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Daft Punk – Random Access Memories

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“Random Access Memories” (che d’ora in poi sarà RAM, giustamente) non è una cagata.

Allo stesso tempo però non è il fottuto capolavoro dell’anno o stronzate simili. Quello che fanno in questo disco i Daft Punk è semplicemente un divertissement, consapevoli purtroppo di non avere null’altro da dire a noi esseri umani del 2013.

Il duo francese per eccellenza ha segnato profondamente quel tipo di rock che voleva fare funk senza sembrare la cover band degli Earth, Wind & Fire. L’idea di inserire l’elettronica è vincente quanto banale. In Francia, come anche nella vicina Germania, l’uso di strumentazione elettronica nel rock comincerà prestissimo, dalla musica colta di Klaus Schulze fino alle impressioni più appetibili di Jean-Michel Jarre l’elettronica è stata, volente o meno, una emanazione del rock. I primi ad intuire la forma-canzone del rock elettronico furono i tedeschi Kraftwerk, band ormai leggendaria il cui sound non è invecchiato al contrario delle loro idee.

Se per i Kraftwerk la musica elettronica era imporre la macchina sull’uomo (roba che forse poteva apparire come una novità ai tempi di Fritz Lang e Méliès) per i moderni Daft Punk l’elettronica era un linguaggio alla stregua del rock, che si immergesse nelle sonorità di Donna Summer o dei Clash non importava, coglievano tutte le sfumature di ciò che gli piaceva attorno a loro e le rivisitavano come più gli aggradava, suonandolo come una rock-band.

Con “Discovery”, nel 2001, e la sua versione filmica con “Interstella 5555” (animazioni del divino Matsumoto) chi poteva immaginare che i Daft Punk fossero già a metà carriera? Fu letteralmente un fulmine a ciel sereno questa “band”, solamente 3 album in otto anni, valorizzati con dei remix successivi, eppure per vendere vendevano, evidentemente la loro musica non è poi così scontata come appare!

In realtà la portata di questo duo è stata limitata come la sua discografia: se da una parte impressionò l’inconscio di chi li ascoltava, con il funky, l’r&b e un’elettronica così accessibile a tutti, va detto che la musica non ha seguito il corso dei Daft Punk, è altresì vero che hanno ritrovato in tempi recenti degli emuli nei Justice (anche se con “Audio, Video, Disco” hanno rivolto i loro interessi al prog spicciolo e basilare) ma a parte questi altri due francesi la formula dei Daft raramente è stata re-interpretata, per quanto siano stimatissimi dai colleghi e amati da una folta e agguerrita schiera di fan.

Ma cos’è RAM?

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RAM, semplicemente, sono i Daft Punk di sempre, solo invecchiati.

Non è una malattia, succede a tutti, non si può evitare. È normale la scarsità di idee originali dopo una certa età (non vecchi-vecchi, ma già dopo i quaranta, fatto salvo pochissime eccezioni, particolarmente quando si parla di rock: un genere energico, rabbioso dove la gioventù è un fattore vincolante).

Quest’ultimo album dei Daft è un ritorno ai primi amori, George Clinton, Moroder, tutta la disco music e cazzi e mazzi. Cristo se suonano vecchi i Daft Punk!

Il riff caldo e suadente di Lose Yourself to Dance, assieme a quella chiavica di Pharrell (il quale vorrebbe palesemente essere Jamiroquai, poverino) che fuori dai N*E*R*D non splende, ci fa capire tutto. I Daft si riciclano e riciclano i loro miti, non c’è una fottuta cosa originale in questo album. Il quale però suona abbastanza da Dio.

Assai ispirati certamente i nove minuti di Giorgio by Moroder (già mitologizzati nella rete, ma senza un motivo valido, è un’idea carina cazzo, basta così), impagabile quando la musica si ferma per farci soffermare su questa frase del buon Giorgio:

My name is Giovanni Giorgio, but everybody calls me Giorgio

per poi riprendere con un ritmo tamarro ma riposato. Mi ha fatto sentire bene. Il resto del pezzo lo si dimentica in fretta.

Devo dire che a parte la song che apre le danze, Give Life Back to Music, l’album sembra comporsi da tracce impersonali, che scorrono giù benissimo, così bene che non ti accorgi che il disco è finito e stai dormendo scomposto sulla sedia, sbavandoti addosso come un ebete.

Si salva il finale della Giorgio citata prima, il ritmo di Instant Crush (collaborazione infima, preferisco non fare nomi per  non eccedere negli insulti), la verve di Motherboard (piacevole e anche inaspettata) e la chiara mancanza di idee (però rumorose come mancanze) di Contact.

Un disco dannatamente piatto, adatto per imbroccare una ragazza sulla quarantina.

Però con questo non voglio tacciarlo di merda, di quella ne abbiamo tanta sul mercato, questo invece è un disco dignitoso e piacevole, peccato che suoni tragicamente vecchio.

  • Pro: un funky gradevole.
  • Contro: è più movimentata 4’33’’.
  • Pezzo consigliato: Giorgio by Moroder è divertente, vivace e ha un climax ben costruito. L’unica pecca è, che come tutto il resto dell’album, suoni come una creatura ben pensata, ben assemblata, ma senz’anima.
  • voto: 5/10

Scotch – Evolution

Scotch

La italo disco è un fenomeno complesso, con una storia intricata ed una serie infinita di interpreti, conosciuti perlopiù dagli appassionati del genere.

Un po’ come tutti i sotto-generi la italo disco è una sintesi di ciò che “tirava” ai suoi tempi, ovvero nei luccicanti anni ’80 (credo si intuisca una certa tendenza alla disco music, ve la butto lì), la struttura musicale era ridotta all’osso, e tutta la magia di questo genere si basa sull’uso smodato di sintetizzatori e sequencer. Un delirio vero e proprio di effetti e suoni spesso del tutto casuali.

Molte band italiane venivano dal prog, ovviamente le più tamarre (Circus 2000, Gleemen, tanto per citarne due), tutti gli altri erano perlopiù dj di dubbia capacità compositiva e perfetti signor nessuno accompagnati da produzioni generalmente scadenti.

Gran parte del successo (brevissimo) di questa italo disco fu in Germania, terra dove notoriamente se negli anni ’80 andavi a giro con un sintetizzatore e portavi occhiali dalla montatura rosa shocking eri Gesù sceso in terra, basta vedere la loro sconsiderata passione per artisti come Moroder, Jean-Michel Jarre o i Kraftwerk. I nostri italiani, piuttosto virtuosi nell’uso vigliaccamente glamour del sintetizzatore, ebbero vita facile nelle discoteche tedesche, molto meno in quelle nostrane. Solo successivamente c’è stata una rivalutazione di questo genere, e proprio in questi anni molti giovani si stanno avvicinando con dolce e ingenua curiosità alla scoperta di questo dimenticato fenomeno commerciale.

Per sintetizzare quanto detto basta ascoltare successi (sì, lo sono stati) come Orient Express dei Wish Key, o la altrettanto celebre Forever And One Day dei 93rd Superbowl.

Tra i maggiori rappresentanti della italo disco mi permetto di citarne gli unici due di cui ho ascoltato per intero almeno due dischi (è davvero difficile trovarne a giro, prima di tutto perché prodotti in numero piuttosto limitato, e poi perché credo molti dotati di raziocinio abbiano bruciato le copie in loro possesso) Dean Harrow e i mitici Scotch.

Dean ho scoperto essere una faccia abbastanza conosciuta nel territorio della trash TV italiana (grazie Wikipedia, quando c’è da trovare la merda sei sempre ben fornita). Ha partecipato recentemente a reality show, ha condotto su Match Music un programma dove mandava a manetta discutibili successi degli anni ’80, e si fa vedere in trasmissioni dal forte contenuto intellettuale come Uno Mattina. Come musicista puntò tutto sul suo fisico e una forte caratterizzazione del personaggio ultra-mega-tamarro che portava a giro. Punta di diamante della sua produzione è certamente il video di Mad Desire, uno scempio musicale accompagnato da delle immagini totalmente sconnesse. Scene con lui tamarrissimo che passeggia intervallate da sequenze in cui tira pugni alla camera, o scene di una presunta love story senza alcuna dinamica riconoscibile, c’è pure un momento in cui va al cinema a vedere se stesso cantare (e la sala è vuota!!!).

Gli Scotch sono considerati dagli esperti del genere come una delle vette compositive più alte della italo disco. Fondati dal factotum Manlio Cangelli (fondatore anche dei sopra citati Wish Key) oggi la band la riassumiamo nella figura di Vince Lancini, il cantante.

Vince Lancini è un uomo felice, che ancora oggi riempie discoteche di provincia (molto piccole) con la sua ingombrante presenza (gli è venuta ‘na panza…) cantando su una base da karaoke i successi degli Scotch, una fine che vi assicuro comune alla gran parte delle star di questo sotto genere.

Avevo già ascoltato “Evolution” (1985), erano i primi anni del liceo che passavo principalmente tra i negozi di vinili e le fumetterie; ricordo che stavo cercando un disco dei The Castaways quando il negoziante mise sul piatto il primo disco degli Scotch. In tutto quel rigurgito inespressivo di sintetizzatori mi innamorai irrazionalmente di una canzone, Disco Band, che entrò nel mio cervello per mesi, se non per anni. Mi odiavo ogni volta che le note di quei cinque minuti di puro terrore mi saltellavano in testa, era come se una maledizione mi perseguitasse.

Per esorcizzare questo male sapevo benissimo cosa fare, ma avevo paura. Non puoi, ed è per me un imperativo categorico, parlare male di un disco se prima non lo hai ascoltato. Ma per ascoltarlo bene, per concentrarti davvero su quello che stai ascoltando, lo devi comprare.

Comprare un disco che so benissimo essere un prodotto di qualità scadente e che odierò con tutto me stesso dal primo all’ultimo minuto non è esattamente un gran bel passatempo. Per carità, negli anni mi sono dovuto ricrede più di una volta! Ero tremendamente prevenuto su “Kick Out The Jams” ma dopo averlo ascoltato (bene) divenne uno dei miei dischi preferiti. Ho apprezzato molto “Gogol Bordello Vs Tamir Muskat mentre ho trovato odioso “Uncle Meat (ed io adoro Zappa). Anche quando parto prevenuto, o positivamente o negativamente, l’ascolto per me è quanto il più possibile (s)oggettivo, se è una merda è una merda, chiunque l’abbia fatta.

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Beh, ora l’ho comprato.
La copertina, come potete vedere, è oltremodo brutta, c’è questo tipo primitivo-jamaicano che passeggia con uno stereo in spalla seguito anche nel retro da dei dinosauri visibilmente perplessi, disegnato come se fosse una specie di murales messicano.

Non è un caso dunque che il disco cominci con Primitive Man. Suoni che rimandano esageratamente al trash made in ’80, come se Calvin Harris si fondesse con Wang Chung. Nel suo trash non si può comunque apprezzare il tentativo melodico, poteva certamente risultare molto più tamarro. Poi comincia a cantare il nostro Vince. Purtroppo. I suoi versi – chun’ tangatagatun ah! – misti a testi obiettivamente poco ispirati si sovrappongono alla inamovibile struttura del pezzo, completandosi nella più totale inutilità. La traccia sfuma senza aver mai sviluppato niente, come se l’avessero troncato a metà «dai belli, ‘sta roba dura troppo, passiamo al prossimo pezzo!»

Take Me Up fu un successo, anche se faticate a crederlo, è così. Riassunto efficace di una serie di sonorità che riempivano le discoteche dei mitici ’80 quando ormai il 33 giri di Donna Summer del dj di turno si era oltremodo consumato. Il ritornello allegro e simpatico rimanda a tutta quella simpatia forzata che le major imposero nella musica degli anni ottanta, mentre Gang of Four, Pere Ubu, i primissimi Talking Heads analizzavano nuovi aspetti della nostra società tramite le loro innovative prospettive, ma anche in chiave diciamo “disco” (prendiamola larga) c’erano Frankie Goes To Hollywood, Eurythmics, o il già citato Moroder che comunque sviluppavano tematiche più complesse e una musica più ricercata (non sempre, ma vabbè). Anche questo pezzo sfuma senza alcun sviluppo degno di nota.

Si arriva sconfortati a Man In The Man (ambiguetto il titolo), linea melodica nulla, si nota la presenza di un sintetizzatore (ma và!) e il testo che lascia il tempo che trova. Si cerca, essenzialmente, di trovare un sound, una soluzione musicale che non esige certamente nulla da se stessa, niente di più ricercato di molta spazzatura che passano in discoteca oggi quando finiscono li dischi di Boyz Noize e Tiga. Sfumato, di nuovo, sul nulla.

Born To Kill, potrei giurarci, sembra scritta con Music 2000 (vecchio gioco della Playstation) tenta di dare una nota scura all’album, ma a noi ci basterebbero un paio di note decenti. Il testo non l’ho capito, forse per ignoranza, forse perché scritto con la tecnica del cadavere squisito, non lo so, comunque ecco un frammento delle liriche:

My devil, I, I’m so crazy
Yes desperation, no soul
Shake your tongue
Push around your stone
Born to kill the queen of the earth

Aggiungeteci anche una serie di suoni a caso e un assolo di chitarra sul finale (!), che poi, ineluttabilmente, sfuma, troncando anche questo pezzo.

Si arriva al lato B che si apre con Komburn [non ho trovato un link su You Tube, forse c’è su Spotify], un minuto inutile. Davvero.

Ed è così che ci apprestiamo a  gustare un altro successo degli Scotch, Delirio Mind. Non so, e mai credo vorrò sapere, se questo pezzo è stato scritto con l’intenzione di essere davvero una canzone di disco music seria, oppure come una tristissima parodia. Morirò con questo dubbio. Dopo una prova vocale di Vince (mi sono alzato in piedi con le mani in tasca per non prendere a pugni il disco) il pezzo si sviluppa sulla solita linea melodica e ritmica tutta uguale, con delle digressioni farneticanti, credo che il fine ultimo di questa traccia sia provocare un esaurimento nervoso nell’ascoltatore. Ci sono dei momenti in cui il sintetizzatore tira fuori dei suoni degni della colonna sonora di un film di Barbie. Il finale, stavolta compiuto, non ha senso, ovviamente.

Si passa a Loving Is Easy/Evolution. Le prime note sembrano quelle di un pezzo dei Justice suonato da una band di quattordicenni. Forse amare sarà anche facile, ma scrivere canzoni decenti per Margutti (c’è nei credits, non so chi sia, in questo pezzo c’è anche un tale J.Less, qualcuno ne sa qualcosa?) e Lancini sembra davvero una impresa impossibile.
Una tamarrata rara questa canzone, una perla di indecenza musicale preziosissima se volete sconvolgere i vostri amici, uno dei massimi apici che il trash abbia mai raggiunto. In finale “orgasmico” poi una roba che nemmeno i Troggs più arrapati (perdonatemi di aver messo una delle mie band preferite vicino a questi mentecatti).

E così, con immensa fatica, siamo giunti al mio incubo. Eccola, eccola davanti a me, ecco Disco Band.

Un successo inspiegabile seguì questa canzone, coronata di uno dei video più brutti (se non proprio il più brutto) della storia. Guardatelo, poi riprendiamo:

Nell’album questa cosa dura anche di più. I testi facciamo finta che non esistano, roba che fa sembrare Gioca Jouer una poesia di Ungaretti. Ma la musica? Davvero si può ballare una cosa del genere? E come si balla, come nel video? Ve la immaginate una discoteca piena di invasati che vestiti da rasta-dottori e ingessati doloranti che ballano al ritmo di questa roba? Forse la musica fa schifo, ma lo spacciatore di Margutti e Lancini era un Dio della droga, potete scommeterci il culo. Ok, non resisto, ecco il momento più aulico del testo:

Running down with me
My sailor
Smiling high with you
My cirriots
Smiling high with me
My radio
Baby
You’re my really disco band

Ma che cavolo vuol dire? E quando Vince ricomincia con i suoi versi da menomato tipo rangadadagadagadu!  cosa sta esprimendo, a parte un progressivo deperimento del suo stato cognitivo?

Ultimo pezzo: sono salvo. Losing In Time spicca per una certa ricercatezza della melodia, una prova compositiva certamente insperata dopo una sequenza micidiale di nulla assoluto. Mi prudono le mani mentre l’eclettico e tamarro sintetizzatore fa il suo dovere, ma non posso comunque far finta di nulla, questa canzone non è del tutto orribile, ha un senso, va bene che suona come la base per un Canta Tu, e forse il fatto che segni la fine di questo album che me la fa apprezzare di più, non lo so neanche io ormai. Chiaramente il pezzo ricicla i suoi due-tre strofe senza ritegno per quattro minuti, e finisce in uno sfumato che spezza (sì, di nuovo) un discorso musicale comunque ben avviato.

La prima parola che mi viene a mente è: incompleto.
Va bene, forse non la prima, e neanche la seconda, ma diciamo la prima che non sia una imprecazione. Il disco è incompleto, nessuna traccia viene sviluppata degnamente (a parte Deliro Mind e Disco Band) la povertà compositiva è lampante, l’unica nota che emerge è l’uso del sintetizzatore, caratteristica principale della italo disco, sai che roba.

Non spendeteli questi soldi ragazzi, sul serio, non ne vale la pena. Compratevi un libro, un disco di Ty Segall, un pacchetto di preservativi, qualcosa di utile insomma, ma non questa roba. Nel caso siate degli appassionati di trash a 360 gradi invece uscite subito di casa, oppure andate su eBay, e comprate questo disco. Dopodiché potete morire felici.

  • Pro: io odio questo disco.
  • Contro: tutto, praticamente tutto.
  • Pezzo Consigliato: Delirio Mind è il lato oscuro della musica.
  • Voto: 1/10