Archivi tag: Disco Band

Billy Squier – Don’t Say No

billy-squier 2

Ho sempre pensato che se avessi bruciato il vinile di “Don’t Say No” di Billy Squier, una qualche divinità benevola mi avrebbe fornito una devastante spada di fuoco, con la quale avrei posto fine al male assoluto (quindi a MTV). Ed invece fece solo una gran puzza, sciogliendosi e contorcendosi nella fiamma, evaporando e innalzando notevolmente la soglia dell’inquinamento in Toscana.

Al pensiero che il mondo sia pieno di zombi che adorano questo pimpato “virtuoso” della chitarra mi verrebbe voglia di fare come il vecchio di The Strain e decapitarli tutti. Ed invece, come dico sempre, la colpa della musica di merda non è mai dell’ascoltatore, lui è libero di ascoltare quello che gli pare senza che nessuno gli rompa i coglioni, la colpa semmai è dei  musicisti che la producono, anzi: che la defecano questa musica da quattro soldi, a loro bisogna fargli le scarpe. È un dovere morale.

Billy Squier s’innamora della chitarra tramite gli assoli di Jimmi Page e Eric Clapton. Agli inizi della sua carriera, ancora giovanissimo, farà da spalla ai Kiss, ai Queen e ai Def Leppard. Praticamente lo aveva scritto nel DNA che avrebbe creato alcuni dei più brutti album della storia del rock.

Dei Zeppelin ha la spocchia, dei Kiss l’abilità (nel fare soldi) dei Queen la tamarraggine spropositata.

Dopo che si era fatto un nome prestando a destra e manca le sue innate abilità nello stuprare le cinque corde, la Capitol, che negli anni ottanta ci ha fornito quasi in esclusiva tutti i peggiori album della storia, gli produce l’inascoltabile esordio “The Tale of the Tape” nel 1980, ma fu nell’anno successivo che Squier produsse il suo più grande successo: “Don’t Say No”.

Sui testi  di questo album sorvoliamo perché nel rock, lo sappiamo bene, non è proprio l’aspetto che di solito eccelle, se poi parliamo di hard rock c’è solo da piangere.

La fatica che provai ascoltandolo tutto è incomparabile, ogni tanto mi ritrovai ad alzare la puntina per respirare.

Già da In The Dark, pezzo d’apertura e primo singolo uscito per sponsorizzare questo abominio, ci sono tutti i punti di forza di Squier: la voce da rocker anni ’70, bello virile finché non tira qualche falsetto di improvvida femminilità, e ovviamente la sua chitarra protagonista di tremende incursioni del tutto decorative per dare sostanza al pezzo, buttate lì per stupire il chitarrista brufoloso in ascolto. La tastiera suonata da Alan St. John sembra uscita da qualche videogioco degli anni ’90, il finale con quei coretti «ah-ah-ah» fanno presagire ad una svolta disco di Squier. Billy Squier & The Sunshine Band. Non suona male. Cioè, suonerebbe comunque malissimo, ma vabbè.

Il vero pezzo forte arriva subito dopo. The Stroke. Vi sfido a trovare qualcosa di più tamarro di The Stroke, qualcosa di più deprimente nella storia dell’hard rock o di MTV. Cosa dovrebbe esprimere la musica di Squier? Rabbia? Protesta? Divertimento? Ansia? Indigestione? A me sembra qualcosa di pensato per i corridori, o per quelli che si allenano in palestra sei giorni alla settimana e il settimo lo lasciano per gli steroidi. Un rock muscolare, un cock-rock tutto bicipiti e quadricipiti.

Probabilmente non c’è modo migliore contestualizzare The Stroke come in questo geniale film del 2007, Blade of Glory:

Segue una imbarazzante My Kinda Lover, un ponte ideale tra Queen e Danko Jones, anche se perlomeno Jones ci mette dell’ironia (e così si salva la faccia), invece Billy ci crede davvero cazzo, eccome se ci crede.

Quando sfuma My Kinda Lover comincia, con il ritmo serrato di Bobby Chouinard alle pelli, You Know What I Like, anche qui il testosterone è così alto che ti crescono i baffi mente ascolti la voce di Squier, i lancinanti lacchezzi alla tastiera di St. John invece sono solo da galera. Il pezzo, inoltre, sfuma proprio nel momento culminante, lasciando il dubbio che fosse una scelta di sintesi stilistica o una semplice dimenticanza.

Ed eccoci a Too Daze Gone, con un attacco che avrà fatto piangere sangue ai Little Feat, infatti gli sprazzi di southern rock sono al servizio dell’onanismo selvaggio di questo album, una volta finito di ascoltarlo tutto probabilmente non potrai fare a meno di bere birra, scorreggiare ed insultare le donne perché osano essere donne.

Altro singolo di successo, l’atroce Lonely Is The Night, il riff tamarro alla Brian May, l’ambiguo romanticismo di Billy Squier ricorda nei suoi momenti migliori le dolci ballad di Charles Manson.

Si sente eccome Jimmi Page negli slide di Wadda You Want From Me, mentre St. John campiona qualche suono da Space Invaders o qualcosa del genere. Roba per palati fini.

Di solito a metà di Wadda You Want From Me staccavo la spina e mi sparavo gli Who, ma per fare la recensione ho ascoltato anche il resto. Che perle mi stavo perdendo.

Che dire di Nobody Knows? Neanche il più ispirato Barry Manilow poteva tirare fuori un’oscenità del genere, forse la peggior ballad che abbia mai sentito insieme a Haunted dei Deep Purple . Se per caso un giorno decidessi di scrivere una canzone del genere credo che di colpo perderei la ragazza, gli amici, l’anima, ma non i baffi.

I Need You, invece, sembra scritta da un quattordicenne in fissa con i Hanson. Si conclude alla grande con la title track (che inizia con uno sfumato in entrata… sul serio… cristo…) la quale penso rientri ad una buona posizione tra i cento pezzi più inascoltabili della storia del rock.

La cosa bella è che non solo Squier visse un periodo di successo incredibile (se lo hanno avuto anche gli Wham! lo possono avere tutti) ma la cosa curiosa è che questo finì non perché la gente si accorse che la sua musica faceva cagare, ma a causa di un video musicale!

Non la sapete? Nel 1984 era appena nata MTV e mandavano a rotazione merda (così piccola eppure già con le idee chiare!). Niente di nuovo sotto il sole, ok, ma tra tutta questa merda c’era pure un singolo di Billy, preso dal suo nuovo folgorante successo in vinile: “Signs of Life”, già segnato fin dalla nascita da una copertina abominevole. Il pezzo in questione è Rock Me Tonite, il quale sebbene fosse impreziosito dalla produzione di Jim Steinman e dalle coreografie (vomitevoli) di Kenny Ortega, fu un successo clamoroso solo per le classifiche di Billboard, mentre il pubblico che adorava Billy da Rock Me Tonite in poi volterà le spalle al loro idolo perché (attenzione attenzione!) il video gli faceva cagare

Ed ecco come la musica vuota ed insignificante di Squier appena non riesce a vendersi con un giusto mix di pubblicità e immagine macho decade nelle fogne dalla quale è sortita.

Il video l’ho visto, è abbastanza brutto e quindi ve lo consiglio:

Va anche detto che il pubblico americano è fortunato, crede che quello di Squier sia uno dei peggiori videoclip della storia, ma evidentemente non ha mai visto questi tre:

[Se volete saperne di più non avete che da cliccare QUI a vostro rischio e pericolo.]

Spero che a nessuno di voi capiti mai l’orrore di possedere uno degli album di Billy Squier, ma se vi piacciono sul serio sappiate che il cadavere di Dee Dee Ramone si sta scopando vostra madre.

Scotch – Evolution

Scotch

La italo disco è un fenomeno complesso, con una storia intricata ed una serie infinita di interpreti, conosciuti perlopiù dagli appassionati del genere.

Un po’ come tutti i sotto-generi la italo disco è una sintesi di ciò che “tirava” ai suoi tempi, ovvero nei luccicanti anni ’80 (credo si intuisca una certa tendenza alla disco music, ve la butto lì), la struttura musicale era ridotta all’osso, e tutta la magia di questo genere si basa sull’uso smodato di sintetizzatori e sequencer. Un delirio vero e proprio di effetti e suoni spesso del tutto casuali.

Molte band italiane venivano dal prog, ovviamente le più tamarre (Circus 2000, Gleemen, tanto per citarne due), tutti gli altri erano perlopiù dj di dubbia capacità compositiva e perfetti signor nessuno accompagnati da produzioni generalmente scadenti.

Gran parte del successo (brevissimo) di questa italo disco fu in Germania, terra dove notoriamente se negli anni ’80 andavi a giro con un sintetizzatore e portavi occhiali dalla montatura rosa shocking eri Gesù sceso in terra, basta vedere la loro sconsiderata passione per artisti come Moroder, Jean-Michel Jarre o i Kraftwerk. I nostri italiani, piuttosto virtuosi nell’uso vigliaccamente glamour del sintetizzatore, ebbero vita facile nelle discoteche tedesche, molto meno in quelle nostrane. Solo successivamente c’è stata una rivalutazione di questo genere, e proprio in questi anni molti giovani si stanno avvicinando con dolce e ingenua curiosità alla scoperta di questo dimenticato fenomeno commerciale.

Per sintetizzare quanto detto basta ascoltare successi (sì, lo sono stati) come Orient Express dei Wish Key, o la altrettanto celebre Forever And One Day dei 93rd Superbowl.

Tra i maggiori rappresentanti della italo disco mi permetto di citarne gli unici due di cui ho ascoltato per intero almeno due dischi (è davvero difficile trovarne a giro, prima di tutto perché prodotti in numero piuttosto limitato, e poi perché credo molti dotati di raziocinio abbiano bruciato le copie in loro possesso) Dean Harrow e i mitici Scotch.

Dean ho scoperto essere una faccia abbastanza conosciuta nel territorio della trash TV italiana (grazie Wikipedia, quando c’è da trovare la merda sei sempre ben fornita). Ha partecipato recentemente a reality show, ha condotto su Match Music un programma dove mandava a manetta discutibili successi degli anni ’80, e si fa vedere in trasmissioni dal forte contenuto intellettuale come Uno Mattina. Come musicista puntò tutto sul suo fisico e una forte caratterizzazione del personaggio ultra-mega-tamarro che portava a giro. Punta di diamante della sua produzione è certamente il video di Mad Desire, uno scempio musicale accompagnato da delle immagini totalmente sconnesse. Scene con lui tamarrissimo che passeggia intervallate da sequenze in cui tira pugni alla camera, o scene di una presunta love story senza alcuna dinamica riconoscibile, c’è pure un momento in cui va al cinema a vedere se stesso cantare (e la sala è vuota!!!).

Gli Scotch sono considerati dagli esperti del genere come una delle vette compositive più alte della italo disco. Fondati dal factotum Manlio Cangelli (fondatore anche dei sopra citati Wish Key) oggi la band la riassumiamo nella figura di Vince Lancini, il cantante.

Vince Lancini è un uomo felice, che ancora oggi riempie discoteche di provincia (molto piccole) con la sua ingombrante presenza (gli è venuta ‘na panza…) cantando su una base da karaoke i successi degli Scotch, una fine che vi assicuro comune alla gran parte delle star di questo sotto genere.

Avevo già ascoltato “Evolution” (1985), erano i primi anni del liceo che passavo principalmente tra i negozi di vinili e le fumetterie; ricordo che stavo cercando un disco dei The Castaways quando il negoziante mise sul piatto il primo disco degli Scotch. In tutto quel rigurgito inespressivo di sintetizzatori mi innamorai irrazionalmente di una canzone, Disco Band, che entrò nel mio cervello per mesi, se non per anni. Mi odiavo ogni volta che le note di quei cinque minuti di puro terrore mi saltellavano in testa, era come se una maledizione mi perseguitasse.

Per esorcizzare questo male sapevo benissimo cosa fare, ma avevo paura. Non puoi, ed è per me un imperativo categorico, parlare male di un disco se prima non lo hai ascoltato. Ma per ascoltarlo bene, per concentrarti davvero su quello che stai ascoltando, lo devi comprare.

Comprare un disco che so benissimo essere un prodotto di qualità scadente e che odierò con tutto me stesso dal primo all’ultimo minuto non è esattamente un gran bel passatempo. Per carità, negli anni mi sono dovuto ricrede più di una volta! Ero tremendamente prevenuto su “Kick Out The Jams” ma dopo averlo ascoltato (bene) divenne uno dei miei dischi preferiti. Ho apprezzato molto “Gogol Bordello Vs Tamir Muskat mentre ho trovato odioso “Uncle Meat (ed io adoro Zappa). Anche quando parto prevenuto, o positivamente o negativamente, l’ascolto per me è quanto il più possibile (s)oggettivo, se è una merda è una merda, chiunque l’abbia fatta.

scotch-evolution(1)

Beh, ora l’ho comprato.
La copertina, come potete vedere, è oltremodo brutta, c’è questo tipo primitivo-jamaicano che passeggia con uno stereo in spalla seguito anche nel retro da dei dinosauri visibilmente perplessi, disegnato come se fosse una specie di murales messicano.

Non è un caso dunque che il disco cominci con Primitive Man. Suoni che rimandano esageratamente al trash made in ’80, come se Calvin Harris si fondesse con Wang Chung. Nel suo trash non si può comunque apprezzare il tentativo melodico, poteva certamente risultare molto più tamarro. Poi comincia a cantare il nostro Vince. Purtroppo. I suoi versi – chun’ tangatagatun ah! – misti a testi obiettivamente poco ispirati si sovrappongono alla inamovibile struttura del pezzo, completandosi nella più totale inutilità. La traccia sfuma senza aver mai sviluppato niente, come se l’avessero troncato a metà «dai belli, ‘sta roba dura troppo, passiamo al prossimo pezzo!»

Take Me Up fu un successo, anche se faticate a crederlo, è così. Riassunto efficace di una serie di sonorità che riempivano le discoteche dei mitici ’80 quando ormai il 33 giri di Donna Summer del dj di turno si era oltremodo consumato. Il ritornello allegro e simpatico rimanda a tutta quella simpatia forzata che le major imposero nella musica degli anni ottanta, mentre Gang of Four, Pere Ubu, i primissimi Talking Heads analizzavano nuovi aspetti della nostra società tramite le loro innovative prospettive, ma anche in chiave diciamo “disco” (prendiamola larga) c’erano Frankie Goes To Hollywood, Eurythmics, o il già citato Moroder che comunque sviluppavano tematiche più complesse e una musica più ricercata (non sempre, ma vabbè). Anche questo pezzo sfuma senza alcun sviluppo degno di nota.

Si arriva sconfortati a Man In The Man (ambiguetto il titolo), linea melodica nulla, si nota la presenza di un sintetizzatore (ma và!) e il testo che lascia il tempo che trova. Si cerca, essenzialmente, di trovare un sound, una soluzione musicale che non esige certamente nulla da se stessa, niente di più ricercato di molta spazzatura che passano in discoteca oggi quando finiscono li dischi di Boyz Noize e Tiga. Sfumato, di nuovo, sul nulla.

Born To Kill, potrei giurarci, sembra scritta con Music 2000 (vecchio gioco della Playstation) tenta di dare una nota scura all’album, ma a noi ci basterebbero un paio di note decenti. Il testo non l’ho capito, forse per ignoranza, forse perché scritto con la tecnica del cadavere squisito, non lo so, comunque ecco un frammento delle liriche:

My devil, I, I’m so crazy
Yes desperation, no soul
Shake your tongue
Push around your stone
Born to kill the queen of the earth

Aggiungeteci anche una serie di suoni a caso e un assolo di chitarra sul finale (!), che poi, ineluttabilmente, sfuma, troncando anche questo pezzo.

Si arriva al lato B che si apre con Komburn [non ho trovato un link su You Tube, forse c’è su Spotify], un minuto inutile. Davvero.

Ed è così che ci apprestiamo a  gustare un altro successo degli Scotch, Delirio Mind. Non so, e mai credo vorrò sapere, se questo pezzo è stato scritto con l’intenzione di essere davvero una canzone di disco music seria, oppure come una tristissima parodia. Morirò con questo dubbio. Dopo una prova vocale di Vince (mi sono alzato in piedi con le mani in tasca per non prendere a pugni il disco) il pezzo si sviluppa sulla solita linea melodica e ritmica tutta uguale, con delle digressioni farneticanti, credo che il fine ultimo di questa traccia sia provocare un esaurimento nervoso nell’ascoltatore. Ci sono dei momenti in cui il sintetizzatore tira fuori dei suoni degni della colonna sonora di un film di Barbie. Il finale, stavolta compiuto, non ha senso, ovviamente.

Si passa a Loving Is Easy/Evolution. Le prime note sembrano quelle di un pezzo dei Justice suonato da una band di quattordicenni. Forse amare sarà anche facile, ma scrivere canzoni decenti per Margutti (c’è nei credits, non so chi sia, in questo pezzo c’è anche un tale J.Less, qualcuno ne sa qualcosa?) e Lancini sembra davvero una impresa impossibile.
Una tamarrata rara questa canzone, una perla di indecenza musicale preziosissima se volete sconvolgere i vostri amici, uno dei massimi apici che il trash abbia mai raggiunto. In finale “orgasmico” poi una roba che nemmeno i Troggs più arrapati (perdonatemi di aver messo una delle mie band preferite vicino a questi mentecatti).

E così, con immensa fatica, siamo giunti al mio incubo. Eccola, eccola davanti a me, ecco Disco Band.

Un successo inspiegabile seguì questa canzone, coronata di uno dei video più brutti (se non proprio il più brutto) della storia. Guardatelo, poi riprendiamo:

Nell’album questa cosa dura anche di più. I testi facciamo finta che non esistano, roba che fa sembrare Gioca Jouer una poesia di Ungaretti. Ma la musica? Davvero si può ballare una cosa del genere? E come si balla, come nel video? Ve la immaginate una discoteca piena di invasati che vestiti da rasta-dottori e ingessati doloranti che ballano al ritmo di questa roba? Forse la musica fa schifo, ma lo spacciatore di Margutti e Lancini era un Dio della droga, potete scommeterci il culo. Ok, non resisto, ecco il momento più aulico del testo:

Running down with me
My sailor
Smiling high with you
My cirriots
Smiling high with me
My radio
Baby
You’re my really disco band

Ma che cavolo vuol dire? E quando Vince ricomincia con i suoi versi da menomato tipo rangadadagadagadu!  cosa sta esprimendo, a parte un progressivo deperimento del suo stato cognitivo?

Ultimo pezzo: sono salvo. Losing In Time spicca per una certa ricercatezza della melodia, una prova compositiva certamente insperata dopo una sequenza micidiale di nulla assoluto. Mi prudono le mani mentre l’eclettico e tamarro sintetizzatore fa il suo dovere, ma non posso comunque far finta di nulla, questa canzone non è del tutto orribile, ha un senso, va bene che suona come la base per un Canta Tu, e forse il fatto che segni la fine di questo album che me la fa apprezzare di più, non lo so neanche io ormai. Chiaramente il pezzo ricicla i suoi due-tre strofe senza ritegno per quattro minuti, e finisce in uno sfumato che spezza (sì, di nuovo) un discorso musicale comunque ben avviato.

La prima parola che mi viene a mente è: incompleto.
Va bene, forse non la prima, e neanche la seconda, ma diciamo la prima che non sia una imprecazione. Il disco è incompleto, nessuna traccia viene sviluppata degnamente (a parte Deliro Mind e Disco Band) la povertà compositiva è lampante, l’unica nota che emerge è l’uso del sintetizzatore, caratteristica principale della italo disco, sai che roba.

Non spendeteli questi soldi ragazzi, sul serio, non ne vale la pena. Compratevi un libro, un disco di Ty Segall, un pacchetto di preservativi, qualcosa di utile insomma, ma non questa roba. Nel caso siate degli appassionati di trash a 360 gradi invece uscite subito di casa, oppure andate su eBay, e comprate questo disco. Dopodiché potete morire felici.

  • Pro: io odio questo disco.
  • Contro: tutto, praticamente tutto.
  • Pezzo Consigliato: Delirio Mind è il lato oscuro della musica.
  • Voto: 1/10