Per questa recensione mi sembrava doveroso far emergere un giudizio che fosse il più possibile comprensivo di un percorso, quello discografico che i Gezan hanno saputo sempre interpretare polarizzando pubblico e critica. Per cui prendete questo video come un sommario, una breve introduzione critica alla musica dei Gezan con in coda la recensione del loro ultimo discusso album: “Anochi”.
Sapete chi sono i Moon Hooch? Beh, un giorno tre studenti della prestigiosa New School for Jazz and Contemporary Music di New York scoprirono di avere un alchimia speciale, due sassofoni e un batterista che non ci sta di testa decisero di fare dubstep senza un cazzo di dj tra le palle. Praticamente la band che dal vivo sta bruciando tutti i palchi di New York da almeno tre anni.
Dinamici, virtuosi, incazzati e schifosamente snob, più suonano e più si spogliano, persi totalmente nella loro musica viscerale e incessante. Bene, a questo punto vi chiederete che ci incastra una mia incazzatura con tutto questo. Facile: l’ultimo album dei Moon Hooch fa cagare.
Oggi recensisco il meraviglioso s/t dell’anno scorso, ma quest’anno è uscito “This Is Cave Music” e dunque parleremo anche di questo obbrobrio (o lo insulteremo e basta).
Questo incontro alchemico tra dub, jazz e house loro la chiamano cave music, grazie al leggendario Mike Doughty (già, quello dei Soul Coughing) diverranno ben presto delle leggende non più dell’underground ma una band capace di infuocare rocker come appassionati di house music.
Secondo una filosofia banale ma geniale al tempo stesso i Moon Hooch si concentrano nel riprodurre la musica normalmente legata a synth e all’elettronica (o ai dj) con una strumentazione più materiale che mai.
Un bel pensiero, abbandonato decisamente in “This Is Cave Music”, dove la band vuole (e lo dice esplicitamente) “sfondare”, tentando di accalappiarsi un pubblico più vasto con della musica proporzionalmente sempre più di merda.
Ma questo non è un ragionamento di pancia, sia chiaro, perché la questione del pubblico vasto e menate varie le ho scoperte dopo aver ascoltato l’album. Ribaltando il concetto con cui i Moon Hooch avevano creato un sound unico ed esplosivo sono diventati banali e ripetitivi, la loro carica live si è persa quasi del tutto e la sperimentazione musicale è diventata sempre più masturbatoria e meno stimolante.
Ma parliamo di “Moon Hooch” e del suo immane casino.
Se le virate del sax in Tubes spaziano dall’anarchia ad un dub veloce e pulitissimo (sostenuto dalla tecnica perfetta di Mike Wilbur e Wenzl McGowen) il drumming nevrotico di James Muschler è un perfetto colante, quando non si scompine del tutto in un dinamismo febbrile come in Number 10. Il suo lavoro di piatti in Number 2è delizioso, mentre Wilbur si lascia andare ad improvvisazioni al limite e McGowen mantiene la sezione ritmica solida, roba che dal vivo ossigena il cervello, credetemi.
Number 9 è il pezzo d’apertura e anche un po’ la marketta dell’album, energico ma appetibile, un manifesto di un modo di intendere la musica che, quantomeno, cerca di essere originale.
I virtuosismi non mancano mai, come pure le influenze (in Number 1 c’è un che di Raphael Ravenscroft) i momenti dubsono stupefacenti, in particolare quanto si mescolando ad un jazz quasi accademico come in Low 3.
Inutile ma esplicativo della rivoluzione concettuale nell’album successivo la ammaliante Mega Tubes con una tale Alena Spanger alla voce.
I Moon Hooch sono stati una ventata d’aria fresca a New York, del tutto avulsi da una scena in particolare ma con la voglia di crearla con loro e la loro cave music al centro. Peccato che al primo appuntamento per la riconferma abbiano perso il treno, e questo mi fa davvero incazzare.
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E ora, come di consueto, qualche video!
Spizzichi del talentuoso Muschler da solo con la sua batteria:
Godetevi la nuova “estensione sperimentale” portata in tour l’anno scorso: