Etichetta: Body Crash
Paese: Italia
Anno: 2023
Archivi tag: dreamsalon
Ausmuteants – Order of Operation
Is there any shared creed, code, ideal or mantra that the band shares or lives by?
No fat chicks.
Vi piace il synth pop? Allora adorerete fino allo sfinimento gli Ausmuteants, pochi cazzi e fine della recensione.
No? Davvero? È che c’avrei da studiare per gli esami, da comprare le diciotto bottiglie di rosso per il poker di sabato e… e vabbè, prima il dovere poi la lussuria.
Direttamente dall’Australia (o almeno credo) gli Ausmuteants sono tra le quelle band che invece di guardare ai sixties si sta interessando agli eighties. Mentre i Dreamsalon riscoprono Pere Ubu e Fall, mentre i Corners si sfondano di Gun Club e synth punk, mentre i Nun risciacquano nel pop gli immortali Einstürzende Neubauten, questi pazzi Ausmuteants sono una sorta di Devo dei tempi moderni, solo che invece di addobbarsi come un albero di natale e professarsi cultori di una filosofia spicciola buona solamente per riempire le note dell’album, questi sono davvero fuori di testa.
Sebbene i suoni ricordino quelli degli ottanta più synth questa band è radicata nel suo tempo e il loro terzo album uscito quest’anno è senza troppi giri di parole un fottuto capolavoro, dove la follia dadaista è sinonimo di informazione (quella schizofrenica di internet), dove il porno non è più trasgressione, dove è inutile parlare di de-evoluzione ma piuttosto di de-personalizzazione progressiva del soggetto.
“Order of Operation” è uscito a Settembre per la Goner e la Aarght Records, polverizzando di fatto tutta la scena garage, che dopo questo album sembra talmente fuori luogo da provocare un sincero imbarazzo anche a chi, come me, la adora anche nelle sue sfaccettature più ridondanti. La copertina richiama ai moderni manuali di istruzione per PC, con una fotocopiatrice in bella vista, eppure il senso di distacco del bianco-nero-grigio e quel suono così sintetizzato e freddo, nelle loro mani diventa pura furia punk.
Capisco che Bertoncelli consigli di non recensire più i singoli pezzi, ma come cazzo fai quando ti trovi di fronte a qualcosa di talmente paradossale come Bolling Point, dove il feedback degli Stooges e il ritmo ballabile dei Talking Heads si mescolano come cioccolata in polvere e latte, o forse no, o forse questi Ausmuteants sono veramente l’unica novità in una anno dove le riviste rock cercano nuovi spunti nell’elettronica, nella dubstep, nell’alt pop (che definizione di merda) o nei nuovi album di cinquantenni/sessantenni che ormai hanno dato tutto a tutti, tranne al fisco.
Quando parte Freedom Of Information non sai bene se stai ascoltando degli scapestrati dal CBGB o degli artistoidi da SoHo, ma poi le liriche ti riportano ad un mondo più reale, perché è quello che hai intorno mentre la ascolti.
Furia e demenzialità si incontrano in We’re Cops, una specie di hardcore punk suonato da dei Devo impasticcati, oppure sentite come le atmosfere dark dei Nun che si possono ritrovare nei primi istanti di Family Time vengano spazzate via dalla chitarra post punk di Shaun Connor o come direbbe Jake Robertson «fake synth punk», è meraviglioso come gli Ausmuteants riescano a declamare slogan senza senso o parlare di disgrazie (tra cui il suicidio) mantenendo sempre un’allegria nevrotica, è come ascoltare dei commenti su Facebook interpretati da David Thomas!
Quanto sono potenti e poetici i due minuti scarsi di Wrong? La poesia non è nel testo ma nella commistione tra testo e musica, proprio come nella diametralmente opposta Felix Tried To Kill Himself (composta mentre Robertson rifletteva sul proprio suicidio guardando La Strana Coppia di Gene Saks), proprio non mi spiego come facciano questi pazzi a riuscire a mantenere una così geniale tensione fra ritmo e liriche per tredici tracce, non rallentano mai, non si stancano, riescono sempre a trovare una melodia (o un rumore) dannatamente interessanti ed a incastonarci le parole giuste, non importa che sia un testo descrittivo o semplicemente casuale, l’effetto è sempre lo stesso: armonia.
Come si può realizzare in modo innovativo un classico pezzo stile inno punk come 1982? Ma è chiaro: con quel sound piatto del synth di Jake Robertson, quella chitarra pulita ma incazzata di Shaun Connor, la sezione ritmica garage punk di Marc Dean (basso) e Billy Gardener (batteria) sembra tutto banale e innovativo allo stesso tempo, non sai mai se gli Ausmuteants ti stanno prendendo per il culo oppure stanno facendo della fottuta arte inconsapevolmente.
C’è una importante evoluzione dall’esordio (“Slip Personalities”) e dal secondo album omonimo dell’anno scorso. Nel primo pagavano una certa sudditanza ai grandissimi Chrome, regalandoci comunque momenti notevoli (Blood Nose ha un giro di synth che mi fa impazzire), nel secondo i pezzi raramente superavano i due minuti e l’estetica alla Kraftwerk (troppo distaccata) ogni tanto veniva fuori, certo c’erano i Kinks (Bad Day è una geniale versione non-riesco-a-suonarla di You Really Got Me) e perle punk geniali come No Motivation, ovvero quello che gli Hives non sono riusciti ad essere in vent’anni di carriera in una sola canzone. Ma sopratutto Shaun ha preso in mano i testi e i concetti, elevando la band da semplici cantori delle solite stronzate (sesso, droga e rock and roll) a dissacratori delle stesse, rimescolandole, denudandole e contestualizzandole come poche band o forse nessuna, prima.
– Va bene – diranno i più rompicazzo – tanta roba, però non sono mica i Goat con le loro atmosfere anni ’70 e le influenze nordiche-mistiche-tribaleggianti-alt-rock, perché dici che ‘sti sgorbi hanno prodotto un capolavoro? – Perché quando quando dei ragazzini che hanno come copertina su Facebook una loro foto con indosso delle tette finte, tirano fuori un album così, dove si scoprono gli automatismi e la schizofrenia dell’informazione e della parola nei nostri giorni, allora SÌ, quella è arte.
Non so se ho sbattuto la testa troppo forte, ma dopo una settimana di ascolto “Order Of Operation” mi sembra sempre più bello, sempre più incredibile, sempre più un capolavoro del garage rock contemporaneo.
La citazione all’inizio dell’articolo, e le altre sparse a giro, le ho prese in prestito da questa bella intervista alla band dal mitico blog It’s Psychedelic Baby, ve la linko QUI.
Che si fa ora, ce li spariamo un paio di video? Massì, dai…
Perfomance in studio di Felix Tried To Kill Himself:
Live di Freedom Of Information, con alla voce Shaun Connor (il pezzo d’altronde è suo):
Dreamsalon – Soft Tab
Torna il trio di Seattle con un secondo album davvero intraprendente. Perse le melodie garagiste del primo con quei rassicuranti giri alla Kingsmen, i Dreamsalon si concentrano sul lato psych(osis) della loro musica, mostrano i muscoli ed una tecnica meno raffazzonata, uno spirito demolitore e un sound clamorosamente intrigante.
Al primo ascolto due settimana fa “Soft Stab” mi sembrava molto più confuso di “Thirteen Nights” il loro discreto esordio (in realtà lo avevo bellamente bollato come “merda fumante”), ma dopo due o tre ascolti coadiuvati da del rum scadente e pasta salvaeuro della COOP ho cominciato a carburare.
‘Sti gran cazzi, vuoi vedere che “Soft Tab” è un gran bell’album? Sragionati, decostruiti con un rock ritmico alla Feelies ma radicato nella scena garage, nessuno strumento predomina mai sugli altri e la densità del suono non satura eccessivamente l’ambiente (quindi allontanandolo da velleità shoegaze), i pezzi poi sono tutti ispiratissimi e ognuno con qualcosa di diverso da dire.
Sentite come tira la sezione ritmica di Don’t Feel Like Walkin’, le sferzate della chitarra surf che esplode in un’ondata di feedback, più la chitarra viene distorta e più viene fuori un lato “crampsiano” prima di adesso insospettabile, la voce di Chamber mai così vera, così punk.
Non credo ci sia un pezzo debole in questo album rivelazione, adoro il modo in cui le canzoni “crescono” d’intensità senza sfruttare i cliché classici, come in Skin, mantenendo la tensione sempre altissima ma riuscendo a non stancare mai.
Forse anche il cambio di etichetta ha giovato, dalla Captcha Records si sono portati appresso l’esperienza garage psych, ma hanno lavato il sound nelle acque della Sweet Rot Records, rendendolo meno caldo e più alienante.
Mi sono definitivamente innamorato della chitarra di Craig Chamber, che già nell’esordio aveva espresso tutte le sue coloriture, e si conferma anche con questo album tra i miei interpreti preferiti del momento, mai alla ricerca di protagonismo, deturpa lo spazio stuprando quelle cinque corde con sadica efficacia. Il basso di Min Yee conferma la sua natura infernale, profondo come quello di Geezer Butler in “Paranoid” ma ritmico come Peter Dammit nei momenti migliori dei Thee Oh Sees. Su Matthew Ford alle pelli c’è poco da dire, picchia come un dannato e ci piace così.
Quando parte l’album sembra quasi una performance dei Battles, con quella Walkin’ Past My Dreams così lontana da questa terra, una linea di basso hardcore punk, la chitarra che ad un certo punto perde contatto con la realtà e la batteria a fare il lavoro sporco di mantenere intatta quella nervosa struttura.
Ecco, è un album nevrotico questo “Soft Stab”, così nevrotico da rievocare a tratti gli immensi i Pere Ubu (Animal), così nevrotico da sembrare l’unico album davvero contemporaneo, che lascia uscire il lato più spigoloso del garage rock, e non la banalità dei riferimenti classici o la presunzione di certe ultime uscite (“Manipulator”, “MCII”, “Drop”). Giorno dopo giorno i Dreamsalon scavalcano tutti i miei dischi e diventano il primo ascolto al mattino e l’ultimo… beh, al mattino.
La title track è un capolavoro, uno di quei pezzi che dovrebbero mandare in radio a rotazione finché non ti si stampa nel cervello. Soft Tab è un singolo perfetto, una hit d’altri tempi, un colpo di genio in mezzo a tanta buonissima musica, e che viene ripresa nel finale con Soft Tab II, non una continuazione della prima parte, ma una versione più gotica e disturbata, la chitarra di Chamber che imita Tom Herman e io che godo come un furetto mentre mi mangio gli spaghetti della COOP incollati sul fondo della pentola.
Si sono largamente superati Yee e compagnia, questo secondo affresco è molto più virtuoso e profondo del precedente, una geniale perla new wave che si unisce a “Maxed Out Of Distractions” dei Corners e forse presagisce ad una nuova riscoperta del rock americano anni ’80.
Lo vendono a soli 9 dollari su Bandcamp, quindi poche scuse!
- Li volete i link, vero? Bang: clicca con orgoglio QUI se vuoi ascoltarti l’album in streaming, se invece vuoi insultare la mamma a Chamber clicca QUI per la pagina Facebook della band!
Craig Chamber è chitarrista e voce dei Le Sang Song.
Ming Yee suona il basso nei Le Sang Song e la batteria nei Universe People.
Matthew Ford suona la batteria nei YVES/SON/ACE.
Froth – Patterns
Froth? Ma che roba è?
Intanto una breve premessa sulla Burger Records.
Nel caso non la conosceste la Burger Records insieme a Drag City e Castle Face Records fa parte delle etichette californiane protagoniste del revival garage di questi anni. La Burger in particolare è la classica etichetta rock indipendente, una quantità inimmaginabile di band esordiscono con quel marchio a forma di cheesburger ogni anno, delle quali se ne salvano sette o otto all’anno.
La tattica di saturare il mercato solo di garage rock in tinta psichedelica ha un che di eroico, ma alla lunga sfrangia i coglioni.
Mentre la roba del loro catalogo intasa ogni angolo di camera mia ogni tanto spunta fuori una band veramente degna di nota. Ecco, i Froth sono tra questi.
Giovanissima band californiana piena di energia e acidi devastanti, con del talento che potrebbe in prospettiva portarci degli album notevoli, anche se questo album d’esordio, “Patterns” (2013), non è ancora un capolavoro.
