Archivi tag: elettronica

Chini.png – El día libre de Polux

Etichetta: Sello Fisura
Paese: Cile
Anno:2023

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The Orielles – Tableau

Etichetta: Heavenly
Paese: UK
Anno: 2023
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Podcast – Beaches Brew 2017: quattro giorni di sabbia, birra e rock & roll

Un delirio continuo, ho ancora la sabbia nelle scarpe, il che oltre a denunciare la mia scarsa igiene personale è anche un significativo di come il mio cuore sia rimasto tra le conchiglie e i fuzz di Marina di Ravenna.

Grande festival, grande musica, se ne volete un assaggio non avete che da cliccare “play” qua sotto.


«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

D’Angelo And The Vanguard, russian.girls, Gangbang Gordon, The Stevens, Total Control

INTERNETHATE

Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:

  • non mi interessano,
  • notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.

Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?

Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.

Eeeee via con le danze!

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angeloD’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)

[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda di Dogma, ma vabbè, succede.]

Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’b una tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’b made in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.

Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.

Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deaths per esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?

Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.

Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.

link a YouTube

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10723566_472216169585570_1463938047_nrussian.girls – Old Stories (2014)

A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.

Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.

Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.

“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).

Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambient avant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).

Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.

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a3621126830_10Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)

Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.

Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).

Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exam mescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.

L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.

Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsense guardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.

L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.

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a2192467939_2The Stevens – A History Of Hygiene (2013)

Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.

Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.

Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).

La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.

Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.

Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.

Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.

A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.

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a2301055101_2Total Control – Typical System (2014)

Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.

Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthem garage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteants più garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.

Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.

In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.

Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Party è semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!

Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Spring lo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.

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Nazario Di Liberto – All Waste Town

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Domani esce il nuovo album di Nazario Di Liberto, rappresentante di una scena post rock palermitana ancora sterile e legata a musica di vent’anni fa. Di Liberto non vuole innovare questa scena, piuttosto cerca di divertirsi con la sua musica.

Nel 2012 esce “Stasi”, un album etereo e compatto, l’idea di creare un’istantanea se vogliamo emotiva di un momento preciso della nostra/sua vita, ma fortemente difettato da una ricerca musicale praticamente avulsa dalla scena elettronica contemporanea. La musica rimane in superficie come un sottile velo estetico che nasconde una certa povertà espressiva.

Eppure le idee non mancano, come anche la capacità tecnica, e Di Libero ci riprova quest’anno con “All Waste Town”.

Un album che, sebbene sia unitario dal punto di vista del sound, è impregnato di diverse accezioni (post rock, industrial, dream pop, trip hop) e solo in una di queste trova una dimensione che superi il semplice esercizio di maniera.

La frustrazione di Di Liberto nei confronti di questa waste town alla fine non viene quasi mai fuori. È come se mancassero dei tasselli per completare un mosaico ben congegnato.

Ad aprire le danze ci sono Proto_Tipo//3 e Proto_tipo//4, un bel passo avanti nella composizione in confronto a “Stasi”, ma almeno due indietro in confronto alla scena internazionale in cui cerca di evolversi questo nuovo album. In una recensione di Andrea Terenzi di Rockit, piuttosto entusiasta, immagina “All Waste Town” in linea con la “electro/avangarde” in voga nei club berlinesi. Il che, in tutta sincerità, non è affatto un complimento.

Se c’è una elettronica che oggi si può definire di avanguardia è quella degli inglesi Boards Of Canada e dei conterranei Fuck Buttons. I secondi, prodotti da John Cummings dei Mogwai, hanno con il riuscitissimo “Slow Focus” (2013) creato un nuovo standard internazionale a cui la musica di Di Liberto si scosta pesantemente, rimanendo legata a fenomeni di troppi anni fa, ed ad una scena (quella palermitana) priva di spunti originali.

L’affresco a tratti gotico e piuttosto riuscito di Tokyo è figlio di quanto sopra scrivevo, siamo lontani dall’eterea stasi che bloccava espressivamente l’album precedente, perché Tokyo di tutto il lotto è la vera waste town. Ma è un post rock già sentito, senza sferzate sperimentali, il che da una parte è voluto (perché come avevo premesso Di Liberto non vuole rinnovare un linguaggio), ma è comunque un limite. Non manca di certo carattere però le idee sembrano troppo spesso involontariamente riciclate.

Ancora più paradossale la bellissima Useless, con la splendida voce di Sonja Burgì che ricorda il dream pop etereo di Elizabeth Fraser nei Cocteau Twins. Ed è proprio questa atmosfera trip hop a riportare l’album ad un a dimensione anacronistica, come se fosse uscito nel 1999. Useless è davvero un gran pezzo, ma se lo mettiamo in confronto alla produzione trip hop attuale (è uscito qualche giorno fa un buon “Adrain Thaws” di un Tricky secondo la critica internazionale “ritrovato”) suona quantomeno banale.

Munito anche di hidden track (con il bellissimo verso più volte ripetuto: «mortician of feeling»), “All Waste Town” è un album riuscito a metà. Se nella composizione Di Liberto ha fatto passi in avanti, e anche le idee espressive riescono comunque a venire fuori, la musica suona bene o male come un post rock già sentito e risentito, insofferente alle novità più sperimentali e interessanti degli ultimi cinque anni.

Considerando la scena italiana in evoluzione (basti considerare il catalogo della Boring Machines, che per quanto ermetico sta ricevendo il plauso anche della critica più incompetente) c’è ancora molto lavoro da fare, ma per fortuna ci sono tutte le potenzialità.

Boards Of Canada – Tomorrow’s Harvest [Re-review]

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È la prima volta che torno su una recensione ma non sarà di certo l’ultima.

Tomorrow’s Harvest” è considerato quasi all’unanimità come uno degli album più belli di questo 2013. Quando l’ho recensito a Settembre (trattandolo malino e dandogli un simpatico 6/10) era uscito da credo meno di un mese, ma dato che tutti me ne avevano parlato con toni decisamente entusiastici l’avevo comprato in tempi record.

A me l’elettronica non mi ha mai fatto impazzire, questo è vero, in generale sono rimasto un po’ indietro almeno con i punti di riferimento. I miei album preferiti sono quelli di Schulze e dei Tangerine Dream, non so nemmeno se si possa considerare prettamente elettronica “Autobahn” dei Kraftwerk o “The Journey” dei Kingdome Come di Arthur Brown, però quella roba mi sfizia abbastanza.

I Boards sono diventati un nome nel 2002 con “Geogaddi”, un disco che mi sono ritrovato quasi inspiegabilmente tra le mani verso i quindi anni e che ho odiato con tutto me stesso. Riascoltandolo quest’anno in un percorso di riscoperta musicale, legato certamente al fatto che non ho una lira in tasca e quindi mi tocca rispolverare anche quei CD o LP rinnegati tempo addietro, mi sono dovuto decisamente ricredere sul valore musicale e tecnico dei due fratelli scozzesi, ma non sulle impressioni personali.

I Boards sono bravi, ovvio, fin qui ci arriva anche un critico del Buscadero, ma toccano delle corde ben precise che ha me, evidentemente, non dicono niente. Un mio collega all’Uni era allibito dalla mia impressione negativa di Tomorrow’s, dicendomi che quando lui ascoltava i brevi ambienti elettronici di quell’album addirittura si commuoveva.

Sì, ok, c’è gente che si commuove ascoltando Lady Gaga, ok, ma il tipo in questione è uno a posto, e così da Settembre a oggi il disco che ho più riascoltato è stato certamente Tomorrow’s. La mia ragazza lo adora, mia madre lo apprezza, ai miei fratelli fa cagà (ma loro ascoltano solo Led Zeppelin et similia), mio padre lo ignora. Io sono l’unico eternamente combattuto tra il riconoscere una ricerca musicale che trovo squisita e la mia una totale impassibilità emotiva.

Oddio, questa re-review non è per niente una re-review! Avrei potuto cercare di recensire alcuni dei migliori dischi usciti quest’anno, tipo “Silence Yourself” dei Savages o “Light Up Gold” dei Parquet Courts, e invece sono qui a cercare di capire perché “Tomorrow’s Harvest” non mi dice niente. E lo faccio pure male.

Come posso criticare oggettivamente un disco bello ma che non mi piace? L’unico modo che ho per farlo è dargli la sufficienza e rimandarlo a chi piace l’ambient, a chi adora gli Autechre e i Fuck Buttons, a chi ama spaziare tra le lande desolate di un sintetizzatore. Quello che trattano i Boards Of Canada è una sorta di anti-kosmic rock, immergendoci in uno spazio decisamente all’opposto dell’altrettanto freddo e distante proposto in “Alpha Centauri” (1971) dei Tangerine Dream, ma tragicamente pessimista e apocalittico, ormai liberatosi dal retaggio di colonna sonora per science-fiction e anche dalla sua dimensione intellettuale alla Eno, è una elettronica che più moderna di così non si può.

Tanto di cappello al duo scozzese, peccato che con quei venti euro mi ci potevo comprare un bel disco dei Nazz, porcodemonio.

  • Pro: probabilmente una delle cose migliori dell’elettronica contemporanea.
  • Contro: tremendamente simile a “Geogaddi” e anche meno interessante.
  • Pezzo consigliato: è uno di quegli album che va ascoltato dal momento in cui la puntina si posa sul bordo, lasciandola scivolare assieme all’immaginazione.
  • Voto: 6,5/10

Io fuggo a Carloforte col mio miglior amico, quindi se non rispondo ai vostri insulti fino al 6 Gennaio sono giustificato.

Non c’entra niente ma chissene.

Tiga – Sexor

Tiga-Sexor-Frontal

Questo blog tenta di solito di ospitare album rockeggianti, sette sataniche, orge, festini dove – ok, manca la figa, ma non manca mai la birra. Però stavolta mi piego alle esigenze fisiologiche, mi inchino di fronte all’id, perché a tutti noi capita di tanto in tanto di smarrire la retta via una volta nella vita. No?

Era il 2006, sedici anni appena compiuti e una tragica carriera al liceo artistico ancora da scoprire pienamente. Tra una manifestazione e una occupazione cercavo di definire il mio orientamento sessuale ascoltando qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano. Non vado molto fiero di quegli anni.

Ok, ascoltavo il soft rock dei Pink Floyd, ma anche i Sonata Artica, i Freedom Call, gli Slipknot e sì: anche gli Arch Enemy. Tra le altre merdate mi avvicinai anche all’elettronica con un salto lungo (ma che dico: lunghissimo) passando direttamente da “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream (tutt’ora il mio album preferito per una serie di ragioni che forse un giorno spiegherò al mondo) ai rave.

Oddio, ma c’è davvero qualcuno che sta leggendo tutte queste mie cazzate?
Comunque, meglio andare al sodo.

Scopro Tiga, un famoso dj canadese, proprio durante questi anni di confusione e ricerca di me stesso. Nell’ambito di chi se ne intendeva Tiga era già un nome noto, celebre remixatore e mattatore di serate allucinanti. Dopo più o meno dieci anni che era nel settore decide di pubblicare un album nel 2006.

Raramente gli album dei dj volano nelle classifiche, e ancor più raramente finiscono nei miei scaffali accanto ai Black Sabbath. Ma così fu.

Quello che secondo me la gente si ostina a non capire è che “Sexor”, il tamarrissimo debutto di Tiga, è che non è “solamente” un album di musica elettronica, ma è (nell’ordine):

  • la sintesi di suoni e effetti che andavano un casino in quegli anni
  • un disco che parla di un pianeta di nome “Sexor” (e scusa se è poco)
  • il miglior album pop di tutti gli anni ’10 del 2000

Non c’è un pezzo di “Sexor” che non sia una perla pop di rara bellezza. Come pop non è mica tecnicamente chissà che, certo, per molti versi è anche al di sotto di una certa media, ma non è comunque pop da classifica. L’operazione di Tiga, che non riuscirà a ripetere col secondo album, è stata quella di creare, senza nessuna consapevolezza, un concept album pop senza le dannate chitarre del cazzo, senza coretti in falsetto freschi freschi da “Surfin’ USA” (Beach Boys, 1962), senza la imbarazzante pretesa intellettuale di Oasis, Verve e Blur, ma con l’esperienza di un artigiano dei rave del cazzo.

Collaborando con decine di compagni dj l’album è una eccezione anche nelle cover. Invece delle solite band Tiga prende in prestito Down In It dal bellissimo album d’esordio dei Nine Inch Nails (“Pretty Hate Machine”, 1989) e la fondamentale Burning Down the House dei Talking Heads (“Speaking in Tongues”, 1983). La versione di Down In It è clamorosa e ridisegna in chiave pop Trent Reznor come nessuno prima e dopo questo album. Ai Talking Heads viene ridata dignità dopo quella oscenità perpetuata da Tom Jones degnamente seguito dai The Cardigans.

Sia ballabili che ascoltabili, le tracce di “Sexor” sono quanto di meglio abbia mai ascoltato nella musica commerciale non per forza auto-referenziale.

Dio santo, dopo questa recensione mi sento stranamente sporco…

Ohi ohi, ora mi devo purgare ascoltando per il resto della giornata “The Faust Tapes”…

Daft Punk – Random Access Memories

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“Random Access Memories” (che d’ora in poi sarà RAM, giustamente) non è una cagata.

Allo stesso tempo però non è il fottuto capolavoro dell’anno o stronzate simili. Quello che fanno in questo disco i Daft Punk è semplicemente un divertissement, consapevoli purtroppo di non avere null’altro da dire a noi esseri umani del 2013.

Il duo francese per eccellenza ha segnato profondamente quel tipo di rock che voleva fare funk senza sembrare la cover band degli Earth, Wind & Fire. L’idea di inserire l’elettronica è vincente quanto banale. In Francia, come anche nella vicina Germania, l’uso di strumentazione elettronica nel rock comincerà prestissimo, dalla musica colta di Klaus Schulze fino alle impressioni più appetibili di Jean-Michel Jarre l’elettronica è stata, volente o meno, una emanazione del rock. I primi ad intuire la forma-canzone del rock elettronico furono i tedeschi Kraftwerk, band ormai leggendaria il cui sound non è invecchiato al contrario delle loro idee.

Se per i Kraftwerk la musica elettronica era imporre la macchina sull’uomo (roba che forse poteva apparire come una novità ai tempi di Fritz Lang e Méliès) per i moderni Daft Punk l’elettronica era un linguaggio alla stregua del rock, che si immergesse nelle sonorità di Donna Summer o dei Clash non importava, coglievano tutte le sfumature di ciò che gli piaceva attorno a loro e le rivisitavano come più gli aggradava, suonandolo come una rock-band.

Con “Discovery”, nel 2001, e la sua versione filmica con “Interstella 5555” (animazioni del divino Matsumoto) chi poteva immaginare che i Daft Punk fossero già a metà carriera? Fu letteralmente un fulmine a ciel sereno questa “band”, solamente 3 album in otto anni, valorizzati con dei remix successivi, eppure per vendere vendevano, evidentemente la loro musica non è poi così scontata come appare!

In realtà la portata di questo duo è stata limitata come la sua discografia: se da una parte impressionò l’inconscio di chi li ascoltava, con il funky, l’r&b e un’elettronica così accessibile a tutti, va detto che la musica non ha seguito il corso dei Daft Punk, è altresì vero che hanno ritrovato in tempi recenti degli emuli nei Justice (anche se con “Audio, Video, Disco” hanno rivolto i loro interessi al prog spicciolo e basilare) ma a parte questi altri due francesi la formula dei Daft raramente è stata re-interpretata, per quanto siano stimatissimi dai colleghi e amati da una folta e agguerrita schiera di fan.

Ma cos’è RAM?

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RAM, semplicemente, sono i Daft Punk di sempre, solo invecchiati.

Non è una malattia, succede a tutti, non si può evitare. È normale la scarsità di idee originali dopo una certa età (non vecchi-vecchi, ma già dopo i quaranta, fatto salvo pochissime eccezioni, particolarmente quando si parla di rock: un genere energico, rabbioso dove la gioventù è un fattore vincolante).

Quest’ultimo album dei Daft è un ritorno ai primi amori, George Clinton, Moroder, tutta la disco music e cazzi e mazzi. Cristo se suonano vecchi i Daft Punk!

Il riff caldo e suadente di Lose Yourself to Dance, assieme a quella chiavica di Pharrell (il quale vorrebbe palesemente essere Jamiroquai, poverino) che fuori dai N*E*R*D non splende, ci fa capire tutto. I Daft si riciclano e riciclano i loro miti, non c’è una fottuta cosa originale in questo album. Il quale però suona abbastanza da Dio.

Assai ispirati certamente i nove minuti di Giorgio by Moroder (già mitologizzati nella rete, ma senza un motivo valido, è un’idea carina cazzo, basta così), impagabile quando la musica si ferma per farci soffermare su questa frase del buon Giorgio:

My name is Giovanni Giorgio, but everybody calls me Giorgio

per poi riprendere con un ritmo tamarro ma riposato. Mi ha fatto sentire bene. Il resto del pezzo lo si dimentica in fretta.

Devo dire che a parte la song che apre le danze, Give Life Back to Music, l’album sembra comporsi da tracce impersonali, che scorrono giù benissimo, così bene che non ti accorgi che il disco è finito e stai dormendo scomposto sulla sedia, sbavandoti addosso come un ebete.

Si salva il finale della Giorgio citata prima, il ritmo di Instant Crush (collaborazione infima, preferisco non fare nomi per  non eccedere negli insulti), la verve di Motherboard (piacevole e anche inaspettata) e la chiara mancanza di idee (però rumorose come mancanze) di Contact.

Un disco dannatamente piatto, adatto per imbroccare una ragazza sulla quarantina.

Però con questo non voglio tacciarlo di merda, di quella ne abbiamo tanta sul mercato, questo invece è un disco dignitoso e piacevole, peccato che suoni tragicamente vecchio.

  • Pro: un funky gradevole.
  • Contro: è più movimentata 4’33’’.
  • Pezzo consigliato: Giorgio by Moroder è divertente, vivace e ha un climax ben costruito. L’unica pecca è, che come tutto il resto dell’album, suoni come una creatura ben pensata, ben assemblata, ma senz’anima.
  • voto: 5/10

I Muse copiano i Radiohead

La questione “i Muse copiano i Radiohead” è una delle poche diatribe degli ultimi anni ad aver resistito all’ossidazione.

A nessuno gliene frega più niente dei paragoni allucinanti tra Beatles e Oasis, o della rivalità tra quest’ultimi e i The Verve, gran parte delle inimicizie che hanno segnato confini invalicabili nei gusti di molti sono andate perdute, anche le più storiche ormai al di sopra delle possibilità dei protagonisti stessi, vedi quella tra Peter Gabriel e Phil Collins (di cui un giorno ci occuperemo, probabilmente con sei o otto post) o la Storia Infinita tra Roger Waters e il resto dei Pink Floyd (leggasi anche: David Gilmour).

Quello che accomuna prima di tutto Muse e Radiohead è che sono due gruppi ancora super-attivi e che sono entrambi amatissimi.

Ma i Muse copiano i Radiohead?
Secondo me no, ed è anche semplice capire il perché.

I disco che fu per primo incriminato fu chiaramente “Showbiz” dei Muse, disco d’esordio del 1999, bollato come copia-incolla del ben più famoso “The Bends” dei Radiohead del 1995, uscito la bellezza di quattro anni prima.

Che un gruppo degli anni ’90, giovane, con ottimi gusti musicali, ascoltasse e assimilasse i Radiohead ci può stare. Definire però “Showbiz” solo alla luce di questo sarebbe riduttivo, oppure sarebbe addirittura un errore di sopravvalutazione del prodotto. Riduttivo perché di tutto si può incolpare la band di Bellamy tranne che di spudorata copia! Le influenze che caratterizzano “Showbiz”, come tutte quelle che caratterizzano i dischi d’esordio, sono figlie del loro tempo, i rimandi a tutto il rock alternativo sono tanti, di certo non aiuta la voce di Bellamy stesso (simile a quella di Yorke) ma non credo si sia fatto operare le corde vocali per entrare in una cover band dei Radiohead. La sopravvalutazione scatta nel momento in cui ci rendiamo conto che “The Bends” è un lavoro dove i Radiohead dimostrano di aver già le idee molto chiare, al contrario “Showbiz” è un album ancora pieno di ingenuità.

È davvero difficile trovare dischi d’esordio senza impronte musicali derivate direttamente dai gusti della band, compreso il disco d’esordio dei Radiohead: “Pablo Honey”. In questo album i Radiohead affrontano tanta roba alternativa, gli Smiths, i Talking Heads, addirittura gli U2, e se qualcuno suggerisce pure i Krafwerk non deve certo vergognarsi. Non solo le influenze ci sono ma sopratutto si sentono! La differenza è che i Radiohead sì sono sensibili ai movimenti alternativi e anche al grunge, ma protendono inconsapevolmente verso lo sperimentalismo, anche se mai a livelli memorabili, che può essere sia sviluppo che negazione di questi stessi generi musicali (come poi sarà).

Esempi di dischi d’esordio quasi senza legami col passato più vicino sono eccezioni molto particolari, come può essere se vogliamo proprio fare un esempio “Irrlicht” di Klaus Schulze, ma l’originalità è da ravvedersi solo sotto certi aspetti tecnici.

Ancora più difficile trovare in “Showbiz” dei veri e propri copia-incolla con “The Bends”, i quali oltretutto risulterebbero alquanto anacronistici nel momento in cui già nel ’97 i Radiohead compivano una svolta epocale per la musica commerciale con il successo mondiale di “Ok Computer”, mentre nel ’99 i Muse stavano ancora plasmando la loro musica basandosi sugli ultimi Sonic Youth e non avevano ancora assimilato del tutto le ripercussioni storiche di “The Bends”.

Inoltre col passare degli anni le scelte fatte da questi due gruppi sono semplicemente inconciliabili, sia per quello che concerne la tecnica e il sound, che più profondamente un approccio concettuale alla mondo musicale a 360°, che ha contraddistinto nettamente il lavoro dei Radiohead rispetto ad una maggiore superficialità dei Muse, sempre più relegati nell’etichetta di band-spettacolo.

Prendiamo in esame l’anno di svolta dei Muse, il 2003, quando pubblicano “Absolution” e varcano la soglia definitiva del successo mondiale, in quello stesso anno i Radiohead tireranno fuori dal cappello un disco di cui si è molto parlato come “Hail To The Thief“.

Proviamo a contestualizzare i Muse del 2003: ben due anni dopo l’ultimo lavoro la band sforna un disco ben lontano da qualunque infiltrazione dei vicini album dei Radiohead, anzi trovano finalmente una loro dimensione sonora. Magari l’ossessiva ricerca di wall of sound bestiali per spaventare la gente nelle live e le spinte prog (molto semplificate) non sono obiettivamente il massimo (oddio, concordo con Onda Rock! Vi prego lapidatemi!), ma alla fin fine il disco suona bene e appare come un lavoro ben pensato, organico e tutt’altro che scontato. Il tema è quello dell’apocalisse e più in generale della morte. La presenza di parti orchestrali potrebbe stupire, se non pensiamo però al fatto che i Muse devono tanto alla musica classica e devono ancora di più alla musica per film (con cui riempiranno di citazioni dischi e live successive fino ad oggi). I testi sono una summa del peggior complottismo made in U.S.A., tragici.

Nel 2003 i Radiohead si scontrano per la prima volta con la realtà informatica, a causa di una fuga incontrollata di mp3 provenienti proprio dalla lavorazione di “Hail To The Thief”. Secondo molti il sesto disco della band non è esattamente l’apice del loro lavoro, anzi: è una brutta copia di “Ok Computer”. Chiaramente non è così semplice, il disco esce con qualche problema è vero, ma di certo non si può dire che sia una sorta di riempitivo in un momento di vuoto creativo. La critica portata avanti da Yorke e company in “Hail To The Thief” è fortemente politica, con continui richiami alla situazione americana, un rigurgito della più famosa band inglese contemporanea che di certo non era facile da tradurre in pezzi sperimentali alla “Amnesiac” o alla “Kid A”. Questo disco ha quindi un valore concettuale prima ancora che musicale, concetti che vengono comunque tradotti in una musica decente, molto più consapevole di quella in “Ok Computer” e molto più diretta nell’esplicazione di un malessere materiale e tragicamente contemporaneo.

È dunque chiaro che sia gli intenti che l’approccio al rock nelle due band siano palesemente incompatibili e i loro sviluppi successivi lo confermano sempre di più.

Insomma: una questione assolutamente inesistente, dovuta principalmente alla feroce schiera di fan che contraddistingue i due complessi rock più seguiti (e forse sopravvalutati) al mondo.

Almeno per ora.