Etichetta: Ramp Local
Paese: USA
Anno: 2023
Archivi tag: Frank Zappa
black midi – Hellfire
Etichetta: Rough Trade
Paese: UK
Anno: 2022
Frank Zappa, Gang Of Four, Miss World
La faccio breve: in questi mesi ho avuto parecchi cazzi da pelare, per cui non rompetemi il gatto. «Vabbè, però avrai sicuramente ascoltato un po’ di musica!» Vero, però poco rock ’n roll, e sopratutto pochissima roba uscita di recente ma quasi ed esclusivamente riascolti di vecchi album. Potrei scrivere di Sage Francis, Thundercat, della Camerata Nordica o di Mahler, ma sono abbastanza sicuro che quello che ne verrebbe fuori sarebbero una cascata di banalità e stronzate colossali, e dato che per quello c’è già il Rolling Stone non vedo perché mi ci dovrei mettere pure io. Alla luce di tutto ciò vi lancio qualche brevissima istantanea (perché non sono recensioni) e due o tre riflessioni estemporanee, leggere come l’aria.
Frank Zappa
Apostrophe
(1974)
Tra Settembre e Dicembre mi sono ripescato tutto lo Zappa dai “Lost Episode” targati 1959 fino a “Joe’s Garage” del ’79, in una sorta di delirio nostalgico per i tempi che furono quando al liceo scoprì questo pazzo baffuto. In un moto di rivalutazione sentimentale mi sono persino ritrovato ad apprezzare “Cruising with Ruben & The Jets”! Quasi mi stavo per sparare un album dei Climax Blues Band in questo clima riappacificatorio e dolciastro, e devo dire che stava andando tutto benone, ascoltando “Over-Nite Sensation” credo di aver avuto persino un’erezione durante l’assolo di Zomby Woof. Poi però è successo, di nuovo. La magia è scomparsa e tutt’un tratto Zappa mi è sembrato uno dei peggiori bastardi della storia del rock. Tutta colpa di quel pasticcio commerciale e ruffiano di “Apostrophe”.
La musica di Zappa dal 1974 si è trasformata da provocatoria a idiota con un colpo da maestro. Completamente rincretinito dalla sua stessa grandezza Zappa ha cominciato a riciclarsi e a spostare la sua attenzione verso la perfezione estetica dell’esecuzione, producendo una quantità incontenibile di musica fine a se stessa, caratterizzata nei momenti migliori da lunghissime elucubrazioni elettriche, altrimenti ti toccavano oscene derive pseudo-sperimentali (“Francesco Zappa”), e in generale tutte le sue canzoni divennero metafore più o meno dirette su quanto ce l’avesse lungo.
Non è che tutto quello che sia uscito dopo il ’74 sia merda chiaramente, ci sono parecchi pezzi che si salvano dal generale appiattimento della produzione zappiana, ma sono monadi, brevi esternazioni di un genio un tempo incontenibile.
Anche nei suoi album meno riusciti prima di “Apostrophe” Zappa conservava comunque una fortissima coerenza concettuale, completamente mandata a puttane per favorire la catarsi delle live, lunghissimi flussi di coscienza che cominciavano e si concludevano nell’esaltazione delle sue doti di chitarrista. Riascoltare le soluzioni timbriche di “Hot Rats” complicate oltremodo in St. Alfonzo’s Pancake Breakfast e Father O’Blivion mi ha fatto tornare la colazione sù per l’esofago. Dopo aver parodizzato tutta la storia del rock Zappa ha fatto il giro e, senza rendersene conto, a cominciato a parodizzare se stesso.
Gang Of Four
Entertainment!
(1979)
È incredibile quanti gruppi di merda debbano le loro migliori intuizioni a questo album. Di tutta la prima fondamentale ondata post-punk i Gang Of Four rappresentano il giusto equilibrio tra sperimentazione e ballabilità. Intellettuali ma funky, con riff catchy ma anche feedback lancinanti, pensate che negli anni ’80 venivano considerati un ascolto difficile, oggi invece sembrano i più fruibili di quella eccezionale sfornata di punkers intellettualoidi.
Anche loro come Pere Ubu, Throbbing Gristle, Young Marble Giants rispondevano ad una tensione collettiva verso l’apocalisse, perlopiù divisa tra chi ne faceva una battaglia politica e chi una sociale. Chiaramente i Gang Of Four non erano gli Scritti Politti, e così la loro rabbia generazionale si scagliò principalmente contro la musica commerciale.
Questa comune visione di un mondo allo sfascio, dove le industrie chiudono e il sogno capitalista sembra trasformarsi per molti in un incubo, aveva generato una serie di singoli nell’ambiente post-punk piuttosto espliciti. Gli Ubu avevano nel primo album un pezzo come Chinese Radiation, i Throbbing Gristle un singolo come Zyclon B Zombie, i rarefatti Young Marble Giants invece Final Days. In “Entertainment!” non c’è un pezzo corrispettivo a quelli appena elencati, perché tutto l’album tende per sua natura verso una dimensione paranoica. Il prezioso corollario di immagini nelle liriche, cantate con fare un po’ altezzoso da Jon King, costruisce un mondo giovanile arido e pericolosamente apatico, chiuso all’interno di una discoteca senza porte in cui i Gang Of Four suonano a loop i loro pezzi.
In effetti la band sembra in trance per tutta la durata del disco, persino mentre la batteria di Hugo Burnham sembra in alcuni momenti riprendere il drumming nevrotico e claustrofobico di John French.
Incredibile la conclusione dell’album, tanto immensa e irraggiungibile da rendere ogni tentativo futuro della band di ripetersi a quei livelli puerile e futile. Due voci che si ignorano per poi trovarsi causalmente dopo una nebbia di effluvi elettrici, mentre la sezione ritmica martella come nei Neu!, sono la summa del lavoro di compressione e spigolatura del sound new wave proposto dalla band inglese. Anthrax è più una performance che una canzone vera e propria, potrebbe benissimo essere parte integrante di uno spettacolo di Roberto Latini e nessuno se ne stupirebbe nemmeno un po’.
Miss World
Waist Management [EP]
(2017)
Non so nemmeno come l’ho scoperto questo Ep. Probabilmente cliccando a caso qua e là in un momento di noia – uno dei pochi concessomi in questi mesi. Ve lo dico chiaro e tondo: non esiste nessun motivo al mondo per cui dovreste ascoltare “Waist Management”. Le canzoni sono banali, il garage pop che ci troverete è indietro di dieci anni in termini di freschezza, e di quattro canzoni una è un riempitivo bello e buono. Però, mi venissero le pustole nei condotti uditivi, è la cosa che ho più ascoltato da Settembre a Dicembre. Perché? Boh.
L’idea di base di Miss World è che lei è una ragazza incredibilmente gnocca, che vende la sua compagnia e il suo corpo per campare ogni giorno alla bell’e è meglio. In Buy Me Dinner giura d’innamorarsi di un tizio sposato se gli offrirà il pranzo, in Put Me In A Movie afferma che tutti i suoi amici vorrebbero metterla in un film (di che genere ve lo lascio intuire a voi), in Click And Yr Mine Miss World «fell in love in Internet» e non si rialza più. Lip Job, come avevo detto, è un riempitivo sulla fellatio.
Non so cosa sia successo, ma la storia di Miss World mi ha conquistato. Mi è anche venuta voglia di riascoltarla. Adesso.
PROSSIMAMENTE SU QUESTO BLOG:
1) Una recensione del primo storico flop dei Rolling Stones;
2) La tragica ed emotiva recensione del primo CD rock della mia vita: “Selling England By The Pound”.
(Tranquilli, le ho già scritte. Più o meno.)
Podcast – Gli album del Kuore <3
Per concludere la prima stagione di Ubu Dance Party abbiamo voluto sperimentare questo format, in realtà tra i primi ad esser stati ideati ormai 4 mesi fa. ‘Fanculo la critica e gli atteggiamenti da sapientoni di ‘sto gran cazzo, stavolta si parla col KUORE (o QUORE, che dir si voglia), perché la musica è anche emozioni, anche se a scrivere questa parola mi è salito uno strano conato, gusto vaniglia e birra della COOP.
Bando alle ciance cari fedeli seguaci del party più sconsiderato che ci sia, godetevi questa rinfrescante puntata, con Ubu Dance Party ci si ribecca a Settembre!
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Podcast – Captain Beefheart ’72-’74
Sulle frequenze lisergiche di Radio Valdarno eccovi su Mixcloud il vostro podcast preferito, Ubu Dance Party! In questo delirante episodio ci concentreremo sull’analizzare il periodo più controverso della discografia beefheartiana, ovvero il biennio ’72-’74, quello di “The Spotlight Kid”, “Clear Spot”, “Unconditionally Guaranteed” e “Bluejeans & Moonbeams”, il tutto condito da zoofilia, analisi musicologiche, aneddoti, cazzate e digressioni sull’olocausto.
Benvenuti su Ubu Dance Party.
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Captain Beefheart & The Magic Band – Lick My Decals Off, Baby
«Madò, anche oggi non c’ho voglia di scrivere…»
«Ma che cazzo l’hai aperto a fare il blog, scusa?»
«Io volevo solo scrivere di quanto fosse figo Metal Machine Music e di quanto facesse cagare Bananas, però la cosa m’è sfuggita di mano.»
«Ma non ce l’hai una nuova band garage fresca fresca? Non hai ascoltato un tubo ultimamente?»
«Eh no, ho ascoltato parecchio, ma il 99% della roba è puro revival del cazzo, col riffino surf rock, la melodia canticchiabile sotto l’ombrellone, la chitarra distorta…»
«Allora fai un album non contemporaneo, che ne so, tipo Blanck Generation (che avevi promesso a gennaio 2013!), il primo dei Dead Boys, o qualcosa di più astruso, tipo i Cromagnon o i Godz! Quanto so fighi i Godz?»
«Potrei fare Lick My Decals Off, Baby!»
«E che cazzo è?»
«Hai le traveggole? Il quarto di Beefheart.»
«Aaaaah.»
«”Aaaaah” che?»
«No, dico, bello eh, quello dopo Trout Mask Replica, giusto? Molto simile, una specie di continuazione.»
«Ma l’hai mai ascoltato?»
«E che, no? Un capolavoro.»
«Qual’è il primo pezzo?»
«Come scusa? Vuoi andare a Cortina d’Ampezzo?»
«Il primo pezzo dell’album, qual’è?»
«Eeeeh, boh, l’ho ascoltato UN SACCO DI TEMPO FA, credo fosse… eh, insomma, The Host, The Ghost, The…»
«Se vabbè, ma quello è il secondo di Ice Cream for Crow!»
«Ah, unnè di Safe As Milk?»
Sì, perché “Lick My Decals Off, Baby” soffre di questa sindrome del “Trout Mask Replica 2 – la Vendetta” senza alcun motivo, ma che ne determina spesso la superficialità d’ascolto.
Perché fa tanto figo raccontare a giro che Captain Beefheart te lo rizza fino in cielo, ma poi c’hai a casa la discografia dei Nazareth quasi consumata dall’ascolto, e un “Safe As Milk” intatto in mezzo ai 33 dei Matia Bazar di tua madre.
Non è che sia un male se non ti piace Captain Beefheart, non hai peccato né verrai giustiziato, né tantomeno giudicato (se non dagli stronzi), però è cento volte peggio fare il fanboy del Capitano e poi conoscere a mala pena TMR e piuttosto bene l’esordio blues.
“Lick My Decals Off, Baby”, che d’ora in poi chiameremo LMDOB, è uno degli album rock più devastanti che avrete mai il piacere di ascoltare, un album che, occorre sfatare il mito, non è un proseguo di TMR, se non nella sconsiderata distruzione di ritmo, melodia, tonalità e qualsivoglia regola nel blues rock. LMDOB è molto più maturo, più compatto se vogliamo.
TMR è follia dadaista, una sorta di devastazione che poi ha generato le esperienze più travolgenti del rock (molta new wave deve tutto a quest’album, e non solo), uno sconvolgimento del blues, al quale si toglie la struttura ossea ma si mantengono intatte le budella.
In LMDOB Beefheart si fa più “serio” se vogliamo. Con l’uscita dalla Magic Band di Mascara Snake (clarinettista) e Doug Moon (chitarrista) si serrano le fila, e il sound è meno apocalittico e più uniforme, come un flusso di coscienza. Basta ascoltare il caos controllato di Bellerin’ Plain per rendersi conto di quanto rigido fosse Beefheart, e di quanto controllo ci fosse dietro la maschera dell’improvvisazione, un concetto lontanissimo dall’estetica beefheartiana.
Se in TMR era John French (detto Drumbo, il leggendario batterista) a mantenere stabile il castello di carte compositivo del Capitano, qua non c’è più bisogno di espedienti, libero dalla presenza di Zappa Beefheart doma la sua Magic Band come un vero direttore d’orchestra, e il sogno di un album senza strumenti protagonisti si realizza nei primi mesi del 1970.
Scompaiono i dialoghi tra chitarre da una cassa all’altra, scompaiono gli intermezzi parlati, e nemmeno Beefheart è protagonista, è forse l’album rock più musicale che ci sia, dove per musica s’intende una serie di musicisti del tutto asserviti a costruire qualcosa che non abbia NIENTE di loro.
Forse è difficile da afferrare per un neofita del Capitano, ma lo scopo di Beefheart era di estraniare il musicista dalla musica che stava suonando, per avere lui e lui soltanto il controllo totale di ogni nota. E difatti in quest’ottica vanno viste tutte quelle puttanate sulla telepatia che Beefheart rifilava ad ogni intervista dell’epoca, questa forma di comunicazione tra lui e i musicisti che non avesse bisogno della parola, un vero e proprio flusso di coscienza musicale.
Ogni pezzo di LMDOB si può virtualmente scomporre, ed ogni suo aspetto risulterà inevitabilmente affascinante e innovativo. Il ritmo, l’armonia, la sua evoluzione, la voce. Ci sono solo due pezzi totalmente rilegati alla chitarra acustica, Peon e One Red Rose That I Mean, i quali riportano coi piedi per terra l’ascoltatore, gli unici intermezzi concessi nel fluire incessante delle idee più strampalate.
In compenso a quanto può sembrare leggendo questa recensione, quello che colpisce maggiormente di questo quarto album del Capitano è la disciplina, come detto prima questa “compattezza” che in TMR era solo un’ideale qui diventa pratica. Ed è forse in questo che è minore, ma non di tanto, all’album precedente.
Per quanto il blues distorto di The Smithsonian Institute Blues (Or the Big Dig) sia alla pari con quello di Moonlight On Vermont dal punto di vista compositivo, cioè nella devastazione delle regole di base, manca l’energia prorompente e volutamente provocatoria di TMR. Ciò non toglie, sia ben chiaro, che sia un pezzo della Madonna.
Infatti in confronto all’epocale album che lo precede, LMDOB guadagna parecchio in termini di piacere all’ascolto, perché la Magic Band è in forma smagliante, e i pezzi sono TUTTI dei capolavori. Frenetica, assurda e delirante Lick My Decals Off, Baby, il pezzo che dà il nome all’album e che apre le danze come un’esplosione caleidoscopica, dando la sensazione che l’album non avrà un secondo di pausa.
Lo conferma il piglio storto di Doctor Dark, i testi di Beefheart dadaisti come al solito non vogliono evocare (come farà poche volte in carriera effettivamente, forse in Neon Meate Dream of a Octafish, sicuramente con Zappa nel testo di The Torture Never Stops) ma solo calpestare ogni barlume di buon senso, di melodia e di piacevolezza. Col cazzo che lo fischietti sotto la doccia il “motivetto” di Doctor Dark.
Già di tutto un altro pianeta è I Love You, You Big Dummy, col sassofono acido del Capitano che anticipa un dialogo classico negli album successivi (quello chitarra-sassofono che manterrà nel proseguo più commerciale degli album che seguirono LMDOB), una versione più coraggiosa di Frank Zappa, che due mesi prima aveva pubblicato “Hot Rats”, grande album, reso tale anche dalla voce del solito Capitano in Willie The Pimp, e che comunque non vale il Lato A di LMDOB.
Tra i pezzi che mi piacciono di più c’è sicuramente Woe-Is-Uh-Me-Bop, la perfetta presa in giro del rock soul da radio, del tutto destrutturato se non per il ritornello alla Sam & Dave gracchiato da Howlin’ Beefheart Wolf. Comunque si fa fatica ad non amarlo questo album, persino l’ormai odiato Zappa viene decostruito in I Wanna Find A Woman That’ll Hold My Big Till I Have to Go, a questo punto Beefheart non ha più punti di riferimento se non se stesso (c’è più Albert Ayler e Eric Dolphy che Delta Blues in questo album!).
Mi viene in mente adesso (cristo, che recensore professionista che sono!) l’attacco di The Buggy Boogie Woogie, perfetto, senza stranezze, e poi la voce del Capitano che distrugge la fragile melodia faticosamente conquistata a metà del Lato B. Il contrario di quanto fatto per esempio in Woe-Is-Uh-Me-Bop.
Insomma, “Lick My Decals Off, Baby” non è “Trout Mask Replica”, forse non è bello altrettanto, ma è comunque un album nel quale l’unico difetto evidente è che, ineluttabilmente, finisce.
Captain Beefheart & His Magic Band – Trout Mask Replica
Se avete quest’album e avete già letto un paio di tonnellate di recensioni e volete leggervi pure questa allora sappiate che siete messi maluccio.
Se non sapete cosa sia questo album proseguite nella recensione come se niente fosse.
Di “Trout Mask Replica” ne sentirete parlare come “il più grande album di tutti i tempi” o come “le mie scoregge suonano meglio e puzzano meno”. Quando ci si trova di fronte ad un opera che divide e polarizza la discussione in modo così deciso bisogna innanzi tutto fare ordine.
La cosa migliore sarebbe questa: fregatevene di cosa ne dice la g-gente, compratevi ‘sto dannato disco e mettetelo sul piatto, fatelo girare ben ben e accostate la puntina con estrema lentezza per gustarvelo in santa pace. Oppure scaricatelo da iTunes e fatelo partire sul vostro asettico iPod. Ecco, ascoltatelo con leggerezza, con divertimento e senza troppe seghe mentali. Se vi piacerà, bene, se non vi piacerà, chissene, avanti il prossimo!
Ma, ehi, quando devi tirarci sù una critica costruttiva allora non puoi mica svignartela così bello mio.
È facile dire: l’ho letto su Wire, è un fottuto capolavoro, quindi zitto e muto!
Come è altrettanto facile affermare: non sa di un cazzo, è fatto per ridere, perché dovrebbe essere il disco più figo del rock se non suona nemmeno rock???
Però queste non sono discussioni in merito ad un album, ma bisticci idioti senza direzione.
La critica musicale non ha apprezzato all’unanimità TMR alla sua uscita. Gran parte degli elogi venivano dalla critica rock più “estrema” e riluttante ai soliti nomi che vivacchiavano in alto alle classifiche, e anche da una parte della critica jazz con forti accezioni fortemente sperimentali.
Nel corso della storia l’album in questione è stato pian piano riconosciuto universalmente come un capolavoro unico e irripetibile, e sono pochissimi (sempre che esistano) i critici musicali che mettono in dubbio la caratura di questo disco.
Ma ovviamente la critica musicale non è tutto, anche se in questo campo è la voce più autorevole (sopratutto quando un album è ormai storicizzato e può essere valutato in modo più oggettivo).
Probabilmente la parte più complessa nel valutare oggettivamente un album risiede nel momento in cui ti rendi conto che quell’album ti fa cagare.
La prima volta che ascoltai TMR mi piacque, quindi non faccio testo, ma è più comune che avvenga il contrario data l’unicità compositiva che lo diversifica in modo così violento da tutta la produzione rock fino al 1969, e che ancora oggi trova pochi esempi egualmente al limite.
Detto ciò io ho mal digerito al primo ascolto i Little Feat, i Creedence Clearwater Revival e addirittura (e non mi vergogno ad ammetterlo) i Gun Club. Sono tre esempi di fruibilità completamente diversi e certamente più accessibili di TMR come anche di approccio al rock, e sebbene all’inizio li trovai non adatti a me (per non dire insopportabili) ne riconobbi subito il valore storico. Ho voluto fare questo esempio perché in questi mesi sto riascoltando ed rivalutando proprio queste tre band (dei Gun Club ho acquistato tutta la discografia nell’arco di un mese!), ma per alcune non ci sono stati cazzi, mi annoiano a morte a prescindere dal loro valore storico.
Il nocciolo della questione è: ma che valore storico ha TMR?
Beh, sarebbe lunga, ma mi limiterò alle mie impressioni da totale imbecille sul web col suo bel blogghino da sfigatello.
Se escludiamo Ella Guru, Moonlight On Vermont e Sugar ‘n Spikes, le uniche tre tracce a presentare una forma quasi melodica o tradizionale a tratti, il resto dell’album è un volo che viene delle volte erroneamente definito psichedelico (oppure di matrice blues) quando invece è solo free-form e anarchia jazz-rock totale.
Tutto parte dalla seminale mente di Beefheart, che sperimenta su un pianoforte che non sa suonare idee, concetti e impressioni del tutto fuori da ogni schema compositivo, lasciando che Drumbo (all’anagrafe John French, il batterista della Magic Band) cercasse di dare un vago senso compiuto a quegli schizzi anarchici.
Oltre le leggende, che potete leggere più o meno ovunque, la cosa che deve saltare all’orecchio è come Beefheart in modo del tutto tirannico (come ogni regista che si rispetti e non ho usato la parola regista a caso) costringe la sua band a delle sessioni di lavoro da gulag russo, lasciando che la sua creatura prendesse il sopravvento sulla razionalità e sul controllo che normalmente hanno i musicisti sulle loro composizioni.
Le poche interviste di Beefheart rilevano come il concetto alla base del Capitano fosse quello di eliminare le singole personalità, proponendo un lavoro stanislavskiano di musicista fuori dalla musica che sta suonando, diventandone parte concreta.
In fondo il concetto non è così complesso come può sembrare, la situazione in cui versano i musicisti violentati da Beefheart è quella di un drogato che prova un senso di totale unità con l’universo che lo circonda pur essendo al di fuori di sé.
Questa operazione, sebbene anarchica, è sostenuta da una tecnica e da un controllo eccellente, spesso ai limiti possibili. Nessuno la fa fuori dal vaso, le due chitarre poste una destra e l’altra a sinistra provocano l’ascoltatore (sono le impressioni di Beefheart, le idee anarchiche fuori da ogni concetto prima ideato) mentre la batteria di Drumbo, posta sempre al centro (a parte in piccole idee particolari come in The Blimp (Mousetrapreplica)), è il collante necessario (e aggiungo: la parte razionale) per mantenere stabile questo monumentale e azzardato progetto.
Ci sono anche tantissimi momenti morti (il primo che mi viene in mente è la pausa tra Hair Pie: Bake 1 e il bellissimo attacco di batteria di Moonlight On Vermont) ci sono anche momenti in cui Beefheart canta senza accompagnamento (tramite il collage di strofe cantate singolarmente, come in Orange Claw Hammer) e addirittura c’è una registrazione della band mentre mangia (nei primi istanti di Fallin’ Ditch).
Difficile definire tutto questo come un album prettamente rock, o addirittura un album di musica in generale. L’esperimento di Beefheart è una doppia provocazione, sia al musicista esperto che al fruitore occasionale. Al primo mostra i muscoli (Sugar ‘n Spikes) e anche la possibilità di andare oltre la tonalità e alle leggi che regolano il limitatissimo mondo del rock (che poi è il principale motivo per cui questo album è considerato così fondamentale), al secondo propone un ascolto più partecipato, più sensibile, perché TMR non è affatto un album costruito per emozionare o cose così, la sua sensibilità non sta nel farti fare due lacrimuccie o a farti incazzare contro il Reagan di turno, ma cerca piuttosto di estraniarti da te stesso per raggiungere il Capitano nella sua jam infernale.
Anche nei testi risulta difficile trovare un senso comune, si va dalla rievocazione dell’olocausto di Dachau Blues alle immagine sessualmente contorte di Neon Meate Dream of a Octafish, il tutto ispirato da una ricerca squisitamente dadaista (forse delle volte anche tramite la tecnica del cadavere squisito).
Il metodo di Beefheart si allontana decisamente dalla serietà degli esperimenti free-jazz o del rock definito underground, perché se da una parte il controllo tecnico e concettuale sull’opera è totale, dall’altro il Capitano sta sbeffeggiando goliardicamente i limiti auto-imposti del rock.
L’infinito accostamento di idee, suoni, raccordi e distorsioni fa di TMR una raccolta geniale che, per forza di cose, è anche all’avanguardia di tutti i generi che il rock toccherà negli anni successivi.
Credo sia difficile fruirlo come un album dei Pink Floyd, ma immagino che questo dipenda anche dalle personalità (a me, per esempio, mi piace molto ascoltarlo mentre studio o scrivo), ma penso non ci possano e non ci debbano essere dubbi sul valore di questo capolavoro del Capitano, ben oltre il precedente e eccellente “Safe As Milk” (1967) e certamente mai più ripetutosi a questi livelli.
[Deh, forse per qualcuno questa recensione potrebbe anche apparire breve e incompleta, ma essendo il web assediato da ottomila recensioni (soltanto in italiano) di questo album credo di aver effettuato una sintesi dei motivi per cui TMR è un fottuto capolavoro abbastanza precisa e leggera, senza tirare il ballo il Dasein di Heidegger, senza masturbarmi sulle componenti tecniche e senza insultare nessun critico di Blow Up, Mucchio, Buscadero, Rumore o-che-so-io. Quindi: ‘fanculo, comprate questo album, e se non vi piace peace & love.]
…se volete leggere quella che ritengo sia la migliore recensione in assoluto cliccate qui. È stata scritta nel 2008 dal miglior blogger mai esistito, anche se da tempo disperso (si dice rapito da degli alieni).
E infine…
ma che cazz???
The Rolling Stones – Tattoo You
“Tatto You” non è stato semplicemente un fottuto disco di rock and roll, è stato l’ultimo album rock degno di questo nome. Da allora si è vista tanta roba, ma il rock classico finisce nel 1981 con questa bellezza (o cagata assoluta, dipende dai gusti). [aggiunta 08/11/14: sì, ho scritto una puttanata micidiale, però ogni tanto ci vuole, almeno per ricordarci che il genepì a colazione non fa bene]
In “Tattoo You” non ci sono capolavori come Street Fighting Man, non c’è Paint It Black, non c’è la bellissima Stray Cat Blues, c’è solo un ritorno ad un sound più puro, più semplice, più blues e a volte semplicemente molto Rolling Stones.
Se vi dicono che i Rolling Stones hanno fatto la loro fortuna sulle spalle dei grandi del blues, passando senza ritegno da Robert Johnson a Muddy Waters, beh, hanno ragione da vendere, ma questi ragazzi bianchi hanno preso quanto c’era di importante in quelle note ispirate da Dio (anche se Lester Bangs direbbe «da Satana») e l’hanno portato da noi lasciando che potessimo cibarcene.
Il blues (sopratutto nella sua accezione rock) è una musica che parla alle budella, non alla testa. È inutile che vi infangate con roba tipo John Zorn o Nico, a che vi serve se prima non avete assaporato quella musica da cui tutto, volente o nolente, proviene.
Se credete di parlare di roba “alta” concedendovi un chiacchierata su Led Zeppelin, Deep Purple o Rolling Stones siete proprio fuori strada. Non era di certo musica per i palati fini quella, non è fatta per riflettere troppo, quel momento di psichedelia di Whole Lotta Love che poi esplode nelle mani di Bonham che ci fa tornare nella realtà non serve per poter concentrarci meglio verso le derive esistenzialiste di Céline, e di certo la suadente progressione di As The Sun Still Burns Away dei Ten Years After non è concepita per una serata accompagnata da una gara di sonetti improvvisati tra amici.
Quello che facevano tanto tempo fa i Rolling Stones era mettere lì un paio di note una dietro l’altra e farti balzare dalla sedia come un pischello. Tutto tranne che la miglior band rock di sempre, anche se sono sempre restio nel dare delle classifiche, chi vi fa credere che esiste un metro di giudizio oggettivo nella musica rock probabilmente è un flippato che crede che pure le feci di Frank Zappa su un piatto suonino divinamente.
Ovviamente registrato sotto la Rolling Stones Records, il disco è un mix perverso di pezzi tirati a caso tra jam session e registrazioni di altri album, il tutto ben confezionato da esperti di marketing e da un grandissimo copertinista come Peter Corriston.
Non c’è molto da dire su questo album, perché và ascoltato senza pretese e senza alcuna guida, lasciandosi trasportare.
Start Me Up fu un grande successo pure come 45 giri, le radio in tutto il mondo l’hanno mandata per anni, e ancora oggi il suo riff fa la sua porca figura. Una vitalità così in un disco rock raramente si ripresenterà.
Con Hang Fire si capisce subito che i Rolling Stones volano basso, che gliene frega a loro? Non percepite come hanno ormai appreso quello che serve? Come non si può almeno rimanere basiti dalla facilità con cui gli Stones ormai padroneggiano questo linguaggio musicale? Al di là dei meriti, sappiamo bene tutti che i Rolling Stones non valgono una gamba di band come gli Who o i Soft Machine, ma non stiamo parlando di roba così, parliamo di qualcosa in basso, ma non per questo meno apprezzabile.
Slave per me è meglio di un orgasmo. Sei minuti e mezzo in cui la linea di basso e la batteria vanno avanti imperterriti, Richards ogni tanto lo perdiamo per strada, Jagger insieme a Pete Townsend (che ci fa non lo so) si fa capo corista di un gospel scarno, senza profondità, senza poesia, al sassofono Theodore Walter “Sonny” Rollins mi fa sognare, seguo le note fino all’ultimo, e mentre il fruscio del vinile prende il loro posto sono ancora estasiato.
Little T & A è il pezzo più bello disco, semplice, rock, Keith Richards canta una folle cavalcata rock and roll che nel 1981 sta per diventare, di punto in bianco, tragicamente anacronistica (pezzo che la fa la sua porca figura anche in Argo, l’ultimo film di Affleck).
Conferma il trend, in chiave molto più nera, Black Limousine, un tripudio di scontatezze certamente, ma in grande stile. Una goduria per uno schifoso masticatore di blues.
Neighbours è stato un pezzo abbastanza fortunato degli Stones, il che non è poco considerano la loro sterminata produzione di singoli di successo. Si torna ad un sound più moderno, un sound che caratterizza i Rolling Stones nel periodo di passaggio tra i ’70 e gli ’80.
“Stu” si fa sentire con quel soffice tocco d’organo di Worried About You, Jagger si lascia andare completamente e tocca tutte le sue corde, dall’incantatore di Angie al ruggito di Satisfaction.
Tops è l’ennesimo pezzo effimero e perfetto, incastonato in un disco che suona da solo, una volta preso il via i Rolling Stones sono andati dritto per dritto. I cori, fra l’altro, mi ricordano qualcosa dei bravi MGMT.
Heaven ripropone invece quelle atmosfere pseudo-psichedeliche che secondo me non hanno mai trovato motivo di esistere nella discografia dei Rolling Stones.
No Use In Crying riporta sui binari giusti la discussione. Dopo un minuto e mezzo Jagger trasforma questa semplicissima linea melodica in uno dei pezzi più ispirati della lunga carriera di questa band.
Il disco si conclude con Waiting On A Friend, uno sguardo verso questi ottanta che sono arrivati, e nei quali i Rolling Stones resteranno poco più che delle macchiette di loro stessi, come è in fondo tutt’ora.
Per me questo è il disco che segna il passaggio, il rock dei cosiddetti dinosauri è finito, non resta che qualche rimasuglio qua e là in queste tracce del 1981.
- Pro: blues-rock d’annata, l’ultimo disco dei Rolling Stones (ascoltabile).
- Contro: per i miei gusti troppe ballate, e Heaven non sa davvero di niente, ma proprio di nulla assoluto. Lato A tre volte più interessante del lato B.
- Pezzo Consigliato: Little T & A è una chicca, rock and roll vecchia maniera, spensierato e senza pretese.
- Voto: 6/10