Chitarra, voce e di un carismatico JooJoo Ashworth, al basso Jeremy Katz, Cameron Allen alla batteria e Jeff Fribourg… beh, lui suona l’omnichord.
Il loro garage non è rabbioso né acido, è trasognato, basta ascoltarsi la dolce nenia psichedelica di Oaxaca per apprezzare a pieno il loro sound così leggero da librarsi in aria. Una via di mezzo tra Mr. Elevator & The Brain Hotel e i primi indimenticabili Brian Jonestown Massacre, la chitarra e la voce di JooJoo sono il collante della band ed è l’elemento che viene subito colto quando “Patterns” scorre veloce sul piatto, la puntina non deve nemmeno abbassarsi troppo nei passaggi “eterei” che JooJoo strimpella in Not Myself.
I pezzi forti comunque sono quelli più psych garage, quanto sarà dannatamente accattivante Lost My Mind? Quante altre band avrebbero voluto scriverla? Dreamsalon, Thee Oh Sees (ai tempi di “Castlemania”), gli stessi Mr. Elevator & The Brain Hotel, magari pure i Quilt. I giri sixties dell’omnichord, le accelerazioni proto punk che fanno tanto Nuggets, sono elementi propri anche di General Education, altra perla di questo album.
Date un’occasione ai Froth, potreste non pentirvene.
- Link Utili: per ascoltare l’intero album su Bandcamp clicca QUI, per dirgli quanto vi attizzano su Facebook cliccate QUI, se volete consultare il catalogo della Burger Records cliccate vigorosamente QUI.
Dreamsalon – Thirteen Nights
La Captcha Records è un’etichetta davvero interessante, dopo averci regalato i messicani Has a Shadow con quel capolavoro di “Sky is Hell Back” passiamo ad una band certamente meno interessante ma non per questo banale.
I Dreamsalon sono una novità nel panorama garage psych, ma di quelle buone. Vengono considerati una specie di Violent Femmes in salsa psichedelica, il che ci pone delle premesse niente male (oltre che a della aspettative pericolosamente alte).
Qualche EP nel 2012 e tanta gavetta, poi nel 2013 esce “Thirteen Nights”, la prova che Seattle non è più un luogo isolato ma fa parte di una rivoluzione sixteen che imperversa in tutti gli States.. Una volta le scene musicali erano legate ad uno stato o addirittura ad una città (perché anche l’hardcore ha vissuto più stagioni legate a diverse città), adesso con internet le distanze si sono accorciate, le idee scorrono più velocemente, e il sound californiano imperversa anche in Canada (Pack A.D.) come in Messico (i già citati Has a Shadow), e quindi anche la grunge Seattle (alla quale ormai va giustamente stretto il grunge) diventa una assolata costa californiana, dove si suona surf rock tra bikini e birra ghiacciata.
Probabilmente “Thirteen Nights” è uno dei prodotti meno banali recentemente usciti, lo ancora di più è se messo in confronto a band più fortunate come gli Audacity o quel fumo di paglia di Jacco Gardner.
Il garage psych dei Dreamsalon spazia tra chitarre che ricordano Dick Dale e le sfuriate di feedback alla Ty Segall, le cavalcate sul basso di Min Yee sono infernali e ammalianti, Matthew Ford calpesta la batteria per poi accudirla esaltandosi in dei passaggi jazz-rock, Craig Chamber a quella chitarra gli fa fare di tutto, la pizzica, la fa urlare, la fa ronzare, la distorce devastandone il suono per poi fare il verso a Syd Barrett (l’unico e incontestabile padrino del rock contemporaneo). Credo sia sempre Chamber a cantare, ma non ho trovato molte informazioni su questa band quindi la butto lì.
Ci sono pezzi davvero notevoli, il giro di basso ipnotico di On The Bus che sfocia in un rabbioso garage punk, il suono avvolgente di Lick o il delizioso riff di Get To Work uscito fuori da un “Nuggets” perduto. C’è pure spazio per la sperimentazione con Every Man, Woman, And Child, punta di diamante dell’album.
Boh, non che altro dirvi, quantomeno ascoltatelo su Bandcamp, questa amici miei è roba che scotta.
Un esordio notevole, un sound già riconoscibile ed un pezzo come Every Man, Woman, And Child che può solo portare lustro alla Captcha Records.