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Podcast – Dots, Rawwar, Centauri, Ty Segall

E allora sì cazzo. Puntatona di Ubu Dance Party, l’unico podcast di rock underground che non le manda a dire. A meno che non mi ritrovi a letto con l’influenza (odio l’influenza). 3 album italiani uno meglio dell’altro e una feroce stroncatura al Biondo che fa impazzire il mondo.

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«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Rawwar, Thunder Bomber, Thee Oh Sees

Tre recensioni toste di roba che ho ascoltato di recente, avrei voluto mettere qualcosa in più ma è stata la settimana di merda per eccellenza.

RAWWAR – cassetta

Intanto c’è Tab_ularasa, il che ci piace. Poi ci sta Zulfux dei Dead Horses e dei mitici For Food, ci metti anche Doctor Dead del Trio Banana e il rischio di trovarti di fronte ad un album di soli rutti e scorregge diventa quasi una certezza. Ed invece questi tre simpaticoni decidono di fare la cosa più semplice del mondo: divertirsi assieme. Certo, di solito quando uno si diverte risulta anche allegro, invece per i Rawwar evidentemente passare del tempo assieme spassandosela equivale al produrre del garage blues maledettamente abrasivo.

Di solito nel punk così come per il fratellone garage si parla di rabbia in termini creativi, e quando pensi al garage blues se proprio non sei un depravato ti vengono subito in mente gli Oblivians e gli anni ’90. Direi che è normale, no? Ma in questo specifico caso, nelle tre canzoni cagate fuori da quello immagino essere stato un pomeriggio freddo e insipido, c’è più rancore che rabbia (e più noise che garage blues anni ’90).

Nelle liriche il tema del luogo in rapporto al soggetto (andare-muoversi-allontanare) non è affrontato con il piglio intellettualoide di certo punk (non sempre negativo eh, penso agli Alley Cats), questo è un punk senza anthem, un garage senza giri orecchiabili, potete percepire i Pussy Galore ma senza il loro tiro infernale, non c’è nemmeno una melodia trasognate alla Centauri, tre pezzi e nemmeno un accenno di piacevolezza. L’ho trovata una cosa profondamente bella.

Fra l’altro mi sono innamorato di Going South, c’è un riff che ricorda la furia micidiale degli Oblivians ma si perde in un mare di rumore asettico, un pezzo che deflagra per poi raggrumarsi come una ferita adolescenziale. 11/10

THUNDER BOMBER – LOOKING FOR TROUBLE

Al contrario dei loro amici Dots i Thunder Bomber fanno del tiro un espediente più hard rock. Ok, forse non mi sono espresso in italiano, volevo dire che laddove nei Dots c’è una vena quasi pornografica nel rapporto tra funky e punk, i Thunder Bombers sono più i Sonic’s Rendezvous Band senza l’ombra degli Mc5 addosso (molto meglio, eh?). L’energia che scaturisce da ogni singolo pezzo, a metà tra Rocket From The Crypt e Nashville Pussy,  rende “Looking For Trouble” un album decisamente da viaggio o da scazzo, ma che ho paura di dimenticare con la stessa facilità con cui passo da una pinta all’altra al pub.

Adesso cerco di fare mente locale, anche se in realtà arrivo da una settimana in cui mi sono scervellato all’inverosimile per una recensione de Il Girello (opera buffa della seconda metà del seicento), e anche perché Luca è stato gentile a contattarmi senza insultarmi come nel 90% delle mail che ricevo, e infine perché “Looking For Trouble” non è certo una merda, per cui vediamo se riesco a mettere in ordine i miei pensieri da bravo recensore provetto:

COSA MI PIACE Questa è facile, hanno un tiro micidiale, i pezzi anche se non sono particolarmente originali nella composizione mi sembrano molto schietti e con quella sincerità rock ’n’ roll alla Nashville Pussy che ogni ci vuole. Francamente non sopporto più l’heavy metal e l’hard rock da molti anni ormai, non che questo album sia heavy nel senso stretto della parola, però di solito queste sonorità mi fanno incazzare, stavolta no. Sarà perché invece di essere la solita band derivativa di Deep Purple o Led Zeppelin questi prima di tutto si divertono come i matti, e vaffanculo a tutto il resto.

COSA NON MI PIACE È un mio problema ragazzi, non sopporto più gli assoli. Sapete no quelli belli muscolari che arrivano telefonatissimi sulle tibie e ti spezzano le gambe? Mi sembrano eccessi steroidei da palestra, non ne posso più di sentire la solita struttura che si prepara ad ingravidarti senza consenso con l’onanismo del chitarrista di turno. Non ho niente contro il chitarrista dei Thunder Bomber, sia chiaro, va come le palle di fuoco come dicono nel Valdarno, per cui se vi piacciono le sbombardate siete sui lidi giusti. Io preferisco i Crime.

E con questo è tutto. Anzi no.

THEE OH SEES – A WEIRD EXIT

Eccoci al duemillesimo disco dei Thee Oh Sees, una band che in vent’anni (più o meno) ha azzeccato tre album che nel modestissimo avviso di questo blogger spaccano i culi e cagano in testa a qualsiasi stronzata in copertina su Rumore. Il resto della loro discografia… meh. Però dai, ci piazzano sempre qualche assolo alla Barrett, la sezione ritmica alla Cluster/Can/Faust, ma è dal 2013 che non fanno un album decente per il sottoscritto.

Sentite, non me ne frega un cazzo, le ultime robe di Dwyer sono davvero imbarazzanti, vi possono pure piacere per carità, anche perché la band sebbene i cambi di formazione dal vivo è una cosa splendida e lisergica, però “Drop”, lavoro incensato dalla critica e dai blogger hipsteroni è davvero un’accozzaglia di idee riciclate e laccate all’inverosimile. E anche quello dopo, com’era… ah, sì: “Mutilator bla bla bla”, originale come la Coca-Cola della Coop. Il vero problema della band è che l’ultimo cambio di formazione ha sputtanato la compattezza del sound e la sua forza distruttiva a 33 giri, e anche la creatività sembra scarseggiare.

E quindi “A Weird Exit”? Intanto diciamo che c’è ancora Tim Hellman dei mitici Sic Alps, che stavolta non fa la fighetta e pesta duro su quelle quattro corde, poi ci sta il buon Paul Quattrone (dei sopravvalutati !!! di Sacramento) e un tale Dan Rincon che assieme riesumano la sezione ritmica a doppia batteria, potente tanto quanto quella leggendaria di Lars Finberg e Mike Shoun. Ma al netto della potenza e di qualche cosina nuova “A Weird Exit” è solo un buon album e niente più, anche se rischiava di essere un capolavoro del calibro di “Carrion Crawler/The Dream”.

Gli accenni sabbathiani (Gelatinous), il loro garage psych delirante ormai marchio di fabbrica registrato (Dead Man’s Gun), è tutta roba già sentita negli album precedenti con poche variazioni, e questo fa incazzare. Ovviamente è roba buona, ci mancherebbe ragazzi, ma l’abbiamo già sentita nei quattromila album precedenti! I momenti migliori sono sicuramente i due pezzi più dilatati e sperimentali: Jammed Entrance e Crawl out from the Fall Out, una botta di vita che – devo essere sincero con voi, non mi aspettavo nemmeno per un cazzo. C’è persino l’influenza dei migliori Brian Jonestown Massacre nella finale The Axis, forse uno dei pezzi più affascinanti nella loro intera discografia. Però… non c’è troppo da dire in realtà.

Sembra che Dwyer si sia ormai normalizzato, tutti gli elementi che rendevano i Thee Oh Sees un gruppo unico nel panorama garage mondiale, tra i più seminali di sempre e con non pochi proseliti, ormai sono diventati rassicuranti tappeti sonori balsamici, accomodanti muri di suono privi di qualsivoglia necessità. Certo è che qualche guizzo quest’ultimo album ce l’ha, e anche di un certo capriccio ecco, per cui non vendiamo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.

https://open.spotify.com/user/micolash90/playlist/47PY2PDY9uePxoJm34bqBI

Centauri / Dead Horses split

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Etichetta: Lepers Production
Paese: Italia
Pubblicazione: 1 Novembre 2016

La malinconia celata in un feedback può essere difficile da cogliere, un rumore in fondo è solo un rumore, eppure da John Cage a Iannis Xenakis ne abbiamo di esempi di come il rumore possa diventare vettore di sensazioni, riflessioni, e perché no: emozioni.

Nella storia del rock ne abbiamo ascoltati di rumori assordanti eppure significativi, dai Velvet Underground ai Sonic Youth, non mi sento affatto fuori luogo ad inserire in questa esclusiva famiglia il denso discorso sonoro dei Centauri. Questa band prodotta da una delle migliori etichette italiane del momento, la barese Lepers Production, riesuma la semplicità melodica di certo alternative degli anni ’90 e la immerge in stratificazioni rumorose incredibilmente espressive.

Il loro esordio discografico credo sia del 2014, con “Centauri” (of course), una deliziosa vertigine di noise e Faust, ma non i Faust degli inizi ma quelli laconici di “The Faust Tapes”. Il martellio del piano che si perde in uno spazio siderale saturo di frequenze di Alfa Centauri A, spiega meglio di quanto io possa fare l’eleganza dietro questo album (il suo continuo, Alpha Centauri B invece rigurgita del rock un po’ come i Pussy Galore nel bel mezzo del delirio sparavano un blues infernale).

Personalmente provo quasi una venerazione per questo lavoro, sopratutto quando mi ritrovo a leggere riviste come Rumore dove si parla di espressività in merito all’ultimo lavoro di Lady Gaga, laddove quell’espressività anche se ci fosse è stata talmente sviscerata da avere poco da aggiungere, i Centauri invece sono una di quelle band che si muovono tra i confini dei generi, non cercando di scavalcarli ma piuttosto spingendoli un po’ più in là. La tensione fantascientifica della band, più Tangerine Dream che Sun Ra, si sposa con un folk trasognato, e non senza un certa meraviglia ci ritroviamo a navigare nel nostro universo interiore.

Lo split uscito questo primo Novembre con i Dead Horses è un evento per chiunque abbia a cuore l’underground italiano. I Dead Horses, trio acustico dalla febbrile Ferrara, altro non sono che una declinazione dei For Food di cui abbiamo già parlato in una entusiastica recensione che vi linko qua.

Quindi che cosa succede in “Centauri – Dead Horses”?

I Centauri si presentano con tre tracce, proseguendo il discorso del loro “The Centauri Tapes” (eh), sposando una vena piuttosto malinconica e incredibilmente efficace, che esplode in tutta la sua meravigliosa fragilità nei 5 minuti di Unza.

I Dead Horses tornano dopo il loro folgorante debutto per la Bubca Records di Tab_Ularasa, e presentano quattro pezzi ormai rodati. Anche se li accumuna una certa urgenza espressiva non sono da confondersi coi siciliani Pan Del Diavolo, nei Dead Horses è tutto “in potenza”, quasi mai la tensione deflagra in un coito rockeggiante. Il rumore c’è anche qui, se The Cross sembra uscita da una casa di produzione indie, Before you judge me suona come se fosse stata partorita tra il sangue e le urla di un garage di periferia.

La musica dei Dead Horse raggiunge vette mistiche, scompare la rabbia di certo folk italiano da classifica per far posto ad un lento rituale misterico.

Due anni fa Mirrorism e For Food hanno segnato rispettivamente delle vette da raggiungere nel panorama nostrano, l’anno scorso gli Hallelujah!, evoluzione dei Vairus, hanno esordito con uno dei più potenti 12” che abbia mai sentito, e quest’anno Centauri e Dead Horses spostano ancora più in là il confine.
E meno male che la musica in Italia fa cagare.

Bidons, Mirrorism, For Food

Finalmente ho trovato un po’ di tempo per annoiarvi con le solite recensioni MA stavolta si cambia aria! E basta con ‘ste cazzo di band californiane, e che siamo una colonia americana? Ah, “sì” dite?

RECENSIONI DI BAND ITALIANE come avete più e più volte richiesto per mail e su Facebook maldetti stalker bastardi schifosi luridi «Oh, finalmente le recensioni di Tab_Ularasa, VAIRUS e La Piramide Di Sangue che ti chiediamo da secoli!» ehm, in realtà non proprio eh. Però quasi, come cantava Freak Antoni.

La Salerno garage dei Bidons

Un minuto di silenzio per il nome della band.
Proseguiamo.

Come indica in maniera vistosa il loro logo su Bandcamp i Bidons suonano un “garage per le masse”, una musica democratica e fiera della sua immediatezza, come ci hanno insegnato papà Bangs e mamma Sonics. I ritmi del loro primo album del 2012 “Granma Killer!!!” sono però deliziosamente rock and roll più che punk-garage (vedasi il pezzo 2009) con venature power pop ma senza l’egemonia della chitarra a tutti i costi, sono persino ballabili i bastardi!

Per cui è ovvio, come i più intransigenti di voi avranno subito capito, che qui siamo su una sponda più catchy del garage, compiacente e divertente, il che di per se non dev’essere un male a prescindere però è chiaro che se preferite suoni abrasivi e gli sputi in faccia i Bidons non fanno per voi (come anche la società civile, ma questo è un altro discorso).

Due cover eccellenti, Be A Caveman degli Avengers e Night Time dei Strangeloves, gli ululati alla Cramps di Wolves of Saint August, un album che si mastica bene e si dimentica altrettanto facilmente… Avrebbero anche i numeri questi quattro salernitani, ma manca il singolone spaccadenti, l’ariete d’assedio, la HIT insomma. Ci provarono subito l’anno dopo col singolo Raw, Naked & Wind, misto di White Stripes e sixties ben congegnato, apripista per il loro secondo album: “Back To The Roost”.

Si alza il volume stavolta, meno rock and roll e più furia Nuggets, leggermente più vintage ma non lo-fi e con una title-track memorabile. Meno paraculi dei Double Cheese ma altrettanto bravi nel combinare riff, assoli brevi ma cazzuti e ritmi forsennati. Non sono proprio la band per cui vado pazzo di solito, però come spinge (Shout it out) Burn Down! e come galvanizza il riff di I don’t mind!

Insomma: di sicuro il loro lavoro migliore, sopratutto alla luce dell’ultimo album “Clamarama”.

Non voglio partire prevenuto quando recensisco un album, mai, però già dopo aver ascoltato il pezzo d’apertura, Do it alone, mi è scesa parecchio la scimmia che si era arrampicata faticosamente nel 2013 per “Back To The Roost”. Più power pop che garage, assoli da masturbazione seriale, riff troppo troppo troppo orecchiabili, cazzo è come spararsi nelle orecchie un misto di Bass Drum of Death-Jet-Double Cheese tutto patinato e ripulito fino all’inverosimile.

Dal punto di vista compositivo probabilmente siamo di fronte al loro album più riuscito, se sparato a tutto volume dalle casse sembra inciampare clamorosamente con i suoi stessi cliché ma senza auto-ironia. Probabilmente a quelli di voi che preferiscono gli Smithereens agli Oblivians questo album provocherà orgasmi multipli da qualsiasi orifizio, perché i Bidons ci sanno fare eccome. Personalmente ho faticato non poco ad arrivare alla fine dell’album.

Passiamo alla roba seria, passiamo alla scena Ferrarese.

Captain Beefheart è sceso a Ferrara: ovvero come i Mirrorism mi hanno spappolato il cervello

Io la prima demo dei Mirrorism non so dove cazzo cercarla. Probabilmente dovrei contattare la band, ma tra tutti i contrattempi della vita mia non ho mai trovato lo spunto per decidermi e rompergli il cazzo, così la roba più vecchia che ho trovato è del 2012, un EP titolato “Fly Eye”.

E nulla, già dopo S.P.O.W. ho dovuto spararmi una sega per svuotare tutta l’emozione che mi si era accumulata nelle palle. Post-punk? Un po’, per nulla nostalgico dei tempi che furono, ma che ne riprende le cose migliori, i ritmi sghembi, le chitarre inquietanti, la voce che passa dalla narrazione alle urla più agghiaccianti, sicuramente caratterizzato da una attitudine tutta loro. Sembra che i titoli stampati nella musicassetta fossero pure sbagliati e questo gli vale cinque punti in più a bocce ferme.

Night Flight mi ricorda i cambi repentini e la frenesia di alcuni pezzi degli australiani Total Control ma l’aggiunta del sax (per nulla Morphine ma mooolto beefheartiano) è un tocco di classe ineguagliabile, bellissime anche la lenta Slow Homo, la punkettona Exit The Loop e Anti Bodies.

È come trovarsi di fronte ad un piccolo miracolo, come quando ascoltai per la prima volta i VAIRUS «Ma allora è possibile fare della merda di qualità pure in Italia!»

Sarà addirittura la Trouble In Mind a produrgli il 7’’ con Night Flight e Exit The Loop nel 2013. Ovviamente sarà un successo nazionale ed internazionale, li avrete sicuramente visti a Sanremo, a Lollapalooza, agli Oscar e dal Papa vestiti da chierichetti.

E poi, due anni fa e due giorni dopo il mio compleanno, arriva il regalo più bello: “Mirrorism”, la loro consacrazione, il loro primo vero album, caricato free su Bandcamp. E in concomitanza la notizia del loro scioglimento. MAPORCODIO.

Amici: possiamo urlare al capolavoro e non vergognarci. Cazzo bisogna dire di un album così? Infiltrazioni psichedeliche deliranti, un theremin mai così psicotico prima, ogni cristo di pezzo sembra partorito in un momento di lucida creatività mai più raggiungibile, come se in quel preciso momento le sfere celestiali e le loro palle si fossero congiunte su una linea retta cosmica, anche se non lesinano coi rumori/suoni e le distorsioni sembra tutto estremamente controllato e calibrato.

Solo White Jam se magna a colazione gran parte della produzione australiana e californiana contemporanea, se poi vai avanti è sconcertante la facilità con cui le idee scorrono fluide e sempre brillanti, fino alla deflagrazione finale: quei sette minuti e ghianda di Loose End che da due anni a questa parte il mio pezzo rock italiano preferito in assoluto.

Compratelo se potete, in digitale of course, ed amatelo fisicamente.

E dopo tutti ma prima di tutti: i For Food

Prima o poi anche di loro bisognava parlare.

Probabilmente preceduto da qualche EP che mi sono perso, i For Food hanno all’attivo un solo album uscito nel 2014 e composto da sette pezzi che provocano uno spaesamento totale. Agghiacciante ed estetica in modo malato la prima vera traccia, Love, Sex & Drugs, ci colpisce subito per una cifra stilistica unica e destabilizzante, qua mettersi a fare troppi discorsi attorno al genere diventa pericoloso ma purtroppo necessario.

Categorizzare in musica, in particolare negli studi musicologici più che nella critica la quale etichetta a caso un po’ tutto, serve a collocare nel tempo e nello spazio un dato fenomeno musicale e di solito aiuta a comprenderne tutte le unicità. Però con i For Food è davvero un macello. Insomma, con i Mirrorism l’etichetta post-punk gliela affibbi e per quanto gli possa stare stretta se la tengono e non devono rompere il cazzo, ma con i quest’altri ferraresi c’è da bruciarsi le sinapsi.

Cos’è una City Light? Io un nome l’avrei: capolavoro, di nuovo, ma non ci aiuta. Ci sono rimembranze delle sperimentazioni post punk e ovviamente art rock, ma addirittura possiamo cogliere echi di trip-hop e psichedelia che non riesce a scadere mai nel revival. Psichedelia Occulta forse? Mmm, non direi, siamo troppo lontani dalle influenze jazz degli Squadra Omega o da un certo misticismo misto a tribalismo di altre band, come anche dal prog di In Zaire, questi son di Ferrara mica di Torino!

È davvero un unicum questo “Don’t Believe In Time” e non soltanto per il nostro paese.

Giocano i For Food, ma sempre rimanendo fottutissimamente seri. Ci disorientano, ci buttano in un altro spazio e in un nuovo tempo, la melodia non solo c’è ma è l’elemento fondante di tutti i pezzi, anche se poi quasi la si dimentica nell’avvolgente tempesta sonora, mai satura però come nei complessi garage-sperimentali tipo i teramani Inutili.

L’attacco di Opium New Year potrebbe benissimo essere quello di una band indie rock americana per poi concludere con un riff genuinamente punk e la bellissima voce di (credo, perché non ho trovato moltissime informazioni) Agnese “Aggie Rye”, che spazia da Beth Gibbons a Exene Cervenka passando per Grace Slick come se nulla fosse, incantandomi ogni volta.

Punta di diamante la conclusiva La Petit Mort, un po’ Doors un po’ Jefferson Airplane nei primi istanti, per poi perdersi finalmente saturando, un vero e proprio orgasmo finora ritardato e che esplode su chitarre dapprima orientaleggianti poi shoegaze.

Un album di cui non dobbiamo sottovalutare l’influenza non solo sulla scena Ferrarese (che comunque li venera, giustamente) ma su tutto l’underground italiano.

Beh, che dire gente, questo è tutto, tornate pure a fare quello che stavate facendo. Alla prossima.