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Centauri / Dead Horses split

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Etichetta: Lepers Production
Paese: Italia
Pubblicazione: 1 Novembre 2016

La malinconia celata in un feedback può essere difficile da cogliere, un rumore in fondo è solo un rumore, eppure da John Cage a Iannis Xenakis ne abbiamo di esempi di come il rumore possa diventare vettore di sensazioni, riflessioni, e perché no: emozioni.

Nella storia del rock ne abbiamo ascoltati di rumori assordanti eppure significativi, dai Velvet Underground ai Sonic Youth, non mi sento affatto fuori luogo ad inserire in questa esclusiva famiglia il denso discorso sonoro dei Centauri. Questa band prodotta da una delle migliori etichette italiane del momento, la barese Lepers Production, riesuma la semplicità melodica di certo alternative degli anni ’90 e la immerge in stratificazioni rumorose incredibilmente espressive.

Il loro esordio discografico credo sia del 2014, con “Centauri” (of course), una deliziosa vertigine di noise e Faust, ma non i Faust degli inizi ma quelli laconici di “The Faust Tapes”. Il martellio del piano che si perde in uno spazio siderale saturo di frequenze di Alfa Centauri A, spiega meglio di quanto io possa fare l’eleganza dietro questo album (il suo continuo, Alpha Centauri B invece rigurgita del rock un po’ come i Pussy Galore nel bel mezzo del delirio sparavano un blues infernale).

Personalmente provo quasi una venerazione per questo lavoro, sopratutto quando mi ritrovo a leggere riviste come Rumore dove si parla di espressività in merito all’ultimo lavoro di Lady Gaga, laddove quell’espressività anche se ci fosse è stata talmente sviscerata da avere poco da aggiungere, i Centauri invece sono una di quelle band che si muovono tra i confini dei generi, non cercando di scavalcarli ma piuttosto spingendoli un po’ più in là. La tensione fantascientifica della band, più Tangerine Dream che Sun Ra, si sposa con un folk trasognato, e non senza un certa meraviglia ci ritroviamo a navigare nel nostro universo interiore.

Lo split uscito questo primo Novembre con i Dead Horses è un evento per chiunque abbia a cuore l’underground italiano. I Dead Horses, trio acustico dalla febbrile Ferrara, altro non sono che una declinazione dei For Food di cui abbiamo già parlato in una entusiastica recensione che vi linko qua.

Quindi che cosa succede in “Centauri – Dead Horses”?

I Centauri si presentano con tre tracce, proseguendo il discorso del loro “The Centauri Tapes” (eh), sposando una vena piuttosto malinconica e incredibilmente efficace, che esplode in tutta la sua meravigliosa fragilità nei 5 minuti di Unza.

I Dead Horses tornano dopo il loro folgorante debutto per la Bubca Records di Tab_Ularasa, e presentano quattro pezzi ormai rodati. Anche se li accumuna una certa urgenza espressiva non sono da confondersi coi siciliani Pan Del Diavolo, nei Dead Horses è tutto “in potenza”, quasi mai la tensione deflagra in un coito rockeggiante. Il rumore c’è anche qui, se The Cross sembra uscita da una casa di produzione indie, Before you judge me suona come se fosse stata partorita tra il sangue e le urla di un garage di periferia.

La musica dei Dead Horse raggiunge vette mistiche, scompare la rabbia di certo folk italiano da classifica per far posto ad un lento rituale misterico.

Due anni fa Mirrorism e For Food hanno segnato rispettivamente delle vette da raggiungere nel panorama nostrano, l’anno scorso gli Hallelujah!, evoluzione dei Vairus, hanno esordito con uno dei più potenti 12” che abbia mai sentito, e quest’anno Centauri e Dead Horses spostano ancora più in là il confine.
E meno male che la musica in Italia fa cagare.

Ausmuteants -Band Of The Future

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Etichetta: Aarght! Records - AARGHT037
Paese: Australia
Pubblicazione: 26 Agosto 2016

So che è un’opinione impopolare ma a me i side-projects degli Ausmuteants mi stanno sulle palle, anche gli amatissimi Frowning Clouds, anzi loro prima di tutti! È che questi quattro australiani fuori dalla band mi suonano troppo derivativi di certi sixties che sì, ci scaldano ancora il cuore come le storie di Guareschi, ma che – in estrema sintesi, hanno spaccato i coglioni e saturato il mercato. Perché ascoltarmi un revival dei Monks, dei Troggs o dei Sonics quando ho già i vecchi album – che fra l’altro spaccano decisamente di più. Però quella volta là che i quattro si ritrovano tutti assieme sotto quel magico nome così punk e così dolcemente reietto, ecco che la magia del Natale si ripropone anche il 26 Agosto.

Se “Order Of Operation” del 2014 era un piccolo capolavoro della scena punk mondiale questo “Band Of The Future” impone gli Ausmuteants come il gruppo più muscolare, cazzuto e ispirato del globo.

Sì è vero, sono solo canzonette, e la più lunga dura 2 minuti, e non avrà mai l’impatto di un vero capolavoro, ma la condizione di fragile equilibrio tra la necessità di esprimere la contemporaneità e la nostalgia del punk e del garage moderno, trovano finalmente la loro dimensione in questo album. Se vi pare poco fate voi.

Il revival anni ’80 sta coinvolgendo tutte le forme d’arte e non solo la musica, pensate al cinema con It Follows o alla TV con Stranger Things (ma se ne potrebbero citare decine di esempi), musicalmente la sua forma più pura e quindi anche limitatamente nostalgica è la synth wave. Se è vero che c’è chi prende i suoni tipici della synth wave per farne qualcosa di unico (penso alle musiche di Cliff Martinez nella prima stagione di The Knick e nel Neon Demon di Refn) la maggior parte delle uscite discografiche sono poco più che stronzate, e hanno il loro epicentro nel Regno Unito. E capite bene che tra UK e Australia sebbene i chilometri di distanza c’è ancora qualcosa di più profondo che le unisce.

Già nei loro primissimi lavori gli Ausmuteants rielaboravano le pulsioni synth in un modo tutto loro, mescolando la freddezza di quei suoni alla adolescenziale furia punk con una certa facilità.

Forme più elaborate di questo mix nelle terra dei canguri le abbiamo già assaporate, c’è quella eclettica dei Total Control di “Typical System” (2014), o quella dark e cronenberghiana dei Nun, ma mai con il tiro e l’entusiasmo di questo “Band Of The Future”.

Per quanto la tracklist dell’album abbia in parte dei forti rimandi col passato (titoli come I Hate You e Liars all’aficionados rimandano rispettivamente a Monks e Richard Hell) il dialogo cominciato nel 2014 con il web ora è più un dato di fatto.

Si comincia a rotta di collo e si finisce a rotta di collo, una valanga sonora degna dei migliori Minutemen, da una band che non ha la tecnica sopraffina dei californiani ma di certo ne condivide l’impeto.

La presenza del synth è forte come nell’album precedente ma l’amalgama è decisamente più riuscita, i pezzi sono tutti ultra-compatti, non solo per lo scarsissimo minutaggio, ma perché non c’è mai un reale protagonista nella strumentazione, non c’è la solita chitarra onanistica né i giri acchiappa bischeri col synth, è tutto asservito all’espressività di ogni singola traccia.

Potenzialmente sono tutti singoli micidiali, il mio preferito ovviamente è una stoccata alla critica musicale: Music Writers.

Diecimila meglio del nuovo e pretenzioso Ty Segall, che come tutta la scena californiana si stanno godendo il loro momento d’oro rammollendosi decisamente, gli Ausmuteants sono ancora sul pezzo, tra i loro fan eccellenti ci sono anche band di altrettanto spessore della scena ferrarese (Hallelujah!), scena che in generale dialoga molto bene con il punk australiano e che produce del punk di livello altissimo (ci sono delle involontarie rassomiglianze anche tra i già citati Total Control e i grandiosi Mirrorism per dire).

Non scomodiamo paroloni per concludere questa così poco professionale recensione, diciamo solo che ci sono poche cose a giro che valgono la pena di essere sparate a mille dallo stereo o in auto, ci sono poche cose che vi faranno venir voglia di spaccare tutto come questo album, ci sono poche cose che riprendono la grandezza degli ottanta senza scimmiottarla come gli Ausmuteants.

Bidons, Mirrorism, For Food

Finalmente ho trovato un po’ di tempo per annoiarvi con le solite recensioni MA stavolta si cambia aria! E basta con ‘ste cazzo di band californiane, e che siamo una colonia americana? Ah, “sì” dite?

RECENSIONI DI BAND ITALIANE come avete più e più volte richiesto per mail e su Facebook maldetti stalker bastardi schifosi luridi «Oh, finalmente le recensioni di Tab_Ularasa, VAIRUS e La Piramide Di Sangue che ti chiediamo da secoli!» ehm, in realtà non proprio eh. Però quasi, come cantava Freak Antoni.

La Salerno garage dei Bidons

Un minuto di silenzio per il nome della band.
Proseguiamo.

Come indica in maniera vistosa il loro logo su Bandcamp i Bidons suonano un “garage per le masse”, una musica democratica e fiera della sua immediatezza, come ci hanno insegnato papà Bangs e mamma Sonics. I ritmi del loro primo album del 2012 “Granma Killer!!!” sono però deliziosamente rock and roll più che punk-garage (vedasi il pezzo 2009) con venature power pop ma senza l’egemonia della chitarra a tutti i costi, sono persino ballabili i bastardi!

Per cui è ovvio, come i più intransigenti di voi avranno subito capito, che qui siamo su una sponda più catchy del garage, compiacente e divertente, il che di per se non dev’essere un male a prescindere però è chiaro che se preferite suoni abrasivi e gli sputi in faccia i Bidons non fanno per voi (come anche la società civile, ma questo è un altro discorso).

Due cover eccellenti, Be A Caveman degli Avengers e Night Time dei Strangeloves, gli ululati alla Cramps di Wolves of Saint August, un album che si mastica bene e si dimentica altrettanto facilmente… Avrebbero anche i numeri questi quattro salernitani, ma manca il singolone spaccadenti, l’ariete d’assedio, la HIT insomma. Ci provarono subito l’anno dopo col singolo Raw, Naked & Wind, misto di White Stripes e sixties ben congegnato, apripista per il loro secondo album: “Back To The Roost”.

Si alza il volume stavolta, meno rock and roll e più furia Nuggets, leggermente più vintage ma non lo-fi e con una title-track memorabile. Meno paraculi dei Double Cheese ma altrettanto bravi nel combinare riff, assoli brevi ma cazzuti e ritmi forsennati. Non sono proprio la band per cui vado pazzo di solito, però come spinge (Shout it out) Burn Down! e come galvanizza il riff di I don’t mind!

Insomma: di sicuro il loro lavoro migliore, sopratutto alla luce dell’ultimo album “Clamarama”.

Non voglio partire prevenuto quando recensisco un album, mai, però già dopo aver ascoltato il pezzo d’apertura, Do it alone, mi è scesa parecchio la scimmia che si era arrampicata faticosamente nel 2013 per “Back To The Roost”. Più power pop che garage, assoli da masturbazione seriale, riff troppo troppo troppo orecchiabili, cazzo è come spararsi nelle orecchie un misto di Bass Drum of Death-Jet-Double Cheese tutto patinato e ripulito fino all’inverosimile.

Dal punto di vista compositivo probabilmente siamo di fronte al loro album più riuscito, se sparato a tutto volume dalle casse sembra inciampare clamorosamente con i suoi stessi cliché ma senza auto-ironia. Probabilmente a quelli di voi che preferiscono gli Smithereens agli Oblivians questo album provocherà orgasmi multipli da qualsiasi orifizio, perché i Bidons ci sanno fare eccome. Personalmente ho faticato non poco ad arrivare alla fine dell’album.

Passiamo alla roba seria, passiamo alla scena Ferrarese.

Captain Beefheart è sceso a Ferrara: ovvero come i Mirrorism mi hanno spappolato il cervello

Io la prima demo dei Mirrorism non so dove cazzo cercarla. Probabilmente dovrei contattare la band, ma tra tutti i contrattempi della vita mia non ho mai trovato lo spunto per decidermi e rompergli il cazzo, così la roba più vecchia che ho trovato è del 2012, un EP titolato “Fly Eye”.

E nulla, già dopo S.P.O.W. ho dovuto spararmi una sega per svuotare tutta l’emozione che mi si era accumulata nelle palle. Post-punk? Un po’, per nulla nostalgico dei tempi che furono, ma che ne riprende le cose migliori, i ritmi sghembi, le chitarre inquietanti, la voce che passa dalla narrazione alle urla più agghiaccianti, sicuramente caratterizzato da una attitudine tutta loro. Sembra che i titoli stampati nella musicassetta fossero pure sbagliati e questo gli vale cinque punti in più a bocce ferme.

Night Flight mi ricorda i cambi repentini e la frenesia di alcuni pezzi degli australiani Total Control ma l’aggiunta del sax (per nulla Morphine ma mooolto beefheartiano) è un tocco di classe ineguagliabile, bellissime anche la lenta Slow Homo, la punkettona Exit The Loop e Anti Bodies.

È come trovarsi di fronte ad un piccolo miracolo, come quando ascoltai per la prima volta i VAIRUS «Ma allora è possibile fare della merda di qualità pure in Italia!»

Sarà addirittura la Trouble In Mind a produrgli il 7’’ con Night Flight e Exit The Loop nel 2013. Ovviamente sarà un successo nazionale ed internazionale, li avrete sicuramente visti a Sanremo, a Lollapalooza, agli Oscar e dal Papa vestiti da chierichetti.

E poi, due anni fa e due giorni dopo il mio compleanno, arriva il regalo più bello: “Mirrorism”, la loro consacrazione, il loro primo vero album, caricato free su Bandcamp. E in concomitanza la notizia del loro scioglimento. MAPORCODIO.

Amici: possiamo urlare al capolavoro e non vergognarci. Cazzo bisogna dire di un album così? Infiltrazioni psichedeliche deliranti, un theremin mai così psicotico prima, ogni cristo di pezzo sembra partorito in un momento di lucida creatività mai più raggiungibile, come se in quel preciso momento le sfere celestiali e le loro palle si fossero congiunte su una linea retta cosmica, anche se non lesinano coi rumori/suoni e le distorsioni sembra tutto estremamente controllato e calibrato.

Solo White Jam se magna a colazione gran parte della produzione australiana e californiana contemporanea, se poi vai avanti è sconcertante la facilità con cui le idee scorrono fluide e sempre brillanti, fino alla deflagrazione finale: quei sette minuti e ghianda di Loose End che da due anni a questa parte il mio pezzo rock italiano preferito in assoluto.

Compratelo se potete, in digitale of course, ed amatelo fisicamente.

E dopo tutti ma prima di tutti: i For Food

Prima o poi anche di loro bisognava parlare.

Probabilmente preceduto da qualche EP che mi sono perso, i For Food hanno all’attivo un solo album uscito nel 2014 e composto da sette pezzi che provocano uno spaesamento totale. Agghiacciante ed estetica in modo malato la prima vera traccia, Love, Sex & Drugs, ci colpisce subito per una cifra stilistica unica e destabilizzante, qua mettersi a fare troppi discorsi attorno al genere diventa pericoloso ma purtroppo necessario.

Categorizzare in musica, in particolare negli studi musicologici più che nella critica la quale etichetta a caso un po’ tutto, serve a collocare nel tempo e nello spazio un dato fenomeno musicale e di solito aiuta a comprenderne tutte le unicità. Però con i For Food è davvero un macello. Insomma, con i Mirrorism l’etichetta post-punk gliela affibbi e per quanto gli possa stare stretta se la tengono e non devono rompere il cazzo, ma con i quest’altri ferraresi c’è da bruciarsi le sinapsi.

Cos’è una City Light? Io un nome l’avrei: capolavoro, di nuovo, ma non ci aiuta. Ci sono rimembranze delle sperimentazioni post punk e ovviamente art rock, ma addirittura possiamo cogliere echi di trip-hop e psichedelia che non riesce a scadere mai nel revival. Psichedelia Occulta forse? Mmm, non direi, siamo troppo lontani dalle influenze jazz degli Squadra Omega o da un certo misticismo misto a tribalismo di altre band, come anche dal prog di In Zaire, questi son di Ferrara mica di Torino!

È davvero un unicum questo “Don’t Believe In Time” e non soltanto per il nostro paese.

Giocano i For Food, ma sempre rimanendo fottutissimamente seri. Ci disorientano, ci buttano in un altro spazio e in un nuovo tempo, la melodia non solo c’è ma è l’elemento fondante di tutti i pezzi, anche se poi quasi la si dimentica nell’avvolgente tempesta sonora, mai satura però come nei complessi garage-sperimentali tipo i teramani Inutili.

L’attacco di Opium New Year potrebbe benissimo essere quello di una band indie rock americana per poi concludere con un riff genuinamente punk e la bellissima voce di (credo, perché non ho trovato moltissime informazioni) Agnese “Aggie Rye”, che spazia da Beth Gibbons a Exene Cervenka passando per Grace Slick come se nulla fosse, incantandomi ogni volta.

Punta di diamante la conclusiva La Petit Mort, un po’ Doors un po’ Jefferson Airplane nei primi istanti, per poi perdersi finalmente saturando, un vero e proprio orgasmo finora ritardato e che esplode su chitarre dapprima orientaleggianti poi shoegaze.

Un album di cui non dobbiamo sottovalutare l’influenza non solo sulla scena Ferrarese (che comunque li venera, giustamente) ma su tutto l’underground italiano.

Beh, che dire gente, questo è tutto, tornate pure a fare quello che stavate facendo. Alla prossima.