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Skeptics / Prêcheur Loup split

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Etichetta: Frantic City Records
Paese: Francia
Pubblicazione: 4 Novembre 2016

Come giustamente scrive tale Christophe Lopez-Huici, su un numero di Bananas Magazine in merito ad un album qualsiasi degli Skeptics: «The songs sound as vicious as ever and the formula stays the same, thick fuzz, skin bashing, gnarly vocals & straightforward riffs», classica frase copia-incolla per qualsiasi disco garage revival (o come dicono gli esperti: “new garage”, ah!). Devo comunque ammettere che per band come gli Skeptics sia anche un modo pratico di descrivere il loro approccio “purista” al genere, un po’ come vale anche per i newyorkesi The Penetrators, col peggiorativo che ‘sti loschi figuri dalla Grande Mela sono pure lo-fi (bravissimi eh, per carità, però quando passava il tizio col carrello dell’originalità loro stavano fuori a giocare al gameboy).

Dette tutte queste cattiverie mi tocca rimangiarmele in tempo record di fronte al nuovo split che vede gli Skeptics fiancheggiare i Prêcheur Loup, uscito questo mese per la dinamicissima Frantic City, etichetta di La Rochelle che fa concorrenza alla parigina Howlin Banana Records in quanto catalogo garagista.

Cominciamo però presentandovi Bart De Vraantijk, giovane di belle speranze che nel 2013 decide di trasferirsi da Bruxelles per sistemarsi a La Rochelle, munito di chitarra e amplificatore di seconda mano, pronto a far assaporare alle belle francesine quanto duro fosse il suo garage. Ennesimo caso di folgorazione sulla via di “Back From The Grave”, scoperto il verbo del garage rock il chitarrista belga non ha saputo resistere al sacro richiamo psichedelico di Seeds, Keggs, Rats, Alarm Clock e via dicendo, esordendo (credo) nel 2009 con un 7” dal titolo quantomeno tradizionale: “You make me sick”.

Ora è affiancato da Kristal Suiker al basso e Joe Burditt alla batteria, so che non è sempre stato così, ma chissene, diciamo pure che basa tutte le sue produzioni su una formazione classica a trio, riuscendo comunque a fare casino come fossero in sei.

Nel 2012 pubblica per la piccola ma garagissima Moody Monkey “File under Fuzz Punk”, che ripesca dai suoi 7” e spacca di brutto. La foto in copertina lo ritrae in posa con la chitarra in un cimitero che, credeteci o no, ricorda parecchio quello della crisi lisergica in Easy Rider. Insomma, le tombe ci sono, il fuzz è caldo, i singoli effettivamente spaccano (You’re a Jezebel è una perla), non mancano gli omaggi e ci sono ben due episodi strumentali (Nite Rider e Missing Link, con un pizzico di Link Wray, da me super-apprezzati). In generale ok, sì, però dopo il secondo ascolto lo metti assieme agli altri MILIONI di album garage tutti uguali e ciao, ti riascolti giusto il pezzo di apertura e gli strumentali, se sei un nostalgico degli anni frizzantini del surf-rock.

Dopo svariati split e 7” (sì, è pure super-produttivo, come vuole il cliché dell’onesto garagista) arriva nel 2013 “Black, Loney & Blue” per la portoghese Groovie Records. Salta fuori che De Vraantijk può scrivere pezzi anche un po’ più lunghi di un minuto e mezzo, spingendo un po’ anche sulla psichedelia. Il primo esempio è Trouble Maker, con un riff piuttosto heavy (smorzato da una registrazione non proprio eccelsa), da lì in poi il fuzz sarà più messo così a caso, inizia sottilmente a presentarsi qualche accenno (molto accennato a dir la verità) di Blue Cheer, ma questa è una cosa che affermo un po’ a posteriori, sopratutto alla luce del nuovo split di cui, prima o poi, arriveremo a parlare. Conclude in maniera interessante l’LP la title track, molto più pesante di quanto uno si potesse aspettare dagli energici e sixties-friendly Skeptics.

Sotto contratto per la Frantic City tutta la produzione che va dal 2014 ad oggi della band rispecchia il loro retaggio garagista, sfornando EP e 7” come se non ci fosse un domani, decisamente divertenti e orecchiabili quanto dimenticabili nel giro di mezz’ora. Esce persino la versione “estesa” di un loro EP che dura quanto un album e di cui nessuno al mondo sentiva la necessità.  Nel frattempo De Vraantijk collabora con altre formazioni più o meno famose, come i Double Cheese, Pneumonias e White Fangs.

MA, e c’è un “ma”, il 4 Novembre esce un nuovo frizzante split con i Prêcheur Loup (se non ricordo male anche loro belgi, con il vizio di mescolare lo-fi a reminiscenze eighties se non addirittura vaporwave), e finalmente la faccenda prende una piega diversa.

L’attacco con la chitarra acustica di Mind Powers è subito una botta. Ho controllato sei volte che fossero proprio QUEI Skeptics e non degli omonimi, dato che ce ne stanno e non pochi. Macché, son loro, col riffone acustico che sembra uscito fuori da un concerto dei Sulfur, lento, lento. De Vraantijk impara la lezione di Hawkwind e Blue Cheer e si prende il suo tempo, la chitarra fuzzata fa il suo solenne ingresso senza fretta, sferzando l’aria e preparando l’ingresso ad un assolo altrettanto monolitico, cazzo sembrano quasi i fottuti Kadavar!

Meglio riprendersi presto dalla botta, Spare no time prosegue sul mood psichedelico e sabbathiano, senza premere troppo sull’heavy quasi mutilato di una deflagrazione finale. Wall of Light è uno strumentale acustico di un minuto e mezzo, finale fuzzato e riuscitissimo nella sua banalità, futile ma d’atmosfera.

Conclusione genialmente auto-ironica con una garagiata comunque ben diversa dal solito, No half out the cave ci restituisce il solito strafottente De Vraantijk, ma con un suono nuovo, meno esasperato, meno urgente, più riflessivo quasi, in definitiva meno macchietta.

Tutto ‘sto papiro di roba per quattro pezzi buttati là, perché? Perché mi è piaciuto farmi sorprendere da una di quelle che reputavo la solita garage band copia-incolla del cazzo, e che invece hanno saputo un poco, modestamente, reinventarsi, senza per forza fare la cover band dei Fuzz o dei Thee Oh Sees.

Ah, carini pure i Prêcheur Loup.

Sbucciando una banana francese: il meglio e il peggio della Howlin’ Banana Records

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In questi giorni non ho scritto niente non perché non abbia ascoltato niente di nuovo, ma perché c’ho i cazzi miei. E sono tanti. Potete cliccare QUI per un racconto esaustivo.

Di che si parla oggi? E che c’entrano le banane? Ladies and gentlemen, oggi recensirò per vostra somma gioia qualche band dal catalogo della Howlin’ Banana Records! Come dite? “Echecazzoè”? La Howlin’ Banana Records è un’etichetta francese di garage rock-pop fondata a Parigi nel 2011 da Tom Piction, il solito giovanotto di belle speranze, un appassionato di indie rock e garage il quale, molto probabilmente, ha pensato bene che il modo più rapido per raccattare figa bollente fosse quello di fondare un’etichetta garage, genere celebre per le sue band grasse, unte e brufolose. Sarà riuscito il buon Piction a bagnare la sua baguette in del caldo burro francese? Ma sopratutto: sarà riuscito a selezionare band garage CAZZUTE, pronte a farci saltare i timpani?

Premetto subito che dopo un’ascolto completo di tutto il catalogo (sorseggiando del buon vino francese, che c’ho la pressione alta e la birra deve stà in frigo) la prima cosa che salta fuori è che, nel contesto scena europea, il garage francese è il più posato e aristocratico di tutti. Non che sia un male, cari miei seguaci, so che per molti di voi non è garage se non ci lasci le unghie sulle corde del basso, ma c’è anche il garage-folk, il garage-pop dalla California, il garage-psych di stampo barrettiano o alla Brian Jonestown Massacre, non facciamo trincee, lasciate scorrere l’amore tra i confini e i generi, lasciate che i feedback si perdano nell’abisso siderale dello spazio cosmico, seducendo e inseminando frammenti acustici, perdendosi nelle costellazioni liquide dello shoegaze, lasciandosi… oh merda, qualcuno mi tolga questa bottiglia dalle mani!

[Non ho recensito tutto il catalogo ma bensì la sbobba che ho ascoltato di più in queste tumultuose settimane, ogni album è descritto come sempre con la massima incuria e approssimazione, come piace a voi. Ma sopratutto come piace a me.]

Anna – Anna (2014)

Chi è Anna? Un tipo con problemi di collocamento sessuale? Una band? Una suora con un passato da ballerina nei night club? (cit.) Non lo so, però questo album omonimo alla fin fine non è malaccio.

I’m Note Yelling apre le danze in maniera asettica, assente e poco interessante, come se si preannunciasse il solito pappone psych senza direzione, ma è solo un minuto di incertezza, perché il garage-folk di I Love Noise mette in primo piano un piacevole songwriting barrettiano, che ci accompagnerà per quasi tutto “Anna”.

Haircut ha dei rimandi californiani decisamente influenzati dal Segall acustico del 2013, Old Man, con la voce bambinesca modificata digitalmente, è voglia di sixties pura riuscendo a recuperarne la freschezza floreale, con un dialogo di chitarre acustiche frenetico quasi-alla Violent Femmes.

Il gusto naïf francese si può percepire in pezzi come Eaten Apple, che anche nella lingua di Céline sarebbe suonato perfettamente. Ecco, forse un po’ troppo, nel senso che la perfezione formale di questo album è un pregio come un difetto, laddove riff e sezione ritmica non sbagliano un colpo ogni tanto nelle budella dell’ascoltatore raffinato si ode un gorgoglio, che non è badate bene la pizza coi fagioli all’uccelletto di due giorni prima, ingurgitata affannosamente con l’ausilio di tanta birra per facilitarne la discesa, ma la necessità di una sferzata, di un nuovo punto di vista, di una evoluzione nella struttura dei pezzi.

Una canzone come Dino nelle mani di un complesso garage del tutto schizzato come i Pink Streets Boys avrebbe raggiunto vette cosmiche di distorsione spaziale orgasmiche, qui invece è puro songwriting, e pure lineare. Ovviamente non si può imputare come errore o sbaglio una scelta di stile (pensavate di avermi colto in fallo, eh?) ma a detta del sottoscritto dopo un po’ la quadratura del cerchio comincia a diventare un po’ troppo spigolosa.

Un album semplice, che si districa in un garage fortemente derivativo da quello californiano, ma che non è per questo revival puro, ma più un ibrido, sostenuto da una ricerca melodica che ne è il motore portante, e che per il sottoscritto non è sinonimo necessariamente di qualità.

Il 23 di questo mese esce il nuovo lavoro di Anna, dall’ascolto di due pezzi in anteprima disponibili su Bandcamp sembra che il cantante/gruppo francese abbia decisamente cambiando sound, trovando un maggiore dinamismo. Vi terrò aggiornati.

The Madcaps – The Madcaps (2015)

Qualcosa mi fa pensare che Syd Barrett, come ripetevo come un cretino in loop cinque anni fa agli amici, e come da tre-quattro anni ripeto su questo blog nei margini del web, sia un’influenza imprescindibile del nuovo garage rock, artista ancora oggi troppo sottovalutato, che con tre album, il primo dei Pink Floyd e i suoi due solisti successivi, ha scolpito sulla pietra il sacro verbo psych come nessuno prima e dopo di lui. Più immediato degli sperimentatori Silver Apples, Red Crayola, Fifty Foot Hose, con un talento innato nel creare melodie complesse ma appetibili (altro che Lennon&McCartney! ecco: l’ho detto, adesso posso chiudere il blog), e dal quale ancora oggi è possibile trarre nuove idee.

Eccoci dunque all’esordio dei Madcaps dopo l’Ep anch’esso omonimo (eeeeeh la creatività!), molto garage più che psych, con il grande difetto dell’essere un revival praticamente puro, senza troppe idee, ma con un songwriting che ancora una volta dopo Anna continua a colpire là dove il nostro cuore batteva prima che scoprissimo le gioie di un rock più impegnato (ma non per questo cervellotico).

Un album nostalgico, la bella Emily Vandelay si presenta con la sua ritmica sixties, la chitarra alla The Nazz, e con forse la stessa capacità della band di Philadelphia di azzeccare prima di tutto il sound e lasciando in secondo piano la musica.

I nomi dei pezzi sanno di ricordi (Haunted House, Melody Maker, 8000 Miles From Home) ma una volta che metti play, con gli occhi umidi e le dita unte, quello che esce fuori dalle casse non sono gli stessi ricordi, sono tutt’altra cosa, e sono anche parecchio noiosi.

Baston – Gesture (2015)

Questo Ep del trio francese sembra un classico album da Burger Records, garage edulcorato dal pop, con forti tensioni psych che stanno lì solo per bellezza.

Anche perché, dopo il tiro magnifico di Maybe I’m Dead, questo Ep non sa di un cazzo. Melodie banali, suoni banali, testi banali (ma di solito non ci faccio caso), cover, quella di Little Honda dei Beach Boys, che è persino più brutta dell’originale, e non era così facile come sembra!

Mi pare strano che la Burger Records, ormai contenitore di quasi tutto il buono della scena garage assieme a tutta la merda che però fa numero (e da la possibilità a questa etichetta di galleggiare), non si sia accaparrata i diritti per il prossimo album di questa band, il classico esempio di come in una scena musicale il 90% della produzione sia musica derivativa e buona solo per riempire lo spazio tra una band e l’altra ad un festival.

Volage – Heart Healing (2014)

Ok, non mi fanno impazzire, però una cosa gli va detta: sanno come si fa un album rock! Un sound decisamente riconoscibile e un certo affiatamento sono le skill di questo “Heart Healing”.

Tra il giocoso, il garage, il weird pop e un songwriting piacevole, senza però scadere nella linearità e nella ripetizione.

Piccola parentesi sul fatto che oggi ho usato la parola songwriting tipo cento volte in tre righe di post: è tutta colpa di Giovanni, un mio collega dell’Università, il mio linguaggio è stato malamente influenzato dalla sua presenza da indie rocker che ascolta gli Arctic Monkeys. Per lui il rock È il songwriting, e non sono in pochi a pensarla così, e se siete di questa parrocchia (a mio avviso perversa e immorale) forse potreste trovare delle cose interessanti in questi Volage.

Il ritmo camaleontico si dipana ad ogni pezzo cercando di confonderci, e mostrando i  muscoli della band. Il piglio punk di Touched By Grace, si trasforma in ballad psych e poi in garage rock in poco più di due minuti, ma senza dimenticarsi la voce e la melodia.

Abbiamo anche una perla mica da poco con i sette minuti e mezzo di Loner, dove l’insegnamento degli ormai sacri/intoccabili Thee Oh Sees arriva anche nella burrosa Francia. Ma invece del profumo di croissant caldi Loner puzza di Fuzz. La chitarra del complesso californiano di Charles Moothart esplode per poi essere addomesticata e spezzata, col cazzo che cascano nel tranello di fare un calderone di cazzate incomprensibili come i Jefferitti’s Nile, i Volage riescono a ricalcare i tòpos della psichedelia senza fare revival ma buttandoci dentro palle e idee. Sicuramente non c’è da urlare al miracolo, non sono riusciti a piegare il genere a loro immagine e somiglianza (come hanno fatto con il garage psichedelico i Pink Street Boys e col new-post-punk i Nun), ma riescono ad esprimersi con l’esperienza di una band scafata da migliaia di festival.

E vogliamo farci scappare il momento Barrett? Ma stavolta dura poco, giusto i primi accordi di 6H15, per poi cambiare, mutare, evolversi senza soluzione di forma. Un po’ come gli australiani Total Control, ma se i TC sono una specie di killer-mix di Ausmuteants e Ultravox, invece i francesini mescolano tutte le influenze della scena garage senza fermarsi un attimo, senza neanche l’ombra di un po’ di auto-referenzialità.

(M’è venuto un coccolone con l’attacco indie-brit pop di Love Is All, echecazzo, eravate andati così bene e poi all’ultimo mi fate ‘sti scherzetti del menga? Dai cazzo: sembrate i Jet di “Shine On”!)

(Ah, sì, caruccio anche il 10’’ uscito due anni fa, più punk e cattivo, magari un giorno lo recensisco.)

Qúetzal Snåkes – Lovely Sort of Death (2014)

Gran bel pezzo di Ep questo dei Qúetzal Snåkes, una delle band che mi convincono di più dell’intero catalogo dell’etichetta parigina, un rock con forti influenze space e shoegaze, le chitarre si districano tra richiami nineties all’hard rock, e dal vivo devono essere deflagranti.

Assieme ai Volage sono anche quelli che dimostrano una forte personalità, per la quale puoi parlare di influenze sixties ma non di revival. Come genere non sono di certo nelle mie corde, anzi: fanno poco casino e sono troppo bravi con i loro strumenti, ma mi ha colpito il sound e la qualità delle composizioni.

Personalmente ho ascoltato due volte questo Ep, e non credo che lo riascolterò mai più, ma penso che questa band meritasse qualcosa in più che una semplice citazione, se vi piace un garage non per forza urlato e con un certa ricercatezza nel suono questo è un ensemble che può fare per voi.


Ci sarebbero altre chicche da scoprire, come il surf rock dei Los Dos Hermanos, il punk pop dei Kaviar che nell’album sembra una roba alla Audacity ma che dal vivo spaccano, il garage pop leggero pseudo-Burger dei Travel Check, i frenetici Mountain Bike dal Belgio, ma forse ne parleremo un’altra volta. Se avete tempo (quella dimensione che a me manca più di quanto a Battiato manchi il suo centro di gravità permanente) e vi sono piaciute le band che vi ho proposto dateci un’ascoltata, chissà che non scatti la scintilla.

Cristo, che chiusa del cazzo.

Black Sabbath – Paranoid

Black Sabbath File Photos

Come se ci fosse ancora qualcos’altro da dire su questo album.

Come se un cojone qualsiasi dello sterminato oceano degli opinionisti del web, potesse aggiungere qualcosa alla già lunghissima serie di elogi e stroncature che segnano questo monolite del rock.

Il tempo ha dato ragione ai Black Sabbath ma non per i motivi che la band vorrebbe.

Il primo album omonimo è più che un seme è un parassita. Per quanto i fan lo adorino (ma adorano anche “Mob Rules” e i dischi solisti di Ozzy, quindi sono esenti da qualsiasi giudizio razionale) quell’esordio fa proprio cagare. Due o tre riff convincenti, poca sostanza e mal suonata, testi da brivido. Ma cosa cambia da “Black Sabbath” a “Paranoid”?

I Black Sabbath sono una delle band più ridicole della storia, e forse anche per questo tra le più grandi di ogni tempo. Vestiti come dei satanisti texani, facce di impareggiabile bruttezza, tecnica musicale quantomeno raffazzonata, non sperimentano, non destrutturano, non fanno un cazzo se non, banalmente, infilare riffoni della Madonna uno dietro l’altro, con una tenacia che sfiora la demenza. Eppure…

Se in “Black Sabbath” erano fin troppo parodici, in “Paranoid” riescono a cogliere in modo assolutamente originale la paranoia della Guerra Fredda e della Morte in generale esorcizzandola a suon di riff e testi ben lontani dalle litanie hippie dalle quali si discostavano polemicamente.

Più che il successo di vendite è l’aspetto seminale dell’album che stupisce ed intriga.

Per il metal questo e “Master Of Reality” sono una fonte inesauribile di ispirazione, oggi insieme a Hawkwind e Blue Cheer i Black Sabbath sono tra le band di riferimento per tantissimi gruppi neonati.

Al contrario del power pop che tanto deve ai Beatles o all’hard rock di stampo zeppeliniano il metal (non cercato ma trovato) dei Sabbath sforna nuove leve del rock underground (ma si può ancora dire underground? Sembra una parola bannata da qualunque rivista di musica) incredibilmente ispirate e mai retoriche al contrario del power pop che vive di riff ed esecuzione, o dell’hard rock che a parte due o tre band ristagna nella masturbazione.

Giusto per citare qualche band “sabbathiana” (rimanendo negli ultimi 5 anni): Fuzz, Shooting Guns, Zig Zags, Harsh Toke, Sungrazer, The Machine, Golden Void, Kadavar, Earthless, Electric Citizen, Black Mountain e si potrebbe continuare ancora fino allo sfinimento.

Al contrario del solito power pop o dell’hard rock la vena sabbathiana è in costante evoluzione, passando dal doom all’ambient alla psichedelia, tocca persino il punk!

Che dire dell’album in sé, il riff d’apertura di War Pigs scandisce lo spazio con una inesorabilità gotica di straordinaria capacