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Meg Baird – Furling

Etichetta: Drag City
Paese: USA
Anno: 2023

Eccovi qualche link per ascoltarvi l’album suddetto:
BANDCAMP: https://megbaird.bandcamp.com/album/furling
SPOTIFY: https://open.spotify.com/album/5FgYvOLxsNHb1oh29LeOMc
APPLE MUSIC: https://music.apple.com/it/artist/meg-baird/254431414

Kim Fowley – The Day the Earth Stood Still

Kim

Etichetta: MNW
Paese: Svezia
Pubblicazione: 1970

All kinds of stones
And all kinds of rocks
Gonna burn down the bridge
Gonna burn down the block
Set fire to this whole damn nation
Gonna create all kinds of sensation

Nel 1970 Kim Fowley si trovava nella fredda Svezia munito delle sue pellicce appariscenti e di un significativo carico di droga. Tra le tante certezze che la sua vita gli aveva donato c’era fulgida nella sua mente d’aver già sperimentato tutto quello che il rock poteva dargli. La cosa non dovrebbe poi stupirci così tanto, a soli 18 anni Fowley aveva messo sù la sua prima rock band assoldando un certo Phil Spector e mostrando subito affascinanti doti premonitrici. Appena compiuti 20, nel 1959, eccolo con i The Renegades di Nick Venet mentre spolpa il rock anni ’50 portandolo a conseguenze che anticipavano le prime derive britanniche su suolo americano. Fowley ha sempre avuto questa fissazione di riportare il rock ai suoi gloriosi fasti, eppure al tempo stesso lo smuoveva una voglia incontrollabile di guardare al di là, di scorgere prima degli altri cosa sarebbe successo, e sarà questo suo fiuto per il puzzolente rock ’n’ roll del futuro a farne un produttore con i contro-così-detti. Non è un caso se in una vecchia intervista di Federico Guglielmi, in uno dei suoi naturali slanci di umiltà, si fosse autoproclamato «Il Nostradamus del rock.»

La lista dei progetti di Fowley negli anni ’60 non trova paragoni con il carnet  nessun musicista rock di qualsiasi epoca. La sua biografia è un turbinio di band, happening, singoli e dischi in cui è impossibile orientarsi, solo in quei frenetici anni giovanili ha prodotto gente come Jim Capaldi e i Soft Machine, ha scritto e provocato canzoni per The Skippers, Wolf Pack, Navarros, Uptones, Rogues, Fallen Angels, E. Zane Wood & The Dominion, Grains Of Sand, Bruce and Jerry, Knights of the Round Table, e tantissimi altri, riuscendo a spaziare tra ballad soul strappalacrime (Big Tears) a demenziali rivisitazioni strumentali anni ’50 (The Baddest Wolf), procedendo col garage rock più scalmanato (Goin’ Away Baby) e passando per una imprevedibile deriva psichedelia proto-barrettiana (Golden Apples of the Sun). Il suo singolo a 45 giri più famoso, The Trip, ispirò Soul Kitchen dei Doors e fu lui sempre in quegli anni a far incontrare John Lennon e Frank Zappa, suonando con quest’ultimo sia nelle sessioni che delle prime live di “Freak Out!” E questa non è che una mi-cro-sco-pi-ca porzione dell’influenza culturale che ebbe questo fricchettone sulla storia del rock.

Sotto molti punti di vista il ruolo di Kim Fowley è stato quello di Brian Jones nei Rolling Stones, solo che Fowley voleva esserlo per tutte le band del mondo.
Il Capolavoro discografico arriverà nel 1968 con quel gran tocco di hard rock che fu “Outrageous”, un album di cui dovremo parlare e di cui ho scritto almeno sette recensioni, e tutte e sette mi hanno convinto ogni volta di più che dovevo studiare, scoprire e interrogarmi ulteriormente. Per questo ho scelto un altro album: codardia, il gusto della vita vissuta a metà.

Durante un lungo soggiorno nella bella e brulla Svezia, condito con droghe e sesso occasionale (che ci volete vare, è il duro lavoro della rockstar), Fowley sta producendo alcune band locali quando decide che vuole registrare un album dal contenuto bello scoppiettante, un campionario di rock ante-litteram e di rock contemporaneo che spiegasse con la sua arguta ironia quanto fosse necessario imparare a memoria la cinica lezione di Dennis Hopper. Il 1970 è l’anno in cui il musicista di Hollywood tira i remi in barca per quanto riguarda la sperimentazione di nuovi linguaggi elettrici, che d’ora in poi delegherà ai suoi figliocci (roba di prima scelta come Modern Lovers e Runaways, mica pigne come Billy Squier) ma a modestissimo avviso di questo blogger che non sa distinguere una cena da una colazione, ciò non toglie un filo di grandiosità a “The Day the Earth Stood Still”, un colpo di coda che lascia esterrefatti per lucidità e coesione artistica.

Fowley come al solito se la gioca passando attraverso influenze e contaminazioni a dir poco eclettiche, dal chitarrismo di Dave Edmunds (quello di “Rockpile”, non il baccello alieno che lo sostituirà nel “periodo new wave”, ugh!) a Vince Taylor, a cui ruba la sua celebre Brand New Cadillac lanciandola nell’olimpo del minimalismo rock ante-White Stripes (cover fra l’altro ben più radicale di quella stranota dei Clash). Fowley lascia sapientemente solo Cadillac del titolo originale, anche perché di Brand New non c’ha proprio un cazzo l’approccio del nostro, asciutto come un rocker degli anni ’50 cresciuto nei garage degli anni ’60.

Lanciato così l’album, con miraggi di automobili sfreccianti verso il progresso industriale, si apre ben presto verso le immense strade americane, dopo pochi chilometri ci ritroviamo alla ricerca di ragazze con cui condividere i nostri dolori esistenziali, mentre gli occhi si perdono nell’aridità morale che ci circonda (Pray for Rain), inseguiamo motociclisti che fuggono dalle proprie radici (Visions of Motorcycles), ascoltiamo il suono della libertà che piange e ammiriamo l’avvento di una Nazione (Birth of a Nation), il tutto col solito istrionismo hollywoodiano che Fowley secerne da ogni poco e buco del suo corpo. Le note politiche seminate nel disco ci vengono lasciate raccogliere da soli, ed sono molto chiare e amare, le masse di giovani che riempiono le strade contro la guerra non sono quei lunatici sottomessi alla propaganda marxista di cui parlano TV e radio, ma la volontà di un popolo di riscoprire la propria libertà guardando a nuove sfide, perlopiù ecologiste, spirituali, autarchiche. Per descrivere questo scontro generazionale senza copiare il pastiche zappiano, Fowley condensa nelle sue canzoni le principali influenze americane senza abusare di arrangiamenti o di complesse soluzioni in studio, dal country alle nuove leve del rock (Steppenwolf su tutti) tenta di rappresentare le molteplici declinazioni dello spirito americano attraverso la sua unica sensibilità. Eccolo quindi cantare anthem hippie dal tono hard rock come in The Man Without a Country per poi scadere coscientemente nella comicità demenziale southern di I Was a Communist for the FBI, in queste dicotomie senza soluzione di continuità la volontà non è tanto quella di impostare un concept quanto di collezionare canzoni di pura e assoluta “americanità”.

Tecnicamente questa impostazione può sembrare un limite, perché le immagini trasferimento (2)proposte sono molto diverse fra loro senza essere però abbastanza vicine da provocare l’effetto puzzle di opere sperimentali tipiche di quegli anni. Ma Fowley aveva già abbondantemente dimostrato di saper fare album così con “Outrageous”, per questo la sua attenzione stavolta è focalizzata sul comporre un canzoniere in cui le liriche svolgono un ruolo più importante del solito, proprio perché la musica è così facilmente riconoscibile all’orecchio trasporta più facilmente le sue parole così urgenti. “The Day the Earth Stood Still” non è un atto di accusa politico tramite la sperimentazione coincidendo necessariamente con una avanzata ricerca poetica (come stavano facendo Who, Zappa, Aphrodite’s Child), né il tentativo di universalizzare il proprio personale mal di vivere (Robert Wyatt, Tim Buckley, Nico), piuttosto l’idea è quella di dimostrare che l’America è stata costruita mattone su mattone col sudore di rocker come Buddy Holly e Little Richards, dai motociclisti in pelle che viaggiano come tribù nomadi, dalle ragazze che chiedono un passaggio sulla strada. Se in “Outrageous” le contaminazioni erano tutte mono-direzionate per parodiare un certo tipo di rock, in questo specifico caso la policromia di generi proposta serve sì a mostrare la complessità della società americana, ma da un solo, criticissimo, punto di vista.

Il finale dell’album è una deflagrazione rock declamata da un predicatore lascivo: «Baby, is America dead? Are we dying, or are you the one instead?» Dove sta finendo questa nazione, si chiede, dove le vecchie generazioni che dovrebbero guidarla hanno perso per strada i loro valori fondativi, mentre i giovani, che ne hanno scoperto una nuova declinazione nel fango di Woodstock, vengono ignorati o soppressi con la forza? In un fluire che disvela tutte le potenzialità dei musicisti a sua disposizione, Fowley predica il suo sermone perdendosi in litanie, borbottii, versi bambineschi, urla sguaiate alla Sam Kinison, la voce adesso ruvida adesso morbida, la satira così demenziale da essere una involontaria parodia del rocker “di strada” alla Mick Jagger. Le linguacce non cambieranno il mondo, ma sono il linguaggio universale di cui adesso disponiamo per superare la retorica politica e l’accademismo snobista di una generazione che vede con disgusto i nuovi modi della gioventù.

Con questo album Kim Fowley, per la prima volta nella sua sottovalutata carriera, non sposta di un millimetro i confini del rock, perché sa di aver raggiunto un equilibrio che non ha bisogno di  nessuna legittimazione, nemmeno la nostra.

kimmone

Podcast – Quella cosa chiamata new garage

In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.

Cliccate su play, non ve ne pentirete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

The Abigails – Tundra

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Buono! Stai fermo lì! Sì, lo so, il country ti fa cagare, ma solo perché sei uno stronzo supponente. Lo dico per te amico, ti stai perdendo della grande musica.

Ti presento Warren Thomas, il quale sebbene sia cresciuto a suon di punk è venuto sù come un trasognato Hank Williams, la sua è una voce profonda d’altri tempi e ha l’aria di uno che la sa lunga.

I The Abigails nascono dalla necessità di Thomas di esprimere il suo country su un palco, possibilmente in una bettola nascosta nel deserto del Mojave, viaggiando su una roulotte scassata. Eppure questo country-man  dal suono arido e caldo viene dalla garagista Los Angeles, ed è prodotto dalla solita Burger Records, e come se non bastasse uno dei suoi amici più stretti, Wyatt Blair, suona negli psichedelici Mr. Elevator & The Brain Hotel.

Tutto questo non ha niente a che vedere con quel sound da saloon di Always, eppure siamo sempre nella assolata California.

Parla d’amore Thomas (sì, beh, parla di “fica” come piace dire a lui), parla di Gesù, ma se ne frega di credere in qualcosa, lui racconta la vita tramite le potenti immagini bibliche (No Jesus) e i cliché del romanticismo spicciolo, e lo fa come non si sentiva da tempo.

Già nel 2012 con “Songs Of Love And Despair” aveva espresso il suo carisma e il suo magnetismo, ma con “Tundra” (2014) si aggiungono melodie davvero memorabili (The One That Let Me Go) e grandissime cavalcate country. L’universalità di pezzi come Story Of Pain dovrebbe convincervi, non è una questione di suono più o meno nostalgico, ci sono certe cose che possono essere raccontate solo in questo modo, con quella poesia elegante e sofferta, mentre la chitarra viene acidamente pizzicata da un residuo di galera che vi sta fissando da inizio concerto.

C’è qualcosa di immenso in questo “Tundra”, non so se parlare di capolavoro perché oggi qualsiasi cosa è un dannato capolavoro frutto di un incredibile genio, abituati come siamo a non dare alcuna importanza alle parole stiamo umiliando la musica che ci esalta. Diciamo solo che Warren Thomas è un musicista e un ammaliatore, sporco e fragilmente autentico.

Il ritmo incalzante di 29 è un apripista perfetto, il finale strascicato e ironico di Ooh La Lay chiude l’album con meravigliosa auto-ironia.

L’album tiene botta pezzo per pezzo, le liriche di Thomas e la sua forza istrionesca valgono già da sole l’acquisto, poi ci sono quei piccoli capolavori come Medication che decine di band garage avrebbero voluto scrivere (sembra uscita fuori da un album dei The Seeds!), insomma gente, stiamo parlando di uno degli album più piacevoli di quest’anno, non importa se avete un sacco di pregiudizi sul genere, ascoltare questo ragazzo è un buon modo per farvi passare la spocchia.

  • Link utili alla popolazione: se volete ascoltarvi in streaming questa meraviglia non avete che da cliccare forte QUI per la pagina Bandcamp della band, se invece avete bisogno di dire a Warren che al prossimo giro la birra la offrite voi cliccate QUI per la pagina Facebook.

Che dite, ce lo schiaffiamo qualche video?

Cioè, guardate come cazzo sta Warren:

Questa è Black Heil dall’album d’esordio:

Sempre nel nostro Van preferito: