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D’Angelo And The Vanguard, russian.girls, Gangbang Gordon, The Stevens, Total Control

INTERNETHATE

Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:

  • non mi interessano,
  • notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.

Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?

Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.

Eeeee via con le danze!

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angeloD’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)

[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda di Dogma, ma vabbè, succede.]

Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’b una tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’b made in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.

Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.

Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deaths per esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?

Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.

Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.

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10723566_472216169585570_1463938047_nrussian.girls – Old Stories (2014)

A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.

Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.

Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.

“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).

Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambient avant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).

Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.

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a3621126830_10Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)

Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.

Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).

Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exam mescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.

L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.

Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsense guardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.

L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.

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a2192467939_2The Stevens – A History Of Hygiene (2013)

Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.

Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.

Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).

La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.

Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.

Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.

Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.

A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.

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a2301055101_2Total Control – Typical System (2014)

Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.

Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthem garage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteants più garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.

Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.

In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.

Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Party è semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!

Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Spring lo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.

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MGMT – Oracular Spectacular

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Gli MGMT sono proprio il classico fottuto e odioso esempio di come la fama uccida la musica.

Si può parlare di rock per gli MGMT?
Certamente, sotto la folta coltre di elettro-pop c’è un’anima psichedelica che proviene dal garage più spensierato, filtrato dignitosamente da esplosioni funky mai ridicole.

Però (e questo “Però” pesa tanto) la grandezza di questa band si esprime e si consuma tutta nelle prime cinque tracce del primo album, dopo di che la fama e i soldi si sono divorate ogni residuo di talento del duo di Brooklyn.

Cacchio gente, “Oracular Spectacular” è un signor disco, un esordio* con i fiocchi e i contro-fiocchi. E lo è ancor di più alla luce di recenti sviluppi funky e disco nella musica rock, da Panic Station degli eredi dei KC & the Sunshine Band (i Muse) al nuovo disco di George Clinton ovvero “Random Access Memories” (aka Daft Punk). Ma mentre questi due esempi mainstream sono IL MALE questo primo album dei giovanissimi MGMT era una boccata d’aria fresca.

Comunque se ce l’ho ancora con RAM dei Daft Punk è solo perché prima non mi dispiacevano affatto (e voglio presto recensire la loro discografia in un solo post presto o tardi), ma il loro ultimo album è quanto di più anacronistico e commerciale (nel senso peggiore del termine) che abbia mai posato la sua plastica sul mio piatto.

Tornando a noi: cosa c’era di giusto in “Oracular Spectacular”?
Tutto! Dal sound dell’album ai singoli pezzi un album d’esordio così è solo da incorniciare.

Peccato che sia stato seguito da “Congratulations” (2010), che io acquistai con la scratch cover, l’unica vera sorpresa di un disco piatto e senz’anima, e dal nuovissimo “MGMT” (2013) che forse nella loro testa doveva essere considerato come un nuovo inizio ed invece si è rivelato essere la definitiva pietra tombale sulla band.

Il problema di recensire album così è che inutile spenderci parole a caso citando altre band o ripercorrendo a ritroso le influenze che lo hanno generato, “Oracular Spectacular” è semplicemente un buon disco, ma che raffrontato a questa nuova tendenza funky (a volte mascherata tramite la dubstep altre dall’elettronica) si rivela come un piccola profezia scevra di ogni inflessione data al mercato o dalla moda.

  • Pro: psichedelici, moderni, festosi, mai idioti o esageratamente scontati.
  • Contro: la differenza tra le prime cinque tracce e le seguenti cinque è abissale.
  • Pezzo consigliato: Weekend Wars.
  • Voto: 7,5/10

*in realtà il loro primo album sotto il nome di The Management è “Climbing to New Lows”, assai dignitoso anche se senza la maturità acquistata successivamente, ma il progetto MGMT oltre al rinominarsi si pone anche delle coordinate che potenzialmente potevano regalarci album più che discreti. Peccato.

Justice – Audio, Video, Disco

Justice

Secondo me molta gente non ha capito un tubo dei Justice.
Già prenderli seriamente oppure paragonarli ad altre band (Daft Punk?), per me sono errori di valutazione.

Gaspard Augé e Xavier de Rosnay non sono due francesi con la passione per l’elettronica, sono due ragazzi che hanno voglia di imparare divertendosi. Una filosofia che in musica purtroppo è enormemente sottovalutata. Non voglio fare paragoni eccelsi (Captain Beefheart, ma solo dell’idea di principio, ovviamente, sempre a pensar male!) ma prendiamo in esame band come gli MGMT o i Klaxons, senza quella vena di fancazzismo che li caratterizza non avrebbero molto da dire.

“Audio, Video, Disco” dice già tutto, ed è stupido – davvero stupido – tacciarli di non aver fatto nulla di che perché è soltanto prog rock, è molto stupido, per il semplice fatto che già il titolo dell’album svela la semplicità del loro far musica: Ascolto, Vedo, Imparo.

Stupirsi poi per una svolta rockeggiante degli Starsky & Hutch della musica elettronica è un po’ patetico. Già in  (2007, meglio conosciuto come “Cross“) ci sono fortissime declinazioni prog, basti pensare alla mini-suite Phantom divisa in due parti, una grandissima prova compositiva che strizza l’occhio ad un prog davvero pe(n)sante.

Ricordo di aver letto in un vecchio numero del Rolling Stone (sì, lo compravo, e me ne vergogno) una loro intervista, parlavano dei loro esordi, e non mi stupì leggere che tra tante cose avevano pure militato in una cover-band dei Green Day. Visto? Niente di esaltante, niente di trascendentale, nessun rimando a John Zorn, a Frank Zappa o a cippalippa, a loro piacevano i sempliciotti e scontati Green Day.

Definire il valore di una band solo e soltanto dai punti di riferimento e dalla scelta di un genere è davvero sconfortante. Cosa trasmettono i Justice, realmente?

Prima di tutto una ecletticità non indifferente, un sound che spazia dai Daft Punk a Andrew Lloyd Webber, una giocosa musica da rave party senza pretese se non quella di essere subita passivamente.

Guardando (ed ascoltando) il quarto episodio della prima stagione di Misfits*, quello in cui Curtis fa quel gran casino dopo aver visto la sua ex, ti rendi conto di come i Justice siano uno specchio quantomeno realistico della nostra generazione (sono del ’90). In discoteca, nell’episodio citato, danno Phantom part II remixata dai Boyz Noize, tutt’attorno le luci e i laser oscurati dal muro dei corpi che passivamente subiscono note di cui a mala pena percepiscono i bassi, seguendo una linea ritmica a volte più in sintonia con la loro testa che con quello che manda il dj. I Justice si fanno promotori della dispersione musicale, del collage (Kraftwerk, Electric Light Orchestra, Yes, e chi più ne ha più ne metta) e del ri-collage (il remix), sono moderni, contemporanei, e lo fanno senza un reale bisogno di espressione alta, senza il bisogno di aggiungere nulla se non la loro passione per quello che ascoltano, vedono ed imparano.

La cifra stilistica è importante, la presenza di questa enorme croce illuminata che li segue ovunque, dalle copertine degli album ai video fino all’enorme dj set dal vivo è un simbolo ormai caratterizzante. I loro video seguono esattamente la loro idea di musica, così progressive, non c’è un reale inizio ed una fine, c’è solo una infinita progressione, da non vedersi come sinonimo di miglioramento, ma il naturale e ineluttabile divenire delle cose. Notate come fra l’altro nella prima cover si mostra una croce spaziale, mentre stavolta un monolite antico come Stone Age. Hanno già detto molto del disco soltanto con la copertina.

Il percorso della band è psichedelico, si va da collaborazioni con i Fat Boy Slim a Britney Spears, ma il successo arriverà con We Are Your Friends, storico feat con Simian (il video è geniale) nel 2006. La loro via è certamente segnata da Pedro Winters, manager già di Daft Punk e Cassius, e sebbene la sua impronta sembra che i Justice ascoltino molto di più l’elettro-prog dei Battles e i dj californiani. Nel 2007 con “Cross” probabilmente siglano uno dei capolavori assoluti dell’elettronica di stampo popular, e con “Audio, Video, Disco” (uscito ben quattro anni dopo) alzano il tiro.

L’etichetta naturalmente è la francese Ed Banger Records di Winters.

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Il disco comincia, almeno per i miei gusti, nel migliore dei modi. Horsepower è una fuga prog che sembra cominciata già da tempo, il sapore è decisamente Andrew Lloyd Webber, ma non quello bravo, quello tamarro e rimbecillito del “Phantom Of The Opera“. Barocchismi inutili, ma con gran stile.

Trovo che Civilization sia di una potenza vergognosa. Dal vivo rende mille volte il disco, riflette esattamente quello che dicevo sopra, e ce ne fa capire un’altra: i Justice hanno imparato le basi del prog, e le usano per lo stesso motivo con cui avevano assimilato i Daft Punk, lasciare che ai ragazzi arrivi addosso un muro di suoni e parole, nient’altro (ma con una qualità compositiva sempre più interessante).

Un cretino, ovvero un recensore di Onda Rock, ha voluto paragonare Ohio a Because dei Beatles. Ok, Ohio non solo non c’entra niente, ma siamo ben oltre la semplicistica musica pseudo-intellettuale dei Beatles di “Abbey Road” (grazie al cielo). La progressione di Ohio ci trasporta in un viaggio senza meta (leit motiv del disco, e della musica dei Justice), il percorso non progredisce, ne aggiunge mai nulla di nuovo, è solo un andare avanti per inerzia (ammetterete, finalmente, che i Justice fanno una musica mille volte più comunicativa e contemporanea di più o meno tutte le band rock esistenti, almeno per onestà intellettuale).

Canon si presenta con un intro dal sapore medievaleggiante (i Third Ear Band di “Alchemy“?) per poi esplodere in una follia prog che va dagli Emerson, Lake & Palmer ai già citati Battles. Una prova compositiva degna di Phantom, che sinceramente comprova che i Justice non stanno lì a far girare dischi su un piatto.

On ‘n’ On ha avuto su di me l’effetto covalente di un calcio nelle palle. Cos’è? Ma dove sono finiti i Justice di “Cross”? Il sapore anni ’80 di questa traccia mi stupisce, e mi lascia un ottimo sapore in testa. Semplice, intelligente, sembra di vedere un bambino che si prodiga nell’assimilare ciò che ha attorno. C’è molta ingenuità, ma anche modestia in questo modo di comporre musica.

Brianvision fa tornare finalmente i Justice in linea con la loro produzione precedente, ameno nel sound. Il tono epico mi piace, ed è anche ironico, i suoni che ad un certo punto si perdono per poi ricompattarsi in una struttura ritmica serratissima, chiaramente questa è una recensione di pancia, ma voler fare recensioni “serie” sul rock è un po’ come i documentari sull’origine della ricetta della carbonara. Non serve a gustarti di più un piatto, e poi se non ti piace l’uovo non ti piace e basta.

Divertente Parade, mi fa ridere perché mette un po’ a nudo questa parata continua che si sente spesso negli album di rock commerciale, gente in festa a ritmo di tamburi che come pecorelle seguono i loro idoli vestiti in modo carnevalesco. Fateci caso.

Newlands dalle prime note mi sembrava un pezzo degli AC/DC o degli Who. Perché? Perché probabilmente piacciono ai Justice. Se piacciono anche a noi tanto meglio, se no chissene. Mi sembra un ottima filosofia per un musicista.

Helix è il pezzo che mi piace meno. Non fraintendetemi, bella composizione, suoni in linea con l’album, strizza pure l’occhio ai Fat Boy Slim (che mi piacciono) quindi niente da ridire, però non mi entusiasma come gli altri pezzi. Forse perché ormai me l’aspettavo? Probabilmente se i Justice si ripetessero con un disco uguale a questo mi farebbe completamente cagare proprio per questo motivo, siamo alla penultima traccia ed ora basta, abbiamo capito.

Audio, Video, Disco conclude il giro panoramico dandoci una efficace sintesi di questo album. Il rimando ai Daft Punk ritorna, senza vergogna, e i Justice ci salutano sperando di averci divertito con la loro musica senza pretese, se non quella di essere ascoltata.

  • Pro: obiettivamente? Mi è piaciuto tantissimo a pelle, però i Justice non si sprecano a darci nuove idee. Un lavoro assolutamente di poco conto per la musica contemporanea. Vi stupisce? Non avete letto bene la recensione allora. Detto ciò correte a vederli dal vivo e a comprare il disco.
  • Contro: ripetitivo a tratti, però sinceramente oltre al fatto che non si sta parlando di grande musica, ci sono pochi difetti effettivi.
  • Pezzo consigliato: propongo (ancora una volta) un ascolto completo. È un lavoro fatto di impressioni musicali, alcune molto interessanti, altre semplicemente orecchiabili.
  • Voto: 6/10

[*andatevi a leggere perché secondo me Misfits era davvero una figata. Cioè, lo so che non ve frega ‘na cippa, ma andateci lo stesso.]