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Big Naturals – Big Naturals

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Etichetta: Greasytucker
Paese: UK
Pubblicazione: 2015

With a sound like yours, what kind of shows d’you end up playing?
As long as we’re not pigeon-holed into any genre we are happy to play with literally any type of band or artist, or for anyone to enjoy or hate the music for that matter. I guess we’re just too damn old and jaded to be rockstars.
(da un’intervista della band al Bristol Live Magazine)

Un duo, basso elettrico e batteria, dove il basso può trasformarsi in un urlo come in un sibilo, dove il sound spazia dal kraut rock all’hardcore, dove la batteria da metronomo ineluttabile perde il senso del ritmo (e noi dello spazio), sperimentazione consapevole. In quel di Bristol lo chiamano krautpunk.

I Big Naturals non potevano che nascere a Bristol, e dove sennò, la città con la scena musicale più solida d’Europa dopo Torino con la sua Psichedelia Occulta. Jesse Webb, il batterista, dopo cinque anni a vagare di band in band si unisce al progetto Big Naturals nel 2014, quando il progetto era tutto sulle spalle di Gareth Turner, un bassista al quale le quattro corde stanno odiosamente strette. 

Ascoltare il loro esordio omonimo è un’esperienza totalizzante, sebbene la povertà dei mezzi di registrazione si percepisce eccome la potenza illimitata della loro musica, un flusso interrotto di drone e kraut, con un orecchio verso il garage californiano e le sue devianze europee (Pink Street Boys), la psichedelia c’è ma non la fa mai da padrona, al massimo, come in Neda, diventa parte integrante del flusso senza reminiscenze hippie alla cazzo buttate là per far revival.

Giocano i Big Naturals, con qualcosa che ancora non riescono a controllare pienamente. Islamaphobia è un accenno che dura poco meno di un minuto, eppure si percepisce da questo tutto il contesto: è un album sulla paranoia che ci circonda, sulle paure e le incertezze del futuro mentre il mondo attorno a noi sta cambiando, e non sempre in meglio.

Tribalismi, rituali, misteri, siamo ancora su una sponda europea, l’influenza brtistoliana dei The Heads è presente come quella contemporanea italiana (Squadra Omega, La Piramide Di Sangue, Mombu), ma anche degli americani Shooting Guns e di quel genere di sperimentazione lì, senza contare Can, Faust, Amon Düül II e, come fa notare giustamente SI TRUSS in un suo articolo per Drowned In Sound, i primissimi Oneida.

I Big Naturals vanno contestualizzati in una scena che vede la dub step come padrona assoluta, e mentre parte del metal commerciale e del jazz più avanguardista sono ben contenti di poter dialogare con questo genere, i rocker lo vedono come il nuovo nemico contro cui fare fronte comune (come ai tempi della disco music sempre in Inghilterra, che portò alla Factory e poi alla negazione dell’ideologia punk su cui essa fu fondata). Ma in USA il garage punk sta diventando una barzelletta, la Burger Records sforna sempre più band copia-incolla senza idee e con un sound tutto uguale, e tutti quelli che restano fuori da queste direttive psichedeliche diventano underground nell’underground. Come risponde a tutto questo il duo da Bristol? Con il ritmo kraut di A Good Stalker, con la paranoia fatta musica ed energia.

Ecco, energia, una parola abusata nel descrivere certo rock più veloce o più evocativo, a seconda delle sensibilità, quando invece l’energia è qualcosa di misurabile, di calcolabile. Nel caso dei Big Naturals si può parlare con cognizione di causa di energia intesa come joule, perché la potenza è il mezzo con cui arriva il concetto. Questa non è musica d’avanguardia, non vuole innalzasi nei confronti della scena rock mondiale, piuttosto copia tutto quello che a Gareth Turner sembra essere figo e lo ripropone tutto assieme, come in un flusso di coscienza, come un vomito liberatorio dopo una serata di bagordi e repressione.

Il kraut è presente nel drumming come nelle sperimentazioni con basso, il punk è presente nella sia nella sua essenza nichilista e auto-distruttiva, sia come sguardo disincantato sulla realtà.

Un album mastodontico, di proporzioni incalcolabili, di pura estetica rock, una musica che lascia i suoni evolversi al ritmo del pensiero, delle volte soffermandosi ostinatamente su un particolare, delle altre accennando e basta, ma senza mai fermarsi, come una mente in continuo fermento, come la febbrile paranoia che ci pervade tutti.

Moon Hooch – Moon Hooch

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Questa è la volta buona che mi incazzo sul serio.

Sapete chi sono i Moon Hooch? Beh, un giorno tre studenti della prestigiosa New School for Jazz and Contemporary Music di New York scoprirono di avere un alchimia speciale, due sassofoni e un batterista che non ci sta di testa decisero di fare dubstep senza un cazzo di dj tra le palle. Praticamente la band che dal vivo sta bruciando tutti i palchi di New York da almeno tre anni.

Dinamici, virtuosi, incazzati e schifosamente snob, più suonano e più si spogliano, persi totalmente nella loro musica viscerale e incessante. Bene, a questo punto vi chiederete che ci incastra una mia incazzatura con tutto questo. Facile: l’ultimo album dei Moon Hooch fa cagare.

Oggi recensisco il meraviglioso s/t dell’anno scorso, ma quest’anno è uscito “This Is Cave Music” e dunque parleremo anche di questo obbrobrio (o lo insulteremo e basta).

Questo incontro alchemico tra dub, jazz e house loro la chiamano cave music, grazie al leggendario Mike Doughty (già, quello dei Soul Coughing) diverranno ben presto delle leggende non più dell’underground ma una band capace di infuocare rocker come appassionati di house music.

Secondo una filosofia banale ma geniale al tempo stesso i Moon Hooch si concentrano nel riprodurre la musica normalmente legata a synth e all’elettronica (o ai dj) con una strumentazione più materiale che mai.

Un bel pensiero, abbandonato decisamente in “This Is Cave Music”, dove la band vuole (e lo dice esplicitamente) “sfondare”, tentando di accalappiarsi un pubblico più vasto con della musica proporzionalmente sempre più di merda.

Ma questo non è un ragionamento di pancia, sia chiaro, perché la questione del pubblico vasto e menate varie le ho scoperte dopo aver ascoltato l’album. Ribaltando il concetto con cui i Moon Hooch avevano creato un sound unico ed esplosivo sono diventati banali e ripetitivi, la loro carica live si è persa quasi del tutto e la sperimentazione musicale è diventata sempre più masturbatoria e meno stimolante.

Ma parliamo di “Moon Hooch” e del suo immane casino.

Se le virate del sax in Tubes spaziano dall’anarchia ad un dub veloce e pulitissimo (sostenuto dalla tecnica perfetta di Mike Wilbur e Wenzl McGowen) il drumming nevrotico di James Muschler è un perfetto colante, quando non si scompine del tutto in un dinamismo febbrile come in Number 10. Il suo lavoro di piatti in Number 2 è delizioso, mentre Wilbur si lascia andare ad improvvisazioni al limite e McGowen mantiene la sezione ritmica solida, roba che dal vivo ossigena il cervello, credetemi.

Number 9 è il pezzo d’apertura e anche un po’ la marketta dell’album, energico ma appetibile, un manifesto di un modo di intendere la musica che, quantomeno, cerca di essere originale.

I virtuosismi non mancano mai, come pure le influenze (in Number 1 c’è un che di Raphael Ravenscroft) i momenti dub sono stupefacenti, in particolare quanto si mescolando ad un jazz quasi accademico come in Low 3.

Inutile ma esplicativo della rivoluzione concettuale nell’album successivo la ammaliante Mega Tubes con una tale Alena Spanger alla voce.

I Moon Hooch sono stati una ventata d’aria fresca a New York, del tutto avulsi da una scena in particolare ma con la voglia di crearla con loro e la loro cave music al centro. Peccato che al primo appuntamento per la riconferma abbiano perso il treno, e questo mi fa davvero incazzare. 

  • Link utili: se vuoi goderti gratuitamente questo album spettacolare clicca QUI per la pagina bandcamp della band, se sei comunque curioso di ascoltarti quello nuovo perché magari rientra nelle tue corde clicca QUI, se vuoi mandare messaggini d’amore o d’odio alla band clicca QUI per la pagina Facebook.

E ora, come di consueto, qualche video!

Spizzichi del talentuoso Muschler da solo con la sua batteria:

Godetevi la nuova “estensione sperimentale” portata in tour l’anno scorso: