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Podcast – Il new garage oltre gli USA!

Oltre il new garage di Ty Segall e dei Thee Oh Sees c’è qualcosa? Dite la scena francese? Perché quella australiana no? E quella cyperpunk tedesca? E quella psych italiana? E quella weird-punk-sperimentale islandese? In questo episodio di Ubu Dance Party niente Coca-cola per i nostri radioascoltatori, ma i soliti schiaffi e ottima musica che ci compete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Big Naturals – Big Naturals

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Etichetta: Greasytucker
Paese: UK
Pubblicazione: 2015

With a sound like yours, what kind of shows d’you end up playing?
As long as we’re not pigeon-holed into any genre we are happy to play with literally any type of band or artist, or for anyone to enjoy or hate the music for that matter. I guess we’re just too damn old and jaded to be rockstars.
(da un’intervista della band al Bristol Live Magazine)

Un duo, basso elettrico e batteria, dove il basso può trasformarsi in un urlo come in un sibilo, dove il sound spazia dal kraut rock all’hardcore, dove la batteria da metronomo ineluttabile perde il senso del ritmo (e noi dello spazio), sperimentazione consapevole. In quel di Bristol lo chiamano krautpunk.

I Big Naturals non potevano che nascere a Bristol, e dove sennò, la città con la scena musicale più solida d’Europa dopo Torino con la sua Psichedelia Occulta. Jesse Webb, il batterista, dopo cinque anni a vagare di band in band si unisce al progetto Big Naturals nel 2014, quando il progetto era tutto sulle spalle di Gareth Turner, un bassista al quale le quattro corde stanno odiosamente strette. 

Ascoltare il loro esordio omonimo è un’esperienza totalizzante, sebbene la povertà dei mezzi di registrazione si percepisce eccome la potenza illimitata della loro musica, un flusso interrotto di drone e kraut, con un orecchio verso il garage californiano e le sue devianze europee (Pink Street Boys), la psichedelia c’è ma non la fa mai da padrona, al massimo, come in Neda, diventa parte integrante del flusso senza reminiscenze hippie alla cazzo buttate là per far revival.

Giocano i Big Naturals, con qualcosa che ancora non riescono a controllare pienamente. Islamaphobia è un accenno che dura poco meno di un minuto, eppure si percepisce da questo tutto il contesto: è un album sulla paranoia che ci circonda, sulle paure e le incertezze del futuro mentre il mondo attorno a noi sta cambiando, e non sempre in meglio.

Tribalismi, rituali, misteri, siamo ancora su una sponda europea, l’influenza brtistoliana dei The Heads è presente come quella contemporanea italiana (Squadra Omega, La Piramide Di Sangue, Mombu), ma anche degli americani Shooting Guns e di quel genere di sperimentazione lì, senza contare Can, Faust, Amon Düül II e, come fa notare giustamente SI TRUSS in un suo articolo per Drowned In Sound, i primissimi Oneida.

I Big Naturals vanno contestualizzati in una scena che vede la dub step come padrona assoluta, e mentre parte del metal commerciale e del jazz più avanguardista sono ben contenti di poter dialogare con questo genere, i rocker lo vedono come il nuovo nemico contro cui fare fronte comune (come ai tempi della disco music sempre in Inghilterra, che portò alla Factory e poi alla negazione dell’ideologia punk su cui essa fu fondata). Ma in USA il garage punk sta diventando una barzelletta, la Burger Records sforna sempre più band copia-incolla senza idee e con un sound tutto uguale, e tutti quelli che restano fuori da queste direttive psichedeliche diventano underground nell’underground. Come risponde a tutto questo il duo da Bristol? Con il ritmo kraut di A Good Stalker, con la paranoia fatta musica ed energia.

Ecco, energia, una parola abusata nel descrivere certo rock più veloce o più evocativo, a seconda delle sensibilità, quando invece l’energia è qualcosa di misurabile, di calcolabile. Nel caso dei Big Naturals si può parlare con cognizione di causa di energia intesa come joule, perché la potenza è il mezzo con cui arriva il concetto. Questa non è musica d’avanguardia, non vuole innalzasi nei confronti della scena rock mondiale, piuttosto copia tutto quello che a Gareth Turner sembra essere figo e lo ripropone tutto assieme, come in un flusso di coscienza, come un vomito liberatorio dopo una serata di bagordi e repressione.

Il kraut è presente nel drumming come nelle sperimentazioni con basso, il punk è presente nella sia nella sua essenza nichilista e auto-distruttiva, sia come sguardo disincantato sulla realtà.

Un album mastodontico, di proporzioni incalcolabili, di pura estetica rock, una musica che lascia i suoni evolversi al ritmo del pensiero, delle volte soffermandosi ostinatamente su un particolare, delle altre accennando e basta, ma senza mai fermarsi, come una mente in continuo fermento, come la febbrile paranoia che ci pervade tutti.

Running – Asshole Savant

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We want to do things that make people uncomfortable.
Alejandro Morales (batterista dei Running)

Il problema di gran parte delle band rock contemporanee è esprimere il disagio della nostra epoca (e delle nostre crisi) in modo efficace. Personalmente non mi ritengo particolarmente dotto in fatto di rock, ho aperto il blog per passione non perché mi ritenga un critico o un eletto unto da Chuck Berry, ma credo che nel mio piccolo di aver trovato e recensito alcune band che ci stanno riuscendo, almeno in parte, a svolgere questo arduo compito.

Molti gruppi per trovare un modo di esprimere l’urgenza dell’arte (perché a questo punto di arte si deve parlare) stanno rispolverato la new wave/post punk, genere in cui la nevrosi collettiva e gli artistoidi da SoHo hanno rivoluzionato la grammatica del rock. Da qui il sound eighties di Corners, Dreamsalon, Ausmuteants e Nun. Ma se l’orecchio tende agli insegnamenti di Devo, Pere Ubu e Einstürzende Neubauten, la mente è radicata nel presente. Cercando quindi di trovare ispirazione dal vecchio si costruisce il nuovo, un meccanismo necessario che solo le grandi band hanno saputo far funzionare al meglio.

Che cosa c’entrano con tutto questo i Running? Beh, già dal titolo del disco forse intuite qualcosa.

Asshole Savant” (Captcha Records, 2012) è un EP scarno, ruvido, un rigurgito di Pussy Galore, Rake e “Metal Machine Music”, ma con una spinta in più, ovvero la sua profonda e intima relazione col contemporaneo.

Il trio in questione è formato da Jeff  Tucholski alla chitarra (invece che “elettrica” direi “abrasiva”) e voce, Matthew Hord al basso e voce (e smorfie) e infine Alejandro Morales alla batteria, nonché fondatore di questo progetto che sta devastando Chicago a suon di noise punk da qualche anno a questa parte.

Tra LP ed EP più o meno di culto (tra cui “Vaguely Ethnic” dell’anno scorso, uscito per la Castle Face Records di John Dwyer) ho scelto di consigliarvi questo brevissimo lavoro uscito nel 2012, pietra miliare di una band che non devasta solo dal vivo (come molte formazioni di culto) ma anche in studio.

Pezzi stratosferici come I Can’t Believe I’m Alive sono un manifesto concettuale, trascendendo i generi si può dire senza arrampicarsi sugli specchi che c’è un contatto tra la furia dei Running e le melodie amare dei The Molochs di Lucas Fitzsimons, come anche con Felix Tried To Kill Himself degli Ausmuteants, sono il manifesto quindi di una dimensione giovanile devastata, torturata dall’ondata di informazione prima televisiva e poi dal web, una dimensione che queste band stanno cominciando a dipingere, ognuno secondo la sua personale scuola di pensiero.

Se Fitzsimons punta sul songwriting (anche in virtù della sua immensa capacità lirica, che lo colloca senza troppi intoppi tra Bob Dylan e Tom Waits come ordine di grandezza) e gli Ausmuteants invece sulla foga dell’informazione e sulla devastazione della parola, i Running ripescano la chiusura ritmica del kraut rock senza miscelarla alla psichedelia (come nei Thee Oh Sees) ma piuttosto immergendola in un denso calderone sonoro noise e hardcore, rendendo questo brevissimo EP ben più devastante della mezz’ora di feedback e garage rock di “Slaughterhouse” di Ty Segall.

La sensazione che si ha ascoltando la title track è terribile, una versione rabbiosa di Ghost Rider dei Suicide, come invece il garage punk di Everybody’s Fucking Everybody è una versione moderna delle violente espressioni dei Pussy Galore.

È sempre brutto ridurre una recensione ad una sequenza di nomi, ma cercate anche di venirmi incontro, questo “Asshole Savant” spezza le coordinate con la sua furia devastante. Ah, fra l’altro è così che si satura lo spazio sonoro, non come quella cagata di “The Electric Hour” dei Jefferitti’s Nile, dove si butta nel mezzo tutti i generi conosciuti su questa terra perché non si ha un cazzo da dire, il disagio dei Running è vero, è palpabile dal pavimento che trema per i bassi, dalle orecchie che sibilano a causa dei feedback, dal peso nel petto per quei testi così pieni di vuoto.

Al contrario di altre band i Running sanno bene quello che fanno, sono scientifici nella loro ricerca estetica, e non gli basta esprimere la desolazione intellettuale e emotiva in cui viviamo, ma vogliono svegliare il pubblico a suon di rumori devastanti e raccapriccianti, incubi sonori dove ti ritrovi a correre per scappare da un mostro, ma ti accorgi solo all’ultimo di stare fermo.

Psychomagic, The Molochs, Jefferitti’s Nile, Santoros

lolipop records logo

L’operazione “rizzatil’uccello con la Lolipop Records” è iniziata! Se la Burger Records ha cominciato (e non da poco) a interessarsi a qualunque cosa si muova e suoni una chitarra, fregandosene della qualità (il più delle volte), la Lolipop è fedele al sacro vincolo dell’autenticità, quella forza latente nel rock che puoi esprimere solo urlando (o sussurrando) ad un microfono chi sei. Il loro catalogo da interessante è diventato il mio preferito in assoluto dopo pochi mesi di estenuante recupero, mica zucchine gente: questi due ragazzi californiani hanno tirato sù un’etichetta con i cojones belli grossi e bitorzoluti.

Dopo parecchi ascolti avrei dovuto scrivere parecchie recensioni, ma l’alcolismo e la pigrizia hanno preso nuovamente il sopravvento. Sembra che rum e studio non vadano d’accordo. Strano. Comunque sia, giusto perché è un imperativo categorico, ho fatto un enorme sforzo scrivendo brevissime recensioni di alcuni album che ho ascoltato di recente.

Alcuni sono carini, uno merdoso, un altro quasi un capolavoro, ma tutto sotto la illuminante guida della Lolipop, ultimo baluardo contro un garage rock sempre meno rock e sempre più moda.

Psychomagic – Psychomagic (2013)a3808446709_2

Se ieri sera fosse stati dalle parti di Los Angeles avreste potuto assistere ad uno show con The Memories, Joel Jerome, Wyatt Blair (progetto solista del batterista dei Mr.Elevator & The Brain Hotel) e Billy Changer (bassista nei Corners). Forse tra tutte queste realtà ormai consolidate della nuova scena garage vi sareste stupiti ad esaltarvi per gli sconosciuti Psychomagic dall’Oregon, protagonisti da qualche anno della scena psych garage.

Se non fosse per la Lolipop Records come avremmo fatto a scoprirli? I 43 scarni secondi di I Don’t Wanna Hold Your Hand sono troppo poco idioti per la Gnar Tapes, e troppo poco rock pop per la Burger. Le influenze pop di Mutated Love non devono spaventare, la linea psych è sostenuta dalle varie I’m Freak (ecco, questa quasi coerente con i prodotti della Gnar), I Wanna Be That Man, Hearthbroken Teenage Zombie Killer, ma le influenze che compongono questo album omonimo sono delle volte troppe.

C’è qualcosa di Late Of The Pier in I Just Wanna Go Home With You, ci troviamo addirittura il peggio di Elton John (sempre che ci sia un meglio) in Bottom Of The Sea!

Che razza di animale sia questo Psychomagic non ci è dato saperlo, un misto amarissimo di psych pop garage che delle volte esalta e altre tramortisce, senza però convincere del tutto.

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The Molochs – Forgetter Blues (2013)

Ma allora qualcuno che ha sposato la linea blues garage c’è! Certo, non è quella hard dei White Stripes, stavolta siamo su lidi molto intimisti, pregni di una poesia e di una potenza sconvolgenti.

Stiamo parlando probabilmente di una delle migliori band di tutta la scena contemporanea, motivo per cui non la troverete in cartellone con i big del momento, dato che se strafottono di aderire al sound patinato che sta facendo sbancare troppe band mediocri (Bass Drum Of Death, FIDLAR, Audacity), i The Molochs si rifanno ad un concetto di autenticità nella chitarra acustica che passa direttamente dal Greenwich Village fino ai Violent Femmes, così dolcemente disillusi, così dannatamente reali.

Il genio di Lucas Fitzsimons nel comporre musica perfetta per le sue ottime liriche è comprabile a quello di Warren Thomas, forse gli unici due cantori dei nostri giorni, alla faccia di certa merda che ci propinano le riviste passando fenomeni da baraccone come cantautori.

Il ritmo ineluttabile di una Oh, Man era davvero tempo che non lo ascoltavo, quanta amarezza in Drink the Dirt Like Wine, così minimale ed espressiva, lontanissima dalla freddezza e dall’isolamento di “Same Old News” di Tracy Bryan (Corners), non c’è un tentativo di descrizione né di allontanamento dal fruitore (come nella musica di Bryant), parole e musica seguono la melodia della necessità.

Stupenda, anzi: immensa cover di Syd Barrett, Wined & Dined, padrino della scena contemporanea come spesso ripeto e sottolineo, fino allo sfinimento.

Se vi volete bene (o se vi volete male ma non sapete esprimerlo) dovete comprare questo “Forgetter Blues”.

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Jefferitti’s Nile – The Electric Hour (2014)a2604003945_10

Non si fa che parlare di questo album da parecchi mesi, così alla fine ho dovuto acquistarlo! La potenza devastante e il wall of sound sono notevoli già di per sé, ma sono le miriadi di influenze sixties che compongono questo schizofrenico mosaico le protagoniste, spesso nella singola canzone ne puoi contare quattro o cinque.

Senza dubbio spaventerete non poco i vostri vicini mettendo a tutto volume Midnight Siren, tra Hawkwind, Ty Segall, Blue Cheer e la velata ma percepibile presenza dell’indie dei Late Of The Pier.

Detto questo dopo aver ascoltato a riascoltato “The Electric Hour” mi sono tremendamente annoiato. Va bene saturare lo spazio, va bene buttarci dentro grandi band come i Blue Cheer e gli Hawkwind, va bene passare da un genere all’altro senza troppi complimenti, però non c’è sostanza!

Insomma, prendete una band qualsiasi della Captcha Records che faccia psych e capirete che voglio dire. Qui la psichedelia è una scusa per mostrare un po’ di virtuosismo, tante paillette colorate e luci stroboscopiche, ma è tutta forma. Che cazzo di senso avrebbe quel gran casino di Stay On? Quale ricerca, quale concetto si cela dietro? Certo, direte voi, non è che per forza bisogna dare un senso profondo a tutto quello che si fa, sono d’accordo, solo che la musica dei Jefferitti’s Nile è pretenziosa, tracotante, barocca, senza motivo di esserlo!

Se fai due accordi e parli di quanto vorresti farti una canna mi sta bene, ma se devi fare terra bruciata del mio spazio vitale sonoro per infilarci tutto quello che ti passa per la tua mente bacata allora posso pretendere un minimo di senso, o no?

Ma poi quelle virate alla Coldplay in Upside? Non ve ne siete accorti? Davvero?

Mah, un album semplicemente ridicolo.

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a1462399879_10Santoros – Animals [EP] (2014) 

Ecco una band con le palle, pochi fronzoli e tante cazzate. Non lo nascondo: provo una profonda e poco dichiarata attrazione sessuale per i volti sudaticci dei Santoros, il loro psych garage sgraziato mi fa frizzare il ravanello. E poi sono messicani. Non lo so, mi sembra tutto troppo bello per essere vero!

Il lamento insopportabile di Jossef Virgen all’inizio di I Didn’t Know è di una bellezza estetica inarrivabile, le incursioni della chitarra di Adolfo Canales sono pura libidine.

L’attacco di Diego Pietro alla tastiera in Rabbits farebbe scendere una lacrima di pura gioia a Ray Manzarek. La sua successiva discesa negli inferi psych garage invece fa piangere d’invidia gli amici Mr.Elevator & The Brain Hotel, chissà come si è torturato le dita Thomas Dolas ascoltando questa Rabbits, un brano che dal vivo si presta al delirio totale, ma che trova la sua definizione nel sound unico e brillante dei Santoros.

Regà: so’ quattro dollari su Bandcamp. Quattro dollari, porcodemonio, quattro, manco lo so quanto viene in euro, meno di qualunque merda ingurgitiate durante la giornata, quindi poche scuse e comprate questo EP.

  • Link Bandcamp: QUI.

Dreamsalon – Thirteen Nights

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La Captcha Records è un’etichetta davvero interessante, dopo averci regalato i messicani Has a Shadow con quel capolavoro di “Sky is Hell Back” passiamo ad una band certamente meno interessante ma non per questo banale.

I Dreamsalon sono una novità nel panorama garage psych, ma di quelle buone. Vengono considerati una specie di Violent Femmes in salsa psichedelica, il che ci pone delle premesse niente male (oltre che a della aspettative pericolosamente alte).

Qualche EP nel 2012 e tanta gavetta, poi nel 2013 esce “Thirteen Nights”, la prova che Seattle non è più un luogo isolato ma fa parte di una rivoluzione sixteen che imperversa in tutti gli States.. Una volta le scene musicali erano legate ad uno stato o addirittura ad una città (perché anche l’hardcore ha vissuto più stagioni legate a diverse città), adesso con internet le distanze si sono accorciate, le idee scorrono più velocemente, e il sound californiano imperversa anche in Canada (Pack A.D.) come in Messico (i già citati Has a Shadow), e quindi anche la grunge Seattle (alla quale ormai va giustamente stretto il grunge) diventa una assolata costa californiana, dove si suona surf rock tra bikini e birra ghiacciata.

Probabilmente “Thirteen Nights” è uno dei prodotti meno banali recentemente usciti, lo ancora di più è se messo in confronto a band più fortunate come gli Audacity o quel fumo di paglia di Jacco Gardner

Il garage psych dei Dreamsalon spazia tra chitarre che ricordano Dick Dale e le sfuriate di feedback alla Ty Segall, le cavalcate sul basso di Min Yee sono infernali e ammalianti, Matthew Ford calpesta la batteria per poi accudirla esaltandosi in dei passaggi jazz-rock, Craig Chamber a quella chitarra gli fa fare di tutto, la pizzica, la fa urlare, la fa ronzare, la distorce devastandone il suono per poi fare il verso a Syd Barrett (l’unico e incontestabile padrino del rock contemporaneo). Credo sia sempre Chamber a cantare, ma non ho trovato molte informazioni su questa band quindi la butto lì.

Ci sono pezzi davvero notevoli, il giro di basso ipnotico di On The Bus che sfocia in un rabbioso garage punk, il suono avvolgente di Lick o il delizioso riff di Get To Work uscito fuori da un “Nuggets” perduto. C’è pure spazio per la sperimentazione con Every Man, Woman, And Child, punta di diamante dell’album. 

Boh, non che altro dirvi, quantomeno ascoltatelo su Bandcamp, questa amici miei è roba che scotta.

Un esordio notevole, un sound già riconoscibile ed un pezzo come Every Man, Woman, And Child che può solo portare lustro alla Captcha Records. 

Has a Shadow – Sky is Hell Black

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Questa orribile foto è l’unica che ho trovato di dimensioni decenti, rubata ad una intervista in spagnolo alla band su Noisey: http://noisey.vice.com/es_mx/read/entrevista-a-has-a-shadow

Fanno shoegaze su ritmiche garage rock in salsa low-fi e drone, vengono da Guadalajara in Messico, le loro copertine sembrano concepite da un Odilon Redon dada, si fanno chiamare Has a Shadow e spaccano decisamente i culi.

Le impressioni sonore di “Sky is Hell Black” tramortiscono e sono meno banali di quanto possano sembrare ad un primo ascolto. I giri di basso di Victor “Remi” Garay sono adattissimi per una band drone, la voce dall’oltretomba e l’organo esoterico di Daniel Graciano delineano lo spazio (mentre conduce le semplici variazioni della drum machine), Rodolfo Samperio aggiunge un pizzico di melodia con la chitarra elettrica e ovviamente la distorsione. Musica e testi di Marciano e Garay, testi che si proiettano in questo vastissimo spazio sonoro con una potenza simbolista di rara efficienza.

L’album si apre con John Lennon, il ritmo serrato di drone, garage e shoegaze si mescolano con le liriche (I’m a ghost /I’m the key /of your existential fiction /I’m a ghost) ma siamo ancora lontani dalle vette che seguiranno. 

La title track presenta il primo vero giro di organo riconoscibile, giri che diverranno un leitmotiv di “Sky is Hell Black”, un elemento fortemente garage magnificamente in disaccordo con i muri sonori darkeggianti e i testi. Il ritmo rilassato di Don’t apre alla parte più intrigante del disco.

Can’t Stop the Fall si presenta come un pezzo rubato a dei ipotetici demo di John Dwyer per “Floating Coffin” (2013), la chitarra di Samperio raggiunge acuti che spezzano la trama sonora per poi ricongiungersi come in un loop.

La trama musicale May Never avvolge l’ascoltatore, le immagini suggerite vanno dalla solitudine al bisogno di una ricerca, ma l’esperienza sonora si congiunge con Drive dove un riff portentoso si erge tra le complesse stratificazioni sonore (roba che avercene in “m b v” dei My Bloody Valentine!) completando un quadro musicale meraviglioso. 

Una intro garage o addirittura surf rock per Poison In Me, l’organo di Graciano continua a sviscerare giri garage perfetti, ma siamo ancora lontani dallo standard o dalla classicità se volete, qui i generi sono perfettamente mixati, si può tranquillamente dire che gli Has a Shadow fanno scuola a sé. Ci sono pure i cazzo di coretti, eppure col cavolo che sembra una di quelle banali ballate uscite fuori dal secondo album di Mikal Cronin o dal revival barrettiano di Jacco Gardner, siamo lontani anche dal garage drone di Thee Oh Sees o di “Slaughterhouse” di Segall, è proprio un altro pianeta.

The Way continua sulle stesse ricette sonore finora proposte, mentre il ritmo dark di Untitled di avvicina più ai Joy Division (permettermi la licenza di questo accostamento). 

Grazie alla californiana Captcha Records questo album si è fatto strada tra le band di Los Angeles provocando non poche ripercussioni, prima tra tutte lo splendido sound delle L.A. Witch di cui presto riparlerò in una recensione a loro dedicata.

Per quanto mi riguarda “Sky is Hell Black” è uno degli album più belli dell’anno appena passato, il tempo magari lo riscoprirà come un capolavoro, o forse lo dimenticherà del tutto, eppure questi Has a Shadow già da qualche anno sperimentano la loro darkgaze smuovendo le coscienze di chi ascolta, intanto io cercherò di recuperarmi il più possibile, voi cominciate pure da questo album, non ve ne pentirete.

  • Lo Consiglio: se ti attizzano i My Bloody Valentine e A Place to Bury Strangers ma li vorresti più dark e cattivi hai appena trovato il santo Graal.
  • Lo Sconsiglio: se lo shoegaze ti fa ogni volta alzare dalla sedia per controllare che la puntina sia ancora lì, se a Odilon Redon preferisci sempre e comunque una più comprensibile scuola veneziana del settecento allora questo album non fa per te. Davvero.
  • Link Utili: bene carissimi se volete ascoltarvi TUTTO l’album non avete che da cliccare QUI, se volete dire alla band che avete avuto un erezione ascoltando “Sky is Hell Black” cliccate QUI per la pagina Facebook, mentre se volete saperne qualcosa di più sul catalogo della Captcha Records non avete che da cliccare QUI.

E ora, come di consueto, qualche video:

Videoclip di Drive.

Bruttissimo videoclip di Sky is Hell Black (ma almeno potete sentì il pezzo).

Live micidiale e ipnotica dei nostri.