Con un ritardo mai visto prima e che è al limite del ceffone sul viso, eccovi la 10° puntata di Ubu Dance Party, il vostro podcast preferito! Vi assicuro che stavolta ascoltarci sarà come andare sulle montagne russe, dal blues alla psichedelia giapponese, weird-garage e drone, robe da farvi intrippare di brutto.
Vi ricordo che Ubu Dance Party è in diretta tutti i MARTEDÌ alle 21:30, potete ascoltarci QUI oppure sulla pagina Facebook di Radio Valdarno! (anche se questo martedì credo proprio si andrà in onda alle 18:30, perché DJ Lorenzo ha da giocare alla play)
Sì, la solita CAZZO di immagine sfuocata tipica di band shoegaze, drone e noise.
Fatevi avanti ora nel sacro cerchio della dea, giocando nel bosco in fiore, voi che prendete parte alla festa divina. Io vado con le fanciulle e con le donne dove c’è la veglia in onore della dea, a reggere la fiaccola sacra.
Aristofane, Le rane, Teatro di Dioniso, Atene , 405 a.C.
Nel 2012 mi imbattei in una band assolutamente fuori dai miei schemi con un nome altisonante e inquietante, li stava ascoltando il proprietario del mio spaccio di vinili preferito, il negozio era invaso da questa musica esoterica, e per quanto ci provassi non riuscivo più a ricordare per qualche dannato disco fossi entrato con venti euro in mano. Ipnotizzato da quell’andamento da messa pagana comprai quello strano manufatto. Era “Tebe”, l’album d’esordio de La Piramide Di Sangue i quali occuparono il mio stereo per parecchie settimane.
Rimasi in trance per un bel po’, come Sheri Moon mentre ascolta il disco dei Lord in The Lords of Salem, e cominciai una disperata ricerca di altro disco così particolare, che avesse quei suoni e quell’atmosfera, fu allora che mi imbattei in un album dalla cover magnetica. Rappresentava un oscuro pianeta proveniente da una qualche strana dimensione, era “Urania” di una band che non avevo mai sentito nominare: Architeuthis Rex.
Per un attimo ho sudato freddo. Cazzo, ho pensato, vuoi vedere che Antonius Rex è tornato e vuole sfornare altra merda? Forse avevo tra le mani “Neque semper arcum tendit rex” parte seconda e non lo sapevo?
Mi ci volle un po’ per scoprire che erano un duo (e che non erano i nuovi Jacula) e che erano Antonio Gallucci e Francesca Marongiu (più eventuali collaboratori) l’unica cosa di cui ero certo era che la loro musica sembrava provenire da un buco nero.
Naturalmente chiamare un album “Urania” non può che far balzare alla memoria di un italiano Arthur C.Clarke, Isaac Asimov, Lester del Rey, Rockynne, Sturgeon, insomma la fantascienza nella sua epoca d’oro, ma lo space rock drone di questa band si lega bene all’oscurità di Robert A. Heinlein, ai suoi misteri, ai suoi mostri immondi e incomprensibili.
La prima cosa che mi venne in mente ascoltando gli Architeuthis Rex fu “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream, praticamente l’opposto ideologico alla concezione di kraut o space rock dominata dalla drone di “Urania”. L’album del 1971 che si rifaceva ai suoni cosmici dei film della MGM negli anni ’50, era un volo interstellare a bordo del Bellerofonte prima di atterrare su quel pianeta proibito. Ecco, se “Alpha Centauri” rappresenta il prima gli Architeuthis Rex rappresentano lo sgomento successivo, i mostri dell’inconscio.
“Eleusis” è il loro ultimo album, uscito a gennaio dell’anno scorso, dove l’Hammond e il Farfisa non ricordano per niente i giri garage della darkgaze di Has A Shadow, perché le tastiere per Gallucci servono a modellare lo spazio e non per creare melodie, mentre le percussioni tribali ci trasportano dal cosmo di “Urania” ad una terra ancestrale ma vicina a noi. Sebbene ci siano punti di contatto con gli Eternal Zio della Boring Machine, questo duo sembra più legato al black metal ambientale in tinta kraut (in una intervista Gallucci cita gli Aluk Todolo) che alla scena psichedelica.
Il mito dei misteri eleusini è il filo trainante dell’album, non ho ben capito se è un concept sul ratto di Persefone o sullo svolgimento dei riti misterici. Immagino sia importante fino ad un certo punto, perché è la circolarità il vero concetto di fondo ai misteri eleusini e al mito di riferimento, l’idea che ogni cosa ricominci, e che non ci sia morte senza rinascita.
L’album si apre con Hades una vera e propria discesa verso gli inferi che culmina nella potente Eleusis, la rivoluzione nel sound (prima cupo poi estatico) è simboleggiato da quel seme di melograno che Persefone accetta dalle mani di Ade (Pomegranates), fino alla estatica visione di Ecate (Triple Goddess). I riferimenti sono molti, potremmo anche scorgere del sotto testo (l’Ade come la morte, il melograno antico simbolo di fertilità, Ecate come un nuovo giorno e quindi la rinascita, e poi mi viene un gran mal di testa come al solito), è un viaggio completo quello di “Eleusis”, dove curiosità, paura, sgomento, speranza ed estasi si percepiscono distintamente, vi è tutto il mistero della vita umana.
La potenza evocativa di questo album lo rende uno dei prodotti più interessanti degli ultimi anni, gli aspetti esoterici qui sono un po’ più maturi che in altre band della così detta psichedelia occulta, i suoi segreti non sono mai pienamente svelati ma solo accennati.
Mentre con “Sette” i La Piramide Di Sangue proseguono un discorso multiculturale cominciato con la noise da Porta Palazzo (“SUK Tapes ad Sounds from Porta Palazzo”, album seminale composto da vari artisti uscito un anno fa) Antonio Gallucci esplora un suono meno descrittivo e più evocativo.
Se nel suo progetto parallelo denominato throuRoof Gallucci si diverte a riempire lo spazio con una shoegaze ambientale quasi del tutto avulsa dalla realtà, così aliena da annoiarmi a morte (ma magari potrebbe piacere a ernecron! [n.d.a.: ok, rileggendola mi è sortita male, è vero]), con Architeuthis Rex le idee prendono forma, non necessariamente una forma ben definita, ma è proprio questo il bello alla fine.
L’esperienza sensoriale non è una auto-celebrazione e non c’è mai un virtuosismo (nemmeno concettuale) buttato là senza un senso, piuttosto c’è un controllo incredibile sul suono e sulle emozioni/riflessioni che può far scaturire. È un album che si lascia commentare, che ha bisogno di essere condiviso per essere compreso (seppur sempre in minima parte).
Concettualmente sono molto vicini ai Mai Mai Mai in quel «noise profondamente umano» (citando Antonio Ciarletta nel numero 191 di Blow Up), ma per quanto mi riguarda “Eleusis” è la punta di diamante della psichedelia occulta italiana. Almeno per ora.
Link utili alla popolazione: se volete ascoltarvi gratuitamente questo gioiello allora non abbiate dubbi a cliccare QUI per la pagina Bandcamp, se volete far sapere alla band quanti capelli vi si sono rizzati ascoltando Eleusis a tutto volume cliccate QUI per la loro pagina Facebook.
E ora, come ci piace a noi, qualche video al Tubo:
Sono ormai settimane che ascolto “Drop” volenteroso di scriverci sù una recensione decente, ma non è facile.
Sicuramente, come i miei lettori affezionati sanno bene, molto è dovuto dalla mia palese incapacità di scrivere recensioni comprensibili. Ma ci amiamo lo stesso. Credo. Comunque non è questo il punto, il punto è che questo “Drop” è davvero un album controverso per la band californiana per eccellenza.
Probabilmente si parla dell’ultimo lavoro in assoluto per i Thee Oh Sees, ed io mi aspettavo i fuochi d’artificio per l’occasione ed invece…
Beh, partiamo da una constatazione troppo poco ribadita, se non proprio volutamente censurata, in molte recensioni: questi non sono i Thee Oh Sees. L’unico nome che accomuna il penultimo album “Floating Coffin” a questo è quello di John Dwyer, il deus ex machina della band, ok, ma dove sono finiti gli altri?
Non è un caso se quindi “Drop” è un miscuglio indefinibile di Thee Oh Sees, Coachwhips e gli esperimenti solisti di Dwyer, con un pizzico di White Fence, ma invece di essere un mix delizioso come vodka e frutti di bosco questo è più come uno di quei frullati di Maurizio Merluzzo.
Senza Lars Finberg alla batteria i ritmi restano blandi, manca la voce acida di Brigid Dawson e ovviamente la furia al basso di Petey Dammit a dare corposità ad un suono etereo e francamente soporifero. In compenso c’è un sassofono baritono (Casafis) e un sassofono contralto (Mikal Cronin? Sul serio? Ora può pure rubarmi il nome del blog!) che non sfigurano.
Piuttosto apprezzabile The Penetrating Eye, un pezzo vecchio scuola, mentre già con Encrypted Bounce i nodi vengono al pettine. Non c’è potenza né coinvolgimento, la canzone in sé non è una merda, ma non c’è il mordente di una Sweets Helicopters o di una Maria Stacks.
Savage Victory per esempio rientra nei canoni estetici, ritmici e melodici che contraddistinguono il sound dei Thee Oh Sees, ma è davvero lontano dagli standard con cui la band ci aveva abituato.
Forse l’acuto dell’album arriva alla fine del primo lato con Put Some Reverb On My Brother, un pezzo ispirato dall’enfant prodigeTim “White Fence” Presley, che mescola bene la psichedelia soft del primo con il sound di Dwyer. Mi piacciono i cambi di velocità e quel ritmo da disco rotto, quantomeno la posso ascoltare senza distrarmi un secondo sì a l’altro no.
Divertente il surf garage di Drop, inutileCamera (Queer Sound), mentre è davvero strana The King’s Nose. Sì, lo so, “strano” è un termine esageratamente tecnico. Intendo dire che è una roba a metà tra l’indie dei Raconteurs (vi prego, prendete questa affermazione con le pinze, non fracassatemi i coglioni) e i Thee Oh Sees ma in generale si può dire che non sa di un cazzo.
Il primo minuto e mezzo di Transparent Worldconia un nuovo genere, la porn-drone. Lascio a voi le dovute conclusioni.
Si finisce con The Lens, una prova di assoluto spessore per Dwyer per quanto riguarda la costruzione di un pezzo più appetibile per un mercato diverso dai festival psych garage. Si parla del pezzo più “pop” dei Thee Oh Sees, ma è quantomeno un lavoro quadrato, beatlesiano al punto giusto lasciando Syd Barrett come padrino spirituale degli album precedenti, qui dimenticato.
Il problema principale di questo album dei Thee Oh Sees è, come dicevo, che non è dei dannati Thee Oh Sees. Dwyer poteva benissimo farsi un progetto parallelo, come ne ha già fra l’altro, e pubblicare questo album senza infangare l’ottima discografia della sua band più famosa.
Una delusione su tutti i fronti, un album poco più che mediocre.
Lo Consiglio: se proprio adori John Dwyer ci sono comunque due o tre spunti interessanti.
Lo Sconsiglio: a tutti, sopratutto a chi vorrebbe approcciarsi per la prima volta a questa ottima band. Ascoltatevi “Carrion Crawler/The Dream” (2011), “Floating Coffin” (2013) e “Castlemania” (2011) piuttosto.
Fanno shoegaze su ritmiche garage rock in salsa low-fi e drone, vengono da Guadalajara in Messico, le loro copertine sembrano concepite da un Odilon Redon dada, si fanno chiamare Has a Shadow e spaccano decisamente i culi.
Le impressioni sonore di “Sky is Hell Black” tramortiscono e sono meno banali di quanto possano sembrare ad un primo ascolto. I giri di basso di Victor “Remi” Garay sono adattissimi per una band drone, la voce dall’oltretomba e l’organo esoterico di Daniel Graciano delineano lo spazio (mentre conduce le semplici variazioni della drum machine), Rodolfo Samperio aggiunge un pizzico di melodia con la chitarra elettrica e ovviamente la distorsione. Musica e testi di Marciano e Garay, testi che si proiettano in questo vastissimo spazio sonoro con una potenza simbolista di rara efficienza.
L’album si apre con John Lennon, il ritmo serrato di drone, garage e shoegaze si mescolano con le liriche (I’m a ghost /I’m the key /of your existential fiction /I’m a ghost) ma siamo ancora lontani dalle vette che seguiranno.
La title track presenta il primo vero giro di organo riconoscibile, giri che diverranno un leitmotiv di “Sky is Hell Black”, un elemento fortemente garage magnificamente in disaccordo con i muri sonori darkeggianti e i testi. Il ritmo rilassato di Don’t apre alla parte più intrigante del disco.
Can’t Stop the Fall si presenta come un pezzo rubato a dei ipotetici demo di John Dwyer per “Floating Coffin” (2013), la chitarra di Samperio raggiunge acuti che spezzano la trama sonora per poi ricongiungersi come in un loop.
La trama musicale May Never avvolge l’ascoltatore, le immagini suggerite vanno dalla solitudine al bisogno di una ricerca, ma l’esperienza sonora si congiunge con Drive doveun riff portentoso si erge tra le complesse stratificazioni sonore (roba che avercene in “m b v” dei My Bloody Valentine!) completando un quadro musicale meraviglioso.
Una intro garage o addirittura surf rock per Poison In Me, l’organo di Graciano continua a sviscerare giri garage perfetti, ma siamo ancora lontani dallo standard o dalla classicità se volete, qui i generi sono perfettamente mixati, si può tranquillamente dire che gli Has a Shadow fanno scuola a sé. Ci sono pure i cazzo di coretti, eppure col cavolo che sembra una di quelle banali ballate uscite fuori dal secondo album di Mikal Cronin o dal revival barrettiano di Jacco Gardner, siamo lontani anche dal garagedrone di Thee Oh Sees o di “Slaughterhouse” di Segall, è proprio un altro pianeta.
The Way continua sulle stesse ricette sonore finora proposte, mentre il ritmo dark di Untitled di avvicina più ai Joy Division (permettermi la licenza di questo accostamento).
Grazie alla californiana Captcha Records questo album si è fatto strada tra le band di Los Angeles provocando non poche ripercussioni, prima tra tutte lo splendido sound delle L.A. Witch di cui presto riparlerò in una recensione a loro dedicata.
Per quanto mi riguarda “Sky is Hell Black” è uno degli album più belli dell’anno appena passato, il tempo magari lo riscoprirà come un capolavoro, o forse lo dimenticherà del tutto, eppure questi Has a Shadow già da qualche anno sperimentano la loro darkgaze smuovendo le coscienze di chi ascolta, intanto io cercherò di recuperarmi il più possibile, voi cominciate pure da questo album, non ve ne pentirete.
Lo Consiglio: se ti attizzano i My Bloody Valentine e A Place to Bury Strangers ma li vorresti più dark e cattivi hai appena trovato il santo Graal.
Lo Sconsiglio: se lo shoegaze ti fa ogni volta alzare dalla sedia per controllare che la puntina sia ancora lì, se a Odilon Redon preferisci sempre e comunque una più comprensibile scuola veneziana del settecento allora questo album non fa per te. Davvero.
Link Utili: bene carissimi se volete ascoltarvi TUTTO l’album non avete che da cliccare QUI, se volete dire alla band che avete avuto un erezione ascoltando “Sky is Hell Black” cliccate QUI per la pagina Facebook, mentre se volete saperne qualcosa di più sul catalogo della Captcha Records non avete che da cliccare QUI.
E ora, come di consueto, qualche video:
Videoclip di Drive.
Bruttissimo videoclip di Sky is Hell Black (ma almeno potete sentì il pezzo).
Non hanno nemmeno pubblicato un solo sudicio album, eppure mi fanno impazzire.
Quando una band unisce garage, punk, psichedelia e metalsenza fare un pastrocchio (o della fusionpseudo-intellettuale) per me vuol dire che ha le carte in regola.
Il ritorno progressivo al garage “esoterico” (e passatemela, dai) alla Nuggetspartito dalla California non è semplice revival o una moda. Lo sta certamente diventando, basta considerare la sterzata commerciale di Mikal Cronin o la nascita di nuove band copia-incolla come gli Hot Lunch (quelli dalla Pennsylvania non quelli glam metal da San Francisco) ma la furia del rock autentico, fatto di sudore e feedback, resiste strenuamente alla base.
Queste band non sono mosse come nei ‘60s dalla voglia di spiccare il volo seguendo il nuovo sogno Beatles (sarà stato almeno il 96% delle band), o magari proprio contro la distopia Beatles (vedi iMonks), perché oggi non c’è un modello o un nemico, oggi si combatte contro il nulla.
Sono un trio gli Zig Zags, voci acide, chitarre distorte che spaziano dall’hardcore punk fino agli Spacemen 3, batteria spesso martellante, ipnotica. Cosa c’entrano con questa guerra al grande nulla di mia totale invenzione?
Quando la politica repressiva di Reagan negli USA si fece pesante l’hardcore sembrava l’unica risposta possibile (anche contro la plastica zuccherosa che radio e televisione di stato promulgavano), ma in quel caso c’era un nemico da combattere e non c’era nemmeno troppo tempo per pensarci sù. Si imbraccia una chitarra e si registra con gli amici in garage o nella palestra della scuola, era vero rock perché spesso ignorava le regole base per suonare decentemente, facevano le cose così come venivano, lasciandosi trascinare dalla rabbia che a quel punto divenne forma. Per questo molti album del periodo sono straordinari, perché trascendono la fruibilità per accettare la sostanza, non c’era una ricerca estetica a priori nel tentare di riprodurre la sensazione di repressione, ma era questa stessa a visitare le band e a farsi strada nelle pessime registrazioni di buona parte della produzione hardcore.
Il garage contemporaneo, quello senza un nemico ben preciso, trova la sua dimensione ideale nell’interiorità. Non denuncia, semmai ammalia con brusche virate drone e un abuso di ritmi martellanti, costruendo un muro di rumori lancinanti quanto rassicuranti.
Ty Segallè un po’ il ragazzo di città che ha voglia di sfogarsi, mette sul piatto buona musica ma senza chissà quale profondità, i Thee Oh Seessono la band che hanno sondato meglio finora le possibilità di questo nuovo garage sprofondando nella psichedelia, gli Zig Zags, a mio modesto (modestissimo) avviso saranno quelli che lo eleveranno definitivamente.
Unione ideale tra le jam catastrofiche e anarchiche degli Harh Toke, meno puerili dei Criminal Hygiene, restando nella classica forma-canzone gli Zig Zags combattono questo vuoto che ci circonda senza lasciare un attimo di respiro all’ascoltatore, e lo fanno con una propria personalità.
“10-12” è una raccolta uscita in un numero limitato di musicassette e in formato digitale su Bandcamp, sono spizzichi e bocconi di una band in fase di crescita, dove non mancano le banalità come i colpi di genio.
C’è ovviamente una buona parte di garage punk senza pretese (se non quella della fruibilità), parliamo di Randy, Tuff Guys Hands, Turbo Hit (gran bel singolo, fra l’altro), Down The Drain, Eyes, I Am The Weekend, No Blade of Grass, che poi altro non sono se non la base che sorregge la struttura sulla quale gli Zig Zags svilupperanno il loro sound dal 2012 ad oggi.
Ma il ritmo, la distorsione, quell’helter skelter autistico che inconsapevolmente è la risposta alla desolazione quotidiana (vuota ormai di qualsivoglia senso e futuro) si trovano in Human Mind, Love Alright, Scavenger e Monster Wizard. E aggiungiamo a questo elenco anche la recente Voices of the Paranoid, una versione disillusa e acida dei Thee Oh Sees.
Probabilmente sono in errore nel contestualizzare una musicassetta composta perlopiù di banale garage punk in un discorso così ampio e difficile da decifrare quali sono i nostri tempi, la contemporaneità. O forse no. Fatto sta che qui non si sente la mancanza del Vero Genio come negli album di Ty Segall (sempre in equilibrio tra convenzionalità e grande rock), o quella di una opera davvero compiuta nei Thee Oh Sees (anche se con “Carrion Crawler/The Dream” ci sono andati vicino), la strada che hanno imboccato gli Zig Zags sembra una di quelle che lasciando il segno, se non nella musica quantomeno in chi la ascolta.
Lo Consiglio: a chi sta amando questa California e i suoi protagonisti, ma anche a chi cerca del punk decente o della psichedelia d’annata senza per forza cadere nel revival.
Lo Sconsiglio: a chi crede siano una band per intellettuali (anche se dalla mia recensione sembrano potenzialmente la band preferita da Heidegger), a chi cerca nel punk qualcosa di più Clash piuttosto che della fottuta psichedelia.
Link Utili: per la pagina Bandcamp clicca QUI, per l’altra recensione che ho scritto sulla band invece QUI.
[I lettori attenti si saranno accorti che è sono scomparsi i voti e i vari Pro e Contro che mettevo alla fine di ogni recensione. Ho deciso che era meglio così.]
Senza infamia e senza lode, lo collocherei in questo momento della sua carriera tra un Syd Barrett smorto e il più ispirato John Lennon, molto dei contemporanei The Mallard e White Fence e difatti anche lui come questi ultimi fa parte della rinascita (se mai c’è stata una “morte”) della psichedelia americana che ha sede fissa in California.
Jeffrey Novak è praticamente sconosciuto in Italia se non per la sua parentesi Cheap Time, mediocre tentativo di unire glam a garage come un tempo. Questo tizio rinasce in tempi recenti lasciando perdere definitivamente la vena glam (davvero, faceva schifo) e lasciando il garage ai vai Ty Segall e Crystal Stilts (che è in buone mani, fidatevi), protendendo per una psichedelia spicciola.
Lontano dalla magnificenza spesso dichiaratamente masturbatoria dei The Black Angels, lontanissimo dalla potenza e dalla genialità diThee Oh Sees e Zig Zags, è certamente più affine alla forma-canzone alla White Fence, ma se il caro Fence è comunque ancorato ad un concetto (forse) un po’ posticcio della psichedelia, Novak dal canto suo è molto vicino all’ultimo Barrett del ’70, il che perlomeno ci fa capire che il ragazzo assume dosi di rock ben tagliate.
In soldoni il tizio ci sa fare e nel 2012 pubblica questo “Baron In The Trees” (credo ispirato in parte al celebre romanzo Il Barone Rampante di Italo Calvino, che se non avete letto siete brutte persone) che finalmente sono riuscito ad acquistare ieri, e che intende essere un po’ la summa del percorso di Novak e forse la prova della sua definitiva maturazione.
Quest’anno è uscito “Lemon Kid”, ma, ehi, appena avrò il grano vedrò di procurarmelo, intanto mi cucco/vi cuccate questo. Novak non è un genio della musica, e di certo non è tra gli artisti di punta di questa nuova ondata garage-psichedelica che mi sta appassionando a livello discografico come niente nella mia vita, la sua psichedelia chiede poco e dà pochissimo.
In Baron la fa da padrone l’acidità di Barrett (presente sopratutto nella performance vocale), ma la musica è molto pop prima ancora che rock. Eppure nella sua confezione abbellita di archi (Parlor Tricks) di rimandi floydiani esagerati, di pezzi impacchettati ad arte (Watch Yourself Go) di hit accattivanti (Here Comes Snakeman) di tutti quelli che invece di prediligere la via più “estrema” della psichedelia, fondendola con drone e garage, si sono buttati su un’idea più melodica e modesta, Jeffrey Novak ne risulta senza alcun dubbio il più gradevole.
Si merita una pacca su una spalla, il tizio.
“Baron In The Trees” per quanto mi riguarda è involontariamente un classico. È un metro, un modulo, come cristosanto posso dire… ecco: un esempio di cosa si è preso dal passato e di come lo si riutilizza oggi negli anni ’10 del 2000.
Al contrario di tutte le band psichedeliche principali di questo momento Novak viene dal Tennessee, più precisamente dalla rigogliosa capitale Nashville, patria del country. E già da qui si può capire come proprio il buon Novak riesca a dare il suo meglio entro i 4 minuti (meglio se 3 o due e mezzo), con poche note ben posizionate, una melodia sempre orecchiabile e il tutto registrato decentemente.
Sebbene sia un po’ più acida la title track che chiude questo brevissimo album (anche troppo, solo 9 pezzi per un totale che sfiora la mezz’ora!) il resto si libra nell’aria con leggerezza e una buona dose di maturità.
Un ottimo passatempo e un simpatico acquisto natalizio. Lo consiglio a chi tra un feedback e l’altro vuole un attimo riposarsi e tenere qualcosa di decente di sottofondo. Non c’è bisogno di ascoltarlo con attenzione, va giù liscio come il vino che comprate al Penny Market, senza infamia e senza lode.
Pro: scrollatosi di dosso il glam e buttandosi in Barrett, Novak ha trovato se stesso e della buona musica.
Contro: nessuna pretesa di alcun genere, un disco che non ha niente da dire.
[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]
Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.
Ho pensato: ci siamo!Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.
Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]
La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).
La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. “Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.
Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.
Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.
Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto. “10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.
Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.
Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.
In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.
Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?
Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.
Pro: la miglior band garage contemporanea.
Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.