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La tragicommedia di Kasabian e Black Keys

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È incredibile come si perseveri nel coltivare il cattivo gusto. Perché ad un certo punto l’oggettività perde di significato, l’onestà intellettuale sprofonda dietro tecnicismi (sia di scrittura da parte dei critici che musicali) e si arriva ad accettare tutto passivamente.

Gran parte del rock che viene prodotto su scala mondiale oggi trova dei fruitori appassionati praticamente ovunque, grazie a quel marchingegno luciferino di internet. INTERNET! Lo spauracchio dell’industria musicale! INTERNET! Il terrore che naviga su fibre ottiche! INTERNET! La gioia di poter trovare porno per tutte le stagioni e band per tutti i gusti!

Oggi più che mai il ruolo del critico è necessario, ma oggi più che mai il critico è inutile. Perché esiste questa contraddizione? 

La moltitudine di musica che si può ascoltare da YouTube e dai siti streaming spaventerebbe anche il più hungry degli  appassionati (o il più foolish, ma l’unione delle due cose non fa un CEO di fama mondiale semmai un eroinomane) e delle volte riuscire ad orientarsi di fronte a cotanta offerta non è facile. Allo stesso tempo se ti spunta sotto gli occhi il nome di una band che non avevi mai immaginato che potesse esistere, perché perdere tempo per capire se possa piacerti tramite il giudizio del critico di fiducia se puoi ascoltarli gratis subito?

Ma per quale cavolo di motivo il mestiere del critico è diventato “consigliere della corte regale di Tal dei Tali”? Quello lo faccio io, che ho un blog del cazzo e mi permetto anche di insultare penne di “spessore” come Zingales (ma perché sono un cojone, mentre lui è solo una notevole ciofeca), ma il critico vero, leggasi anche “quelli che scrivono su Blow Up”, non è solo un fido amico a cui chiedi un bel disco per sconquassarti le budella, è un tipo che ha studiato e si è fatto il culo per spiegarti che non sono solo rumori e suoni casuali quelli che escono dalle casse del tuo stereo (o dalle cuffie attaccate al tuo lettore mp3 del cazzo).

Ma che c’entrano Kasabian e Black Keys? Ma la controversia è proprio lì! Due band discrete che troneggiano nei social, su YouTube, e anche nelle riviste che dovrebbero essere l’ultimo baluardo contro la mediocrizzazione (newspeak in libertà) del giudizio. Io m’incazzo quando sono tutti d’accordo, c’è poco da fare.

Sui Black Keys ci spendo di quando in quando due parole, e se le spendo è perché la band mi piaceva e non poco. Ma quando mi sento dire che il salto che c’è tra un “Rubber Factory” (2004) e un “El Camino” (2011) è un evidente segno della maturazione della band io sbarello. Ma come cazzo si può dire che dalla rabbia e dal furore di Grown So Ugly o dal riff di 10 A.M. Automatic una band si evolve con la struttura che urla BANALITÀ da ogni decibel di Little Black Submarine, o quella nenia preconfezionata per MTV di Gold on the Ceiling? Una volta la critica rock bastonava queste stronzate, oggi le appoggia, perché oggi fruibilità è sinonimo di qualità. Puttanate.

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E i Kasabian? Mi dite per piacere quali sono i punti di contatto tra il primo album di Tom Meighan e Sergio Pizzorno e uno qualunque degli Oasis? Questo lo chiedo perché da anni ci fracassano i coglioni con questo paragone costante tra Oasis-Kasabian che sta in piedi giusto giusto per qualche pezzo di “Empire” (2006) e poi crolla ineluttabilmente. Sarà che tutti sanno che le due band si ammirano a vicenda e critici stanchi del proprio lavoro invece che ascoltare con cognizione di causa “Kasabian” (2004) hanno buttato lì due stronzate?

Ma ve lo ricordate “Kasabian”? Un album commerciale, certamente, ma dignitoso, con una ricerca nel sound interessante, naturalmente scontata e banale ma quantomeno personale. Reason Is Treason era un pezzo con i coglioni (ancora di più nella versione “nascosta” dopo U Boat), ma anche i suoni sporchi di Club Foot erano accattivanti. Un album quadrato, tutto d’un pezzo, con una estetica ben definita. 

Poi la rivoluzione, un “Empire” acido, a tratti addirittura acustico, con la sofferta progressione di The Doberman, che qualcuno dovrebbe spiegarmi perchè non vale mille volte la più banale e ridicola Little Black Submarine dei Keys. Ma anche la malinconica British Legion, molto Oasis negli intenti, risulta infine ben più intima di qualunque pezzo degli Oasis, molto più autentica perché meno elaborata. 

Oggi queste due band sono quanto di più lontano dall’interessante ci sia nel mondo musicale. È una tragicommedia quella di Kasabian e Black Keys, schiavi della propria immagine, profondi come una pozzanghera, merce di scambio nel flusso continuo di dati pirata.

Fever da “Turn Blue” (2014), ultima fatica dei Black Keys, è un prodotto che in una rivista seria di rock underground non verrebbe nemmeno nominato, i critici dicono che in questo album non ci sono le hit del precedente per scelta, ma non capiscono che è solamente il prodotto ad essere ancora più mediocre del precedente. Forse mi sto lasciando trasportare eccessivamente direte voi, può darsi, ma il rock psichedelico di Bullet In The Brain vale davvero di più degli Harsh Toke? Voi mi direte, giustamente, che sono band con intenti diversi, ma sempre di rock si parla, e la psichedelia con tanto di riferimenti agli anni ’70 ci sono, e allora perché Rumore non mette in prima pagina band dello stesso genere dei Keys ma con qualcosa da dire?

La cosa bella è che album come “Turn Blue” o “48:13” (2014) dei Kasabian, sono album che non dicono un bel niente, è la solita musica che non cerca qualcosa di più alto del solito riff, di una melodia d’effetto o anche di stupire tecnicamente il musicista in ascolto. 

Oggi più che mai riprendere gli anni ’70 per dire qualcos’altro è attuale, il Sun Ra ripreso da alcune band psichedeliche italiane si combina perfettamente con il mercato di Porta Palazzo (li nomino sempre ma non li recensisco mai, prometto che presto mi rimetterò in pari con La Piramide Di Sangue), il Syd Barrett dei Thee Oh Sees svela paranoie o annebbia i sensi di una società in crisi non solo economica, c’è la rabbia borghese di Ty Segall, il punk pop nevrotico di Jay Reatard così autentico, i riff post-apocalittici degli Zig Zags che riprendono le immagini di Carpenter e il Neil Marshall di Doomsday senza citarli direttamente, questo è grande rock, quello che dovrebbe sostare in quelle riviste e in quelle librerie di iTunes o playlist di YouTube di chi si dà un tono, di chi “ascolto rock”.

Il rock è un modo diverso di vedere le cose di tutti i giorni e riscoprile di nuovo, non la costante ricerca di una invenzione melodica, tecnica, linguistica o banalità del genere. 

The Black Keys – Rubber Factory

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Prima di recensire questo disco vanno fatte delle premesse:

  1. i Black Keys mi piacevano (assai), ma ora sono tra le peggiori band a giro (e vi spiegherò perché);
  2. tutto quello che hanno fatto i Black Keys lo avevano già fatto i Sonics e i Music Machine, tranne che per “Attack & Release” per cui va fatto un discorso diverso (e vi spiegherò anche questo);
  3. Coca-cola e Pepsi non sono veramente diverse per gusto o colore, ma lo sono concettualmente (sì, c’entra, e vi spiegherò perché).

Da questi tre punti, che sono le premesse necessarie per continuare questa recensione, ricaviamo i quattro passaggi fondamentali per Una Buona Recensione: 1) la storia della band; 2) la musica a cui fa riferimento; 3) la recensione del disco; 4) le conclusioni del caso.

1) La band, formata soltanto da Daniel Auerbach (cantante e chitarra) e Patrick Carney (il batterista), si ritrova nel 2001 a cazzeggiare assieme senza troppe pretese, quando nel 2002 fanno uscire “The Big Come Up”, il loro primo disco, e diventa subito un successo. Non si sa bene se sia culo o cos’altro, ma il garage-rock-blues di questi ragazzacci funziona.

Nel 2003 con “Thickfrekness” sembrano aggiustare ancora un po’ il tiro, misurandosi con un rock piuttosto hard nella filosofia del low-fi. Il secondo disco è davvero un passo avanti. Sebbene mi piaccia consigliarli entrambi a chi mi chiede “ehi, ma chi sono ‘sti Black Keys?” devo dire che Thicky ha una marcia in più. Più rumoroso, più casinista, più garage.

Continua il successo per la band, anche se molti critici nostrani sembra che credano fermamente che prima di “Attack & Release” non li cagasse nessuno (perché non se li cagavano loro). Invece già col secondo album, prodotto dall’ottima etichetta Fat Possum Records (che annovera nomi come quelli di Iggy Pop, Andrew Bird, i Caveman, i Dinosaur Jr. e altri) i plausi dalla critica americana non sono pochi, e i loro pezzi si sentono ovunque, dalle radio ai cinema.

Arriva nel 2004 “Rubber Factory”, un lavoro egregio a mio avviso (e il mio disco preferito dei Keys), ma ne parleremo meglio dopo.

Con “Magic Potion”, disco uscito nel 2006, comincia il declino. Il sound si addolcisce, il rock sembra un tantino stantio, non voglio dire che non sia rock, dico solo che è un rock svogliato, inutile fine a se stesso, senza energia! 

Intanto iniziano ad essere prodotti dalla Nonesuch Records (etichetta della Warner), e già nel 2008 accoglieranno anche la Danger Mouse. Il sound cambia, e parecchio.

Attack & Release” esce proprio nel 2008, l’arrivo della Danger Mouse si fa sentire, e il disco è quasi certamente il miglior lavoro della band, o quasi.

Il lato A risulta una bomba di psichedelia e rock d’annata, c’è l’elegiaca All Your Ever Wanted (un finale tra i più belli), godurioso il riff di I Got Mine che ricorda le cose migliori di Rubber, ma con un sound pulito e sofisticato (per quanto possa essere sofisticato un disco dei Black Keys), bella anche Psychotic Girl, insomma, un disco abbastanza cazzuto. Ma già nel lato B le cose si calmano. Sebbene pezzi come Se He Won’t Break siano cento volte meglio di qualsiasi cosa passi per MTV e affini c’è una certa artificialità nell’esecuzione. Insomma: non è la solita solfa, abbiamo lasciato il garage dei Sonics per andare a cercare lidi più complessi e raffinati.

Il sesto disco arriva nel 2010, è “Brothers”, questo è l’album che porterà i Keys ad essere conosciuti in tutto il mondo, ed è un delusioni totale.

Arrivato al negozio non mi siedo neanche per ascoltare, lo compro, speranzoso di sentirmi ancora qualche bel riff cazzuto e momenti di delirio, ed invece mi ritrovo preso in giro come poche volte nella mia vita! Cazzo gente, “Brothers” è una fregatura bella e buona! Un disco piatto, noioso, ripetitivo oltre misura! Non salto sulla sedia su nessun riff (che poi sono rumori indistinti), non c’è mai un cambio di velocità che si faccia notare, mai un’idea, assomiglia esageratamente a “Keep It Hid” (2009) il disco solista di Auerbach che altrettante perplessità mi lasciò a suo tempo. Che pena.

La solfa non cambia, anzi, peggiora, con “El Camino” (2011), un disco che suona come un affronto al rock duro e puro delle origini, il simbolo di una band venduta a MTV e ai colossi della musica.

Non solo il titolo riporta alla mente idee malsane come “Bananas” (perché chiamare un album come una macchina? Insomma, il titolo di un album è la sua presentazione, cosa dovevo aspettarmi da “El Camino”, una serie di sample di Chevrolet che sterzano a tutto fuoco?) ma oltretutto diventa il loro maggiore successo!

All’interno c’è di tutto per il campionario delle ovvietà e della noia, mi limito a segnalare i due pezzi migliori, se così si posso definire. Gold On The Ceiling viaggia abbastanza bene, il riff ti entra in testa come l’organo elettrico, ma non è che sia chissà che pezzo. Little Black Submarines sembra un tentativo di migliorarsi nella composizione, peccato che poi non lo sia, sembra un rock brutto, ignorante (che razza di aggettivi sono? Boh, è quello che mi è venuto in mente).

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2) I Black Keys, musicalmente parlando, partono con i Sonics, partono col garage. Sebbene nelle loro zone ci si ricordi perlopiù dei Devo, i Keys sotto sotto sono un po’ dei californiani in trasferta a Detroit. Dopo gli inizi rudi che band come i Von Bondies o gli Stripes hanno appena assaggiato, al contrario proprio del più famoso duo rock  si sono venduti alla grande, addolcendosi schifosamente, ipoteticamente pronti per suonare negli Hard Rock Café accanto a Rihanna.

Ora basta cazzeggiare, recensiamo.

3) “Rubber Factory” mi eccita.
Ma non come la caffeina.
Ecco, avete capito.

Quando ho udito le prime note di When The Lights Go Out intuì che questo era un disco per me. Lento, blues, garage, questo pezzo ferma il tempo attorno a me, con pochi accordi raggiunge l’anima (o le palle, fate voi) e mi stuzzica nel profondo.

Poi avviene. Rubber parte a razzo, senza esclusione di colpi mi assesta sul groppone riff assassini come quello di 10 A.M. Automatic, robette come Just Couldn’t Tie Me Down e All Hands Against His Own non passano inosservate ai tuoi vicini.

Da qui in poi potrei tranquillamente citarvi ogni pezzo leggendo il retro del cd, questa roba scotta amici miei! Girl Is On My Mind è un pezzo energico, cattivo, ma la perla del disco per me è la cover di Grown So Ugly, la quale col cazzo che è presa dall’originale di Robert Pete Williams, ma asseconda quella geniale e irripetibile versione del grandissimo Captain Beefheart, direttamente da “Safe as Milk” (1967). Già solo questo vale il prezzo del disco.

Ma non è finita qui.

4) Le conclusioni non sono niente di trascendentale: la Coca-cola è arrivata prima della Pepsi.

Forse questo non vi dice niente, ma se la Coca sono i Sonics e la Pepsi i Black Keys, allora il discorso cambia. Perché se la Coca non avesse avuto gli esperti di marketing che la pubblicizzavano a suo tempo, oggi non se la filerebbe nessuno. Ma uno zoccolo duro di intenditori continuerà a preferire la Coca alla Pepsi. Perchè mai, direte voi, solo per una stupida questione su chi ci è arrivato prima? No, è perché c’è una differenza concettuale di fondo: la Coca ha già detto tutto mentre la Pepsi ripete a pappagallo! 

Non solo: quello che la Coca ha detto lo ha detto quando nessuno era pronto ad ascoltarla, quando il mercato voleva la limonata (melodie country-rock orecchiabili), prima che l’invasione delle multinazionali (la British Invasion) distruggesse quello che fin lì era stato conquistato! La Pepsi non ha solo una differenza di tipo cronologica, è concettualmente un abominio! Vuole sopperire alla Coca travestendosi come tale, ma deviando l’ardore rivoluzionario degli albori per vendere di più! Questa è la tragedia dietro i Black Keys!

Detto questo “Rubber Factory” è un bel disco, anzi: è l’ultimo disco con le palle dei Keys, perché sebbene abbiano preso il sound dai Sonics l’hanno fatto con passione e personalità (le tinte blues sono loro, tanto per intenderci), mentre con “Brothers” e “El Camino” hanno fatto cassa sul loro nome per storpiare la Grande Lezione del garage delle origini, lasciando il rumore ma togliendo l’anima.

  • Pro: il loro capolavoro, un buon disco garage-rock in tinta blues.
  • Contro: fa rabbia pensare che si siano sputtanati in questo modo, perché il disco non ha proprio alcun difetto.
  • Pezzo Consigliato: bellissima la loro versione di Grown So Ugly, un bel tributo al mitico Beefheart.
  • Voto: 7/10