le band di oggi essenzialmente sono espressione di un menefregismo generazionale devastante.

No brains inside of me, no brains inside of me ripetono con leggerezza i Thee Oh Sees in Maze Fancier, ed è quello che urlano anche Ty Segall, gli Zig Zags e questi Harsh Toke. La leggerezza non passa più dalle canzonette, dalla melodia (facile o complessa che sia), ma dalla alienazione da un mondo allo scatafascio per cause che non riusciamo a capire o che proprio non vogliamo capire, questa generazione, la mia generazione, definita senza valori né cervello né speranze trova la sua perfetta espressione musicale proprio in questo nuovo ambiente californiano. 

In certe declinazioni ci sono molte similitudini nel fenomeno italiano del momento, la Psichedelia Occulta, anche se con certe differenze che mi fanno preferire quest’ultima al rock californiano. La meravigliosa trasposizione del mercato di Porta Palazzo dei La Piramide di Sangue, che dalle impressioni di un album straordinario composto da numerosi artisti come “SUK Tapes and Sounds from Porta Palazzo”, tirano fuori un pezzo per il loro ultimo lavoro come Esoterica Porta Palazzo, dimostrando quanta profondità ci sia in questo movimento di cui molti parlano, ma che nessuno sembra voler criticare in modo più professionale e approfondito. Più simili al sound californiano ci sono gli In Zaire, per esempio.

Vabbè. come la solito perdo il filo del discorso e finisco a parlare d’altro, ci vuole pazienza…

Che dire, vi consiglio questi Harsh Toke, assieme al disco vi consiglio di sorseggiare della buona birra, se siete pigri come me e gli album ve li fate portare a casa allora vi consiglio (e tre) Beerkings per le birre, un sito allucinante che ho conosciuto da poco e che sto amando più della mia ragazza. Ci sono pure i voti e le recensioni delle birre, il che vi fa sembrare molto più raffinati di un drogato qualsiasi.

  • Lo Consiglio: a tutti quelli che “Doremi Fasol Latido” non fa per niente cagare, che adorano le jam infernali con chitarre scordate e la birra artigianale. O anche solo un lattina di Heineken.
  • Lo Sconsiglio: se siete dei progger convinti non è roba per voi, insomma in questo blog i Dream Theater non erano buoni prima e ora fanno schifo, son sempre stati una merda masturbatoria. 
  • Link Utili: cliccate QUI per la pagina Bandcamp degli Harsh Toke con due jam da 21 minuti ciascuna (!), cliccate invece QUI per il sito della Tee Pee Records, se volete godere delle splendide sensazioni di Esoterica Porta Palazzo allora cliccate QUI

E ora qualche video:

una devastante live dei Toke

qui con Lenny Kaye (!!!) che suonano Gloria (!!!)

e infine qualche allucinante lacchezzo con lo skate di Figueroa

 

Hot Lunch – Hot Lunch

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Personalmente sono piuttosto infastidito dalla ricerca convulsiva del low-fi a tutti i costi. Avete presente, no? Migliaia di band che cercano di ricreare un’aura di mistica autenticità nei loro album, sperando che qualche feedback qua e là registrato alla cazzo di cane li renda in qualche modo rilevanti, o quantomeno più autentici della sbobba che passa MTV.

Beh, sull’autenticità di questi Hot Lunch non c’è niente da recriminare, garage e punk diretti allo stomaco sono le fondamenta incorruttibili della buona musica – non che il resto faccia cagare, insomma anche Steve Reich me la alza un casino, ma preferisco decisamente vedere delle chitarre spezzarsi dopo due minuti di spettacolo, piuttosto che sorbirmi due ore di disquisizioni pseudo-intellettuali alla fine di un concerto cervellotico seduto scomodamente in platea.

Quindi sì, ok, è merda autentica, ma c’è anche dell’arte? Insomma, dov’è la Grande Musica Rock dietro tutto questo, dov’è quella realtà fottutamente banale e spesso degradante riscoperta da una nuova prospettiva (avete presente Pere Ubu, Richard Hell, Velvet Underground, Nick Cave, ma anche Mule, Cracker, Soft Boys giusto per non citare sempre i soliti)?

Eccomi qui oggi a presentarvi l’ennesimo album autentico senza un cazzo da dire. Ehi, senza rancore però.

Dato che il low-fi ormai non tira più tanta patata come qualche mesetto fa, gli Hot Lunch si buttano sullo shit-fi (c’è scritto nelle tag della loro pagina su Bandcamp, che dire?). Come suona lo shit-fi? Mah, direi peggio di “Horn the Unicorn” di Ty Segall ma meglio di qualsiasi album di Daniel Johnston.

Chiaramente gli Hot Lunch non hanno pretese (il che va sempre bene, anzi rilancio: non c’è band che abbia enormi pretese artistiche che non faccia assolutamente, obiettivamente e insindacabilmente cagare), bei riff sparati al giusto volume, tutto materiale in linea con la ottima produzione californiana contemporanea, peccato che manchi il genio. O non si è ancora manifestato.

I ragazzi vengono dal florido stato della Pennsylvania, stato che ci ha donato gli osceni Utopia (la feccia del rock per eccellenza) e Will Smith, e ora questa band divertente ma fotocopia di altre diecimila.

La cover di Lovely One, del buon Ty Segall (bel pezzo fra l’altro, uscito nel 2009 nel sottovalutato “Lemons”, anche se preferisco decisamente la versione più grezza contenuta nella raccolta “Singles 2007-2010”), dice già molto sulle radici degli Hot Lunch e sull’importanza sempre maggiore della scena californiana, ma cosa aggiungono di loro?

Qualche traccia più che ascoltabile come Do You Want to Give $$, Ass, Brainfry, ma in sostanza nulla che non si sia già sentito un miliardo di volte. Proprio come Jeffrey Novak e Mikal Cronin anche gli Hot Lunch hanno capito che non c’è necessariamente bisogno di andare verso una direzione più “alta”, quella seguita assiduamente dai Thee Oh Sees di John Dwyer dal 2007 tanto per capirci, ma anche assecondare il mercato pseudo-underground può essere un’idea non troppo disdicevole (e nel caso specifico di Cronin cercando di sbarcare il lunario prostituendosi con il pop-rock vergognoso dell’ultimo album), in soldoni: perché non divertirci e nel caso tirarci sù un po’ di grano?

Niente di immorale o schifoso, sia chiaro, sono assolutamente certo che i più grandi album album punk e rock nascono dalla pazzia, dalla lussuria e in generale da una buona commistione di ignoranza, droghe e ambizione.

Alla fin fine tra Novak e Cronin vi assicuro che l’album d’esordio di questi Hot Lunch è qualcosa di ben più valido, un acquisto che comunque vi intratterrà qualche ora se amate il genere.

Ah, non confondete questa band con l’omonima formazione da San Francisco, astro nascente della label Who can you trust?, la quale annovera anche gli ultimi lavori dei magnifici Zig Zags e degli italianissimi In Zaire. Questi Hot Lunch sono molto più hard e glam rock, ma finora altrettanto banali.

  • Pro: l’album fila liscio senza annoiare eccessivamente.
  • Contro: dopo la seconda volta lo saprete a memoria, e non lo ascolterete mai più.
  • Pezzo consigliato: Brainfry.
  • Voto: 6/10 (il voto è influenzato non poco dal fatto che il download dell’intero album è gratuito dalla loro pagina Bandcamp)
  • Link utili: QUI l’album su Bandcamp, QUI gli “altri” Hot Lunch in una compilation con altre band della Who can you trust?.

E infine il classicone di Reich, che ci sta sempre:

Thee Oh Sees – Carrion Crawler/The Dream

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Gentili lettori,
quanto vi propongo oggi è un album di una band che fa stracciare i vestiti di dosso anche ai critici più testardi. Peccato che i voti mediamente alti e i complimenti strascicati vengano spesso rilegati alle ultime pagine, lasciando in copertina gli ultimi aborti degli Arcade Fire.

I Thee Oh Sees sono, e tremo al dirlo, la miglior rock band dell’ultima generazione. Se tremo nel dirlo è per molte ragioni.

La prima è certamente il fatto che oggi definire cosa sia “rock” è sempre più difficile. Non per me, ma il resto della critica che pur di recensire undici miliardi di album al giorno più dell’altra rivista musicale fanno diventare rock anche “AM” degli Arctic Monkeys (per loro la linea di confine è sempre più confusa).

Dimenticandoci di punto in bianco che fare rock non è imbracciare una chitarra e vomitare ovvietà da un microfono, ma è farlo in un certo modo e con dei validi motivi. E il modo e i motivi si sentono parecchio da quelle casse, cazzo se si sentono!

Per i confusi e gli anfetaminici: i motivi non devono per forza essere “alti”, come i modi non devono essere per forza virtuosistici, basta che non siano artificiali. Puoi anche voler diventare i nuovi Beatles, fare un mucchio di soldi e raccatarre figa in ogni angolo, ma se da questi propositi vengono fuori i Ramones è una cosa, ma se invece vengono fuori gli Strokes significa che qualcuno sta mentendo. E i Ramones erano troppo fatti per per riuscirci in modo credibile.

Il rock vero si sente.
Quando ascolto un pezzo qualsiasi degli Strokes non sento niente, a parte una smodata voglia di raccogliere fiorellini in giardino e guardare in TV X-Factor. Quando ascolto i Thee Oh Sees mi si rizzano a porcospino tutti i peli delle palle, vorrei spaccare tutti poster di Frank Zappa in camera con la tavoletta del cesso e guardare Beavis and Butt-Head in streaming.

La storia dei Thee Oh Sees è davvero strana.
Se gran parte delle rock band cominciano coverizzando qualche pezzo con gli strumenti comprati qualche natale di troppo fa da mamma e papà, John Dwyer (leader della band) comincia con esperimenti noise allucinanti.

Il primo nucleo della band si forma nel 1997, denominati Orinoka Crash Suite pubblicheranno tre album che ad oggi ascoltiamo in tutto il mondo solo io e John Dwyer.

34 Reason Why Life Goes On Without You / 18 Reason To Love Your Hater To Death” meglio conosciuto come “1” è una di quelle cose per cui o hai una mente aperta all’esperienza emotiva REALE oppure dopo due minuti fuggi dalla stanza violentato mentalmente. L’esperienza noise non è da tutti, ma se vi piace il genere i primi tre album degli Orinoka vi faranno esplodere il cervello.

Dopo questa avventura composta di rumori, fruscii e ambienti sonori al limite dell’umana sopportazione, la band si volge a sonorità più garage e al formato canzone universalmente riconoscibile. Formano così gli The OhSees che nel 2007, con l’arrivo di Petey Dammit possono trasformarsi nei definitivi Thee Oh Sees.

Con quella chitarra che suona come un basso Dammit dona a Dwyer il sound definitivo, un ponte trascendentale che unisce Syd Barrett, Soft Boys, Fuzztones e Ty Segall.

Non c’è un album che si possa definire “poco riuscito”, dal primo (“The Master’s Bedroom is Worth Spending a Night In”, 2008) all’ultimo (“Floating Coffin”, 2013) eppure ne hanno fatto uno che forse forse è “il più riuscito di tutti”.

Ecco: “Carrion Crawler/The Dream”, uscito nel 2011 qualche mese dopo “Castlemania”, è la sintesi di tutto il sound, delle idee e della follia dei Thee Oh Sees.

Concepiti come due EP diversi Carrion e Dream vengono fusi in unico album, unendo così la vena puramente psichedelica a quella più spiccatamente garage della band. La prima parte apre proprio con Carrion Crawler (chi gioca a D&D sa già a cosa si riferisce) monumento del rock psichedelico, un nuovo classico indimenticabile.

Segue Contraption/Soul Desert, fusione di un loro vecchio pezzo con Soul Desert, fra l’altro la mia preferita dei Can pre-”Tago Mago”. I ritmi ripetitivi, perfetta sintesi di acidi e introspezione, si confermano con la successiva Robber Barons.

Una specie di space-garage quello di Chem-Farmer, con un lavoro portentoso delle due batterie di Lars Finberg e Mike Shoun. Un surf-rock indemoniato.

La breve Opposition (With Maracas), formula garage che sembra la versione velocizzata e sbarazzina di The Whipping Continues (un geniale, acido e rumoroso pezzo contenuto nel precedente “Castlemania”) ci apre alla seconda parte. Il tema musicale sta cambiando repentinamente, portandoci da altri lidi ben più duri e molto meno introspettivi.

The Dream, anticipata da quei brevi accordi così geniali da imprimersi nella mente per sempre, è il cavallo di battaglia di questo album, la sua potenza garage-caotica dal vivo è inebriante, un’orgia sonora che prolunga un orgasmo per sette-otto minuti di furiosa live.

Seguono velocemente perle di saggezza garage impressionanti (Wrong Idea, Crushed Grass), molto più imprevedibile e camaleontica Crack in Your Eye. Degna conclusione la scalmanata Heavy Doctor.

Non c’è bisogno di aggiungere altro, il rock dei Thee Oh Sees è un buco nero che risucchia tutta la storia mantenendo una propria originalità, la quale deriva da una mente geniale e da dei compagni altrettanto degni, un sound unico perché vecchio ma estremamente moderno. Da ascoltare esclusivamente senza cuffie.

La musica di questa band avrà (e già ha) delle ripercussioni decisive nel sound della California. E oltre.

  • Pro: tutto quello che c’è di buoni dietro la parola rock.
  • Contro: se vi piace il rock in tinta pop vi sconsiglio vivamente i loro album, vi risulterebbero inutilmente noiosi.
  • Pezzo consigliato: vi consiglio i due title track, Carrion Crawler e The Dream.
  • Voto: 8/10

Mikal Cronin – MCII

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Cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?

Probabilmente non tutti conoscono ancora Mikal Cronin, un bravo ragazzo californiano dal sound grezzo e violento che con dischi come il precedente (omonimo del 2011) e il bellissimo “Reverse Shark Attack” con Ty Segall si è imposto, almeno per la critica musicale, come tra i giovani più interessanti di una California rivitalizzata nella psichedelia e nel garage.

Quindi riponiamoci la domanda: cosa ci si aspetta da un disco come “MCII”?

Semplice: due palle come mongolfiere, casino, garage e divertimento a sfinire.

Ma nella vita non tutto è come vorremo che fosse.
Comprato all’uscita nella speranza che il buon Cronin mi rompesse definitivamente le casse, sembra che il mio più recente acquisto invece mi stia rompendo assai i coglioni.

La virata di Cronin è quella per un rock più “arioso” nei riff, che ammicca in modo svergognato ad un garage imbonito da spiaggia californiana più che da festival della birra con i Thee Oh Sees in scaletta.

Le prime tre tracce scorrono, non c’è che dire, in confronto a qualsiasi altro lavoro di Cronin c’è una certa armonia, il suono varia dal pulito allo sporco senza intoppi, mix e produzione con i fiocchi. Dei tre pezzi che ci introducono al secondo album di Cronin segnalo solamente Am I Wrong, leggermente più animata o quantomeno personale, un buon livello di composizione (ma sempre elementare, il che va bene finché cazzeggi, ma non quando fai finta di fare roba “seria”).

Si rialza Cronin con See It My Way, che sembra uscita pari pari da “Hair” di Segall e White Fence, con un pizzico meno di psichedelia. La forma “singolo” però mi disturba. Cronin ha confezionato un perfetto biglietto da visita per radio e TV, non è un caso se quindi la critica lo accoglie come il suo miglior lavoro.

See It My Way non è un brutto pezzo (il testo ha anche un che di garage), ma un po’ come You Make The Sun Fry, singolo da “Goodbye Bread” di Segall, appare studiato a tavolino e manca di autenticità, se capite cosa intendo.

Peace Of Mind nella sua “confezione da spiaggia” non perde una certa piacevolezza, inficiata comunque da un continuo rimando a sonorità troppo commerciali per non essere notate.

Quando le mie speranze ormai sembravano perse in un abisso di chitarre acustiche e giovani californiani palestrati in camicia hawaiana arriva Change, che sulle prime mi rinsavisce, e in effetti il riff funziona bene, peccato che il resto subisca un po’ ancora questo forzato imbonimento.

Provo una certa rabbia per questo cambiamento di rotta.
Non sono di certo uno che si affeziona ad un sound, se un artista che mi fa cagare cambia rotta e mi piace è ok, e anche se un rocker incazzoso diventa una checca rifatta a me va bene se la musica comunica comunque qualcosa. La rivoluzione nel sound dei Meat Puppets da “Meat Puppets II” a “Up On The Sun”, sebbene mi abbia scombussolato sulle prime, mi ha regalato uno dei miei dischi preferiti, tutt’ora il mio preferito della band.

Quindi porcamiseriamaledetta non me ne frega nulla se Cronin adesso si sente a contatto con Madre Natura e deve farcelo percepire pure a noi a suon di litanie acustiche, perché se ci metti l’anima, se ci metti il rock, va più che bene. Ma non è proprio il caso di questo album.

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La chitarra è diventata light senza un motivo preciso, perché non c’è nulla nella musica e nella composizione che lo giustifichi, è tutto decisamente piatto, ripetitivo, impersonale e tragicamente scontato. Un bel cambiamento in confronto al primo album: “Mikal Cronin”.

Don’t Let Me Go è un altro pezzo che sembra proprio pensato per essere un bel tormentone per i giovani californiani che viaggiano a tutta birra per strade deserte con la radio a palla, una cosetta che non dispiace a nessuno, che non ferisce ma nemmeno colpisce, superficiale.

Non più cosa aspettarmi mentre il disco volge a Turn Away. Almeno si finge di cambiare ritmo, ma le sonorità restano quelle. Encomiabile lo sforzo di donare all’album un sound ben definito, e vorrei tanto che voi capiste che VA BENE e oltretutto è PIACEVOLE, ma che essenzialmente manca di passione.

Con Piano Mantra entra in gioco pure un piano che spizzica qua e là qualche accordo degno di Allievi, mentre si aggiungono degli archi e il tutto prende il colore di un Leonard Cohen poco ispirato, spezzando inspiegabilmente la trama sonora fin qui portata avanti. I testi che seguono non sono certo di un T.S.Eliot o di un Bukowski, ma questo nel rock va bene, tranne quando la musica e il tono fanno pensare che il musicista abbia qualcosa di profondo e importante da dirci (ed invece ci becchiamo una riflessione alla Baci Perugina). Su queste sonorità (in realtà no, ma vabbè) e con un’idea più genuina di climax consiglio vivamente Panic Attack #3 degli italiani a Toys Orchestra: così si scrive un cazzo di pezzo.

No, vabbè, sono troppo scazzato per questo disco, davvero troppo.

  • Pro: beh, mica fa cagare.
  • Contro: santo cielo se fa cagare…
  • Pezzo consigliato: Apathy. È del disco precedente dite? E secondo voi non lo so?
  • Voto: 4,5/10