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Rodriguez – Cold Fact

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Gun sales are soaring, housewives find life boring
Divorce the only answer smoking causes cancer
This system’s gonna fall soon, to an angry young tune
And that’s a concrete cold fact.

Rodriguez, This Is Not a Song, It’s an Outburst: Or, The Establishment Blues, 1970

Quando nel 1998 uscì “Dead Men Don’t Tour: Rodríguez in South Africa 1998” il documentario che testimonia la gloriosa tournée di Rodriguez in Africa non erano ancora in molti in occidente a conoscere uno degli album più belli degli anni ’70 e del folk rock in generale.

Ma nel 2012 con il nuovo documentario sulla sua vita: “Searching Sugar Man” e l’oscar nel 2013, “Cold Fact” di Rodriguez diventa un caso musicale senza precedenti.

Dava le spalle al pubblico Rodriguez, non cercava di certo lo show, a lui interessava solo la musica e la protesta sociale. Vicino politicamente agli strati sociali più bassi a cui appartiene fieramente, sarà per tutta la vita un attivista in prima linea, ma nell’America degli anni ’70 che vedeva bene il bianco Bob Dylan, un tizio dal nome così messicano che inneggiava a qualche rivalsa sociale non è che si attirasse chissà quali simpatie, né era facilmente sponsorizzabile dall’etichetta che se lo era ingaggiato.

Tutti gli addetti ai lavori ci credevano: Rodriguez era un fenomeno unico, anche meglio di Dylan per alcuni, sarebbe scoppiato. Ed invece non successe nulla, o almeno: nulla negli USA.

Ed è infatti in Sud Africa dove i primi due album di Rodriguez conosceranno un successo assoluto, divenendo ben presto il musicista rock più ricercato in tutto il paese. La sua musica ma sopratutto i suoi testi saranno il simbolo della lotta anti-apartheid, ma solo grazie ad un giornalista Rodriguez verrà a sapere di tutto questo polverone attorno ai suoi dischi, e solamente nel 1998 (!), mentre i soldi delle vendite erano ormai spariti chissà dove.

Quest’uomo che tutt’ora viva nella sua umile casetta a Detroit, senza nemmeno il riscaldamento, aveva già trovato la felicità nella sua semplice vita, e oggi regala pochi ma intensi concerti in giro per il mondo per poi lasciare il ricavato alle figlie e agli amici più stretti.

Un uomo vero, di quelli che mettono gli ideali davanti alla strada più facile, affamato di giustizia e di buona musica.

Quello che colpisce di “Cold Fact” è che riesce a prendere il meglio di Dylan e dei Love con un pizzico di Donovan senza mai strafare, sebbene alcune strane idee nella registrazione tutto sembra perfetto così com’è, un Classico senza tempo di cui pochissimi erano a conoscenza.

I testi sono forse la parte migliore, intensi, maturi, commuoventi nella loro commistione di realtà e poesia, è come se la Detroit degli Stooges e degli MC5 invece che urlare dalle casse ci venisse spiegata sommessamente non da una dirompente rock star, ma da un operaio qualunque, anche se con la magia e la saggezza della voce di Rodriguez.

Sugar Man, il pezzo che apre “Cold Fact”, si basa su una delle melodie più riuscite di sempre, mischiata ad impressioni lievemente psichedeliche. Segue la più intraprendete Only Good for Conversation, certamente la più rock di tutte le sue composizioni, è pezzo di apertura della sua recente live al Glastonbury Festival dell’anno scorso.

Indimenticabili le note e le parole di Crucify Your Mind, Inner City Blues, Like Janis, Rich Folks Hoax, Jane S. Piddy, straordinario il tono dylaniano di The Establishment Blues, incredibile I Wonder un singolo che normalmente si penserebbe dal successo assicurato, ed invece nascosto negli anni a discapito di tanta merda riscoperta da critici annoiati. L’unico pezzo che mi lascia delle perplessità all’ascolto è Gommorah (A Nursery Rhyme), forse il più posticcio e meno espressivo.

Un disco che non è possibile recensire senza apparire dei perfetti idioti, l’immediatezza e la genialità di Rodriguez non hanno bisogno che di queste parole: uno dei migliori dischi album folk rock di tutti i tempi.

Pro: non ha difetti, ogni pezzo è indimenticabile.
Contro: se non ti piace Dylan e il cantautorato americano che cazzo lo compri a fare? Per poi insultarmi sul fatto che ti fa cagare? Bella storia!
Pezzo Consigliato: Sugar Man tutta la vita.
Voto: 8/10

Come mai lo strano titolo “Dead Men Don’t Tour“? Dovete sapere che il buon Rodriguez fu creduto morto per tantissimi anni nei modi più assurdi (tra cui il darsi fuoco durante una live), le varie false notizie che sono venute fuori nel corso degli anni sono dovute molto probabilmente alla mancanza totale di notizie sull’artista, dato che in Sud Africa e Australia era così ben conosciuto non si capacitavano come non potesse esserlo proprio in America!

Suck – Time To Suck

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– Guarda che ‘so un gruppo sud-africano con le palle!
– Non lo metto in dubbio, anche le cover presenti sembrano gustose, però vorrei ascoltarlo prima. –
– T’ho detto che c’ho il piatto sfasciato, dai gesùmadonna, te lo fo’ a quindici euro, ed è pure origgginale. –

Era un po’ che non rimpinguavamo la sotto-categoria “buttare i soldi dalla finestra”, e credo che qualche consiglio al non-acquisto possa solo giovare alle tasche altrui.

In realtà “Time To Suck” (1970) è una mia vecchia conoscenza, tre anni fa stavo in fissa per i Freedoms Children, band hard-psych-rock anni ’70 sudafricana, e un tizio, quello del dialogo riportato come incipit del post, ascoltando i miei deliri su questa band mi consigliò i Suck, coevi e connazionali dei Children.

Quanto sono stato coglione.
Già dal titolo e dal nome della band avrei dovuto dedurne le caratteristiche, eppure quando mi prende una fissa sono piuttosto predisposto alle inculate.

In questi tre anni ho incontrato molta gente che conosceva questo album (ma nessuno che lo possedeva materialmente) e i giudizi erano piuttosto inconciliabili. O proprio li odiavano oppure li amavano con moderazione.

Bisogna dire in difesa di questa band anch’essa hard-psych-rock (che significa: riffoni alla Mountain mescolati a tinte psichedeliche alla Move-Donovan) che alla fin fine “Time To Suck” non è per niente un disco di merda. È solo un disco sbagliato.

Essendo “Tempo di succhiare” un album principalmente di cover è costretto a rivisitare dei classici rock in modo originale. Se non ci riesci stai semplicemente suonando un pezzo scritto da un altro amigo.

Per alcuni i Suck ci riescono, per me invece il disco è una straordinaria parodia dell’hard rock. Un monumento trash alla pari di “Glitter” di Gary Glitter o “Bananas” dei Deep Purple.

Per riuscire a provare piacere da questo album bisogna essere feticisti di quel sound ad un punto tale da non avere più coordinate razionali per giudicarlo. È la totale estasi sessuale che acceca i sensi e il cervello, altrimenti non si spiegherebbe perché Joe Satriani riesce ancora a vendere le ristampe di “Crystal Planet”.

Si apre con Aimless Lady dei Grand Funk Railroad e già c’è tutto. Virtuosismi vocali, passaggi veloci e un sound così hard da sembrare taroccato. Tutto troppo esasperato per poter passare per una cosa seria.

Si passa veloce ad una breve, confusa e a tratti leggermente delirante, versione di 21st Century Schizoid Man. Il livello è quella della classica band prog italiana che coverizza il successo rock del momento.

L’unico vero gioiello è la posata Season Of The Witch del buon Donovan, sentendola mi sono chiesto come sarebbe stata une versione dei nostrani Metamorfosi.

Assieme a qualche cover di Free, Colosseum e un’altra dei Grand Funk (con un attacco di chitarra formidabile), c’è posto anche per i Deep Purple e qui si va nel trash storico. Mitica e scandalosa versione di Into The Fire che così si unisce alla ben più nobile trashata (il riadattamento del testo è epico) dei Vocals: Il cuore brucia.

Che dire, se siete storici dell’hard rock e volete avere tutto, ma proprio TUTTO questo discone è imprescindibile. Stesso discorso se siete dei perversi feticisti del trash made in seventies. Se invece cercate un buon album hard rock anni ’70 rivolgetevi ai Mountain o a qualche band più competente.

  • Pro: è sempre interessante poter ascoltare in che modo gli impulsi del rock americano siano arrivati ovunque, e con quali conseguenze nel sound.
  • Contro: non riesco a smettere di ridere mentre ascolto War Pigs*. È più forte di me. Ma non il ridicolo (malpensantidi’stocazzo) ma per il tono allucinato del cantante e le percussioni sconclusionate.
  • Pezzo Consigliato: cazzate a parte, Season Of The Witch ha più di una buona idea.
  • Voto: 4/10

*ATTENZIONE, la delirante versione di War Pigs è contenuta soltanto nella nuova riedizione in CD, non nel LP originale!

White Fence – Cyclops Reap

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Prenoto “Cyclops Reap” del buon White Fence più o meno una settimana fa. Sentivo il bisogno di un po’ di sana psichedelia.

L’Università occupa da qualche giorno qual gran salone vuoto del mio cranio, e fa un casino della Madonna. Cazzo, mi sono sparato a mille “Slaughterhouse” di Segall perlomeno cento volte, ma niente gesùd’amoreacceso, il cervello è impappinato alla grande.

Mi dicevo: devi scrivere una sudicia recensione, hai un blog per quello, non puoi lasciarlo marcire e baggianate varie. Così mi sono messo ad ascoltare un sacco di roba a rotazione, ma niente di cui valesse la pena parlare.

L’altro ieri sono sceso in garage alla ricerca di qualche disco o musicassetta dimenticata, ho tirato fuori dall’oblio certa merda che nemmeno vi sognate: dagli Incubus ai Red Hot è uscito di tutto, tutta quella roba che per un motivo o per un altro in camera mia non ci entra nemmeno se butto giù tutte e quattro le pareti.

Più cercavo di concentrarmi più vagavo senza meta.
Ieri sono uscito per andare in fumetteria, una cosa che non facevo da almeno due anni (e ho la fumetteria sotto casa!). Ritornare in quel posto speravo mi sconquassasse un po’, desideravo una sorta di reminiscenza cosmica, ricordarmi di quando ero quattordicenne e coglione, e invece niente, assolutamente niente.

Per entrare nella fumetteria devi prima passare dal benzinaio di fronte, dove lavora il proprietario. Uno scambio veloce di gesti esplicativi e ci capiamo subito, prende le chiavi e mi apre. La fumetteria è piccola, appena sei dentro vieni disorientato da mille colori acidi, l’odore della carta si mischia a quello della benzina, le luci si rifletto sulla plastica protettiva che ti divide dai numeri più costosi e rari.

Ci passavo le giornate in quel posto e ragazzi, sebbene sia davvero un buco, nessuno mi notava più di tanto. Conoscevo a memoria la disposizione dei fumetti in tutti gli scaffali, le loro copertine, gli autori, i prezzi. Lì comprai la prima edizione originale di Watchmen (la prima in volume, vorrei sottolineare), mi costò parecchio potete scommetterci, e oggi non so se rifarei mai una cazzata simile.

Compro il secondo numero de “L’Immortale” di Hiroaki Samura per un’amica e chiacchiero un po’ col tipo della fumetteria. Quello mi racconta un po’ di quanta merda sta collezionando ora che le leggi per le fumetterie stanno cambiando radicalmente. Sapete che adesso nell’arco di un anno devi avere venduto più di quanto hai comprato se no ti chiudono baracca e burattini? Praticamente chi cazzeggia col fumetto adesso si ritrova come il mio amico fumettaro sotto casa, che ha dovuto distruggere un sacco di begli albi e firmare una serie di documenti che lo confermavano a norma di legge per non chiudere. Bella merda.

Tornato a casa trovo White Fence ad aspettarmi.

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È arrivato, ma non so se ho tanta voglia di ascoltarlo.

Lo metto sù tanto per fare qualcosa e mi butto sul letto.

Cyclops parte, ed io intanto me ne sono già andato. Non riesco davvero a concentrarmi in questi giorni, così la prima traccia, Chairs in the Dark se ne va senza che io possa dirgli addio.

Cerco di immaginarmi Fence davanti a me, seduto sulla mia sedia a dondolo che strimpella i suoi pezzi, uno dietro l’altro.

Sento l’odore dell’estete, il mare fermo come un lago e il sole che lascia solo afosi ricordi all’orizzonte. Batte i piedi sulla sabbia Fence, tiene a mala pena il tempo mentre latra come il più stanco dei Syd Barrett.

Appena parte Pink Gorilla perdo il senso del tempo e mi ritrovo in una discoteca vuota, i neon mi illuminano la camicia di un schifoso rosa che non sa davvero di nulla. Fence è ancora lì, stavolta con la sua band (dei coniglietti rosa che suonano palesemente svogliati), appena finisce questa serie di accordi molto The 13th Floor Elevators ritorno in spiaggia.

Un vento leggero si alza, diventa tutto in bianco e nero, finché a metà di White Cat tutto torna odiosamente a colori.

Mi alzo dal letto solo per finire per terra, Fence come un menestrello sotto anfetamine, saltella attorno a me stonando l’impossibile.
Il volume sale e scende, la velocità sembra rallentare per poi riprendere a correre, il disco sembra fermarsi di colpo, la puntina sembra piegarsi ma Fence la riprende per un pelo e tutto scorre come prima.

Sono in mezzo ad una strada, mi fulminasse Beefheart se non è quella di “Help!”, il film dei Beatles che ho rivisto qualche notte insonne fa. Fence però non fa il cazzone come quei quattro scarafaggi, lui se ne sta seduto in mezzo alla strada che suona Only Man Alive, una palla massacrante, ma quando se ne va?

Su Run by the Same mia madre bussa alla porta di camera mia << devi buttare l’immondizia >> mi dice, o così ho capito, le rispondo che finisco di sentire quest’ultima traccia e vado.

Le chitarre si mescolano, Dylan, Donovan e Barrett stanno suonando tutti assieme, ma che ci fanno ancora qui? Non mi sembra abbiano nulla di nuovo da dire. Ora basta: prendetevi Fence che se ne sta lì steso a terra, non lo posso vedere in questo stato! Ecco, andatevene, ho un sacco di cose da fare qua…

Se solo trovassi la giusta concentrazione…