Etichetta: Lepers Productions
Paese: Italia
Anno: 2023
Archivi tag: dots
DOTS – Weekender Offender
Mi sto dimenticando di aggiornare il blog non per pigrizia ma per gli impegni nella vita reale. Aggiornerò in questi giorni per chi ancora non mi segue su YouTube, intanto beccatevi questa rece dei mitici DOTS e rompete.
Podcast – Dots, Rawwar, Centauri, Ty Segall
E allora sì cazzo. Puntatona di Ubu Dance Party, l’unico podcast di rock underground che non le manda a dire. A meno che non mi ritrovi a letto con l’influenza (odio l’influenza). 3 album italiani uno meglio dell’altro e una feroce stroncatura al Biondo che fa impazzire il mondo.
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Rawwar, Thunder Bomber, Thee Oh Sees
Tre recensioni toste di roba che ho ascoltato di recente, avrei voluto mettere qualcosa in più ma è stata la settimana di merda per eccellenza.
RAWWAR – cassetta
Intanto c’è Tab_ularasa, il che ci piace. Poi ci sta Zulfux dei Dead Horses e dei mitici For Food, ci metti anche Doctor Dead del Trio Banana e il rischio di trovarti di fronte ad un album di soli rutti e scorregge diventa quasi una certezza. Ed invece questi tre simpaticoni decidono di fare la cosa più semplice del mondo: divertirsi assieme. Certo, di solito quando uno si diverte risulta anche allegro, invece per i Rawwar evidentemente passare del tempo assieme spassandosela equivale al produrre del garage blues maledettamente abrasivo.
Di solito nel punk così come per il fratellone garage si parla di rabbia in termini creativi, e quando pensi al garage blues se proprio non sei un depravato ti vengono subito in mente gli Oblivians e gli anni ’90. Direi che è normale, no? Ma in questo specifico caso, nelle tre canzoni cagate fuori da quello immagino essere stato un pomeriggio freddo e insipido, c’è più rancore che rabbia (e più noise che garage blues anni ’90).
Nelle liriche il tema del luogo in rapporto al soggetto (andare-muoversi-allontanare) non è affrontato con il piglio intellettualoide di certo punk (non sempre negativo eh, penso agli Alley Cats), questo è un punk senza anthem, un garage senza giri orecchiabili, potete percepire i Pussy Galore ma senza il loro tiro infernale, non c’è nemmeno una melodia trasognate alla Centauri, tre pezzi e nemmeno un accenno di piacevolezza. L’ho trovata una cosa profondamente bella.
Fra l’altro mi sono innamorato di Going South, c’è un riff che ricorda la furia micidiale degli Oblivians ma si perde in un mare di rumore asettico, un pezzo che deflagra per poi raggrumarsi come una ferita adolescenziale. 11/10
THUNDER BOMBER – LOOKING FOR TROUBLE
Al contrario dei loro amici Dots i Thunder Bomber fanno del tiro un espediente più hard rock. Ok, forse non mi sono espresso in italiano, volevo dire che laddove nei Dots c’è una vena quasi pornografica nel rapporto tra funky e punk, i Thunder Bombers sono più i Sonic’s Rendezvous Band senza l’ombra degli Mc5 addosso (molto meglio, eh?). L’energia che scaturisce da ogni singolo pezzo, a metà tra Rocket From The Crypt e Nashville Pussy, rende “Looking For Trouble” un album decisamente da viaggio o da scazzo, ma che ho paura di dimenticare con la stessa facilità con cui passo da una pinta all’altra al pub.
Adesso cerco di fare mente locale, anche se in realtà arrivo da una settimana in cui mi sono scervellato all’inverosimile per una recensione de Il Girello (opera buffa della seconda metà del seicento), e anche perché Luca è stato gentile a contattarmi senza insultarmi come nel 90% delle mail che ricevo, e infine perché “Looking For Trouble” non è certo una merda, per cui vediamo se riesco a mettere in ordine i miei pensieri da bravo recensore provetto:
COSA MI PIACE Questa è facile, hanno un tiro micidiale, i pezzi anche se non sono particolarmente originali nella composizione mi sembrano molto schietti e con quella sincerità rock ’n’ roll alla Nashville Pussy che ogni ci vuole. Francamente non sopporto più l’heavy metal e l’hard rock da molti anni ormai, non che questo album sia heavy nel senso stretto della parola, però di solito queste sonorità mi fanno incazzare, stavolta no. Sarà perché invece di essere la solita band derivativa di Deep Purple o Led Zeppelin questi prima di tutto si divertono come i matti, e vaffanculo a tutto il resto.
COSA NON MI PIACE È un mio problema ragazzi, non sopporto più gli assoli. Sapete no quelli belli muscolari che arrivano telefonatissimi sulle tibie e ti spezzano le gambe? Mi sembrano eccessi steroidei da palestra, non ne posso più di sentire la solita struttura che si prepara ad ingravidarti senza consenso con l’onanismo del chitarrista di turno. Non ho niente contro il chitarrista dei Thunder Bomber, sia chiaro, va come le palle di fuoco come dicono nel Valdarno, per cui se vi piacciono le sbombardate siete sui lidi giusti. Io preferisco i Crime.
E con questo è tutto. Anzi no.
THEE OH SEES – A WEIRD EXIT
Eccoci al duemillesimo disco dei Thee Oh Sees, una band che in vent’anni (più o meno) ha azzeccato tre album che nel modestissimo avviso di questo blogger spaccano i culi e cagano in testa a qualsiasi stronzata in copertina su Rumore. Il resto della loro discografia… meh. Però dai, ci piazzano sempre qualche assolo alla Barrett, la sezione ritmica alla Cluster/Can/Faust, ma è dal 2013 che non fanno un album decente per il sottoscritto.
Sentite, non me ne frega un cazzo, le ultime robe di Dwyer sono davvero imbarazzanti, vi possono pure piacere per carità, anche perché la band sebbene i cambi di formazione dal vivo è una cosa splendida e lisergica, però “Drop”, lavoro incensato dalla critica e dai blogger hipsteroni è davvero un’accozzaglia di idee riciclate e laccate all’inverosimile. E anche quello dopo, com’era… ah, sì: “Mutilator bla bla bla”, originale come la Coca-Cola della Coop. Il vero problema della band è che l’ultimo cambio di formazione ha sputtanato la compattezza del sound e la sua forza distruttiva a 33 giri, e anche la creatività sembra scarseggiare.
E quindi “A Weird Exit”? Intanto diciamo che c’è ancora Tim Hellman dei mitici Sic Alps, che stavolta non fa la fighetta e pesta duro su quelle quattro corde, poi ci sta il buon Paul Quattrone (dei sopravvalutati !!! di Sacramento) e un tale Dan Rincon che assieme riesumano la sezione ritmica a doppia batteria, potente tanto quanto quella leggendaria di Lars Finberg e Mike Shoun. Ma al netto della potenza e di qualche cosina nuova “A Weird Exit” è solo un buon album e niente più, anche se rischiava di essere un capolavoro del calibro di “Carrion Crawler/The Dream”.
Gli accenni sabbathiani (Gelatinous), il loro garage psych delirante ormai marchio di fabbrica registrato (Dead Man’s Gun), è tutta roba già sentita negli album precedenti con poche variazioni, e questo fa incazzare. Ovviamente è roba buona, ci mancherebbe ragazzi, ma l’abbiamo già sentita nei quattromila album precedenti! I momenti migliori sono sicuramente i due pezzi più dilatati e sperimentali: Jammed Entrance e Crawl out from the Fall Out, una botta di vita che – devo essere sincero con voi, non mi aspettavo nemmeno per un cazzo. C’è persino l’influenza dei migliori Brian Jonestown Massacre nella finale The Axis, forse uno dei pezzi più affascinanti nella loro intera discografia. Però… non c’è troppo da dire in realtà.
Sembra che Dwyer si sia ormai normalizzato, tutti gli elementi che rendevano i Thee Oh Sees un gruppo unico nel panorama garage mondiale, tra i più seminali di sempre e con non pochi proseliti, ormai sono diventati rassicuranti tappeti sonori balsamici, accomodanti muri di suono privi di qualsivoglia necessità. Certo è che qualche guizzo quest’ultimo album ce l’ha, e anche di un certo capriccio ecco, per cui non vendiamo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.
https://open.spotify.com/user/micolash90/playlist/47PY2PDY9uePxoJm34bqBI
DOTS – Hanging on a Black Hole
Etichetta: Rude Soul Records Paese: Italia Pubblicazione: 11 Settembre 2016
Proprio adesso, in questo preciso momento che sto scrivendo in treno sul mio taccuino, mi sta risalendo un gusto di Sprite e salsiccia cruda in sù per l’esofago e mi girano moderatamente i coglioni, per cui, invece di fare quello che dovrei fare per trovarmi un lavoro in questo mondo, eccovi una recensione.
I DOTS non so da dove vengono, non mi sono informato molto, in realtà non mi sono informato per niente, perché sono sempre su un treno e senza la possibilità di collegarmi ad internet, non so nemmeno come si chiamano davvero ‘sti stronzi, però una cosa ve la posso dire: “Hanging on a Black Hole” è una delle cose più belle uscite in Italia in questo 2016. Se per “bello” intendiamo poco meno di un quarto d’ora di funk e punk mescolati con ignoranza, rabbia e con un tiro della Madonna (bisogna essere elastici al giorno d’oggi). Lo giuro su Iggy Pop, Isaac Asimov e Asa Akira ogni qual volta ho messo sù questa roba e dalle cuffie è partita a fuoco Black Hole, tutta la merda della giornata è scolata giù, giù fino nelle fogne più profonde di qualche film anni ’80, lo stesso lurido posto dove pescano gli album da recensire per Rolling Stone.
Sarà una mia fissa, ma per me la rabbia nel punk è auto-ironia (anche), senza un po’ di quella sei solo un pretenzioso stronzetto che, col minimo della tecnica richiesta per non sembrare Daniel Johnston, strimpelli qualcosa alla Chuck Berry ma distorto. Ovviamente qua siamo su altri lidi, il mio voleva essere un esempio, ma tanto non ci si capisce mai su internet, il fatto è che i DOTS nel loro essere esilaranti non sono dei coglioni, e ci provi anche un certo gusto a canticchiare le loro canzonette mentre aspetti il bus nell’ora di punta, o qualcosa del genere.
Che pezzo Brain Damage, ma personalmente mi esalto verso il finale di questo Hanging on, con il trittico Figure It Out, Hot Couvered Shoulders e Breaking The Law, in particolare il secondo pezzo, semplicissimo ma potentissimo, se i primi istanti fossero più indecifrabili e progredissero con più calma trovando una loro compostezza (alla Beefheart per intenderci) per poi deflagrare in quel ritornello a cazzo duro, ecco sarebbe tipo uno dei miei pezzi preferiti di sempre da ascoltare in viaggio, al bar, al cesso. Per ora lo è solo in viaggio.
Non so quanto sia voluto, ma dalla qualità dell’ingegneria del suono messa in campo direi che abbiano registrato tutte le otto tracce nel mio garage, di nascosto e pure di fretta, il che di per sé nell’epoca del lo-fi non mi stupirebbe più di tanto, anzi ormai tendo ad infastidirmi non poco quando ascolto robe come gli Hot Lunch (quelli da Pitcairn, non quelli hard-glam di San Francisco), ma per il sound dei DOTS ci sta a pennello, me li rende più simpatici e cazzoni.
In un mondo ideale i DOTS sarebbero sul Rolling Stone di questo mese, con l’articolone da otto pagine in cui non fanno altro che insultare un giornalista troppo fesso per capirlo, la foto in copertina scattata mentre sorreggono la testa a uno di loro che sgotta sull’entrata del nuovo locale che li ospita, probabilmente per suonare davanti a dieci stronzi come La Piramide Di Sangue quest’anno a Prato al No Cage, ma con la foga e la risolutezza di chi suonerebbe allo stesso modo al Madison Square Garden come nei bagni del liceo artistico.
Che merda di recensione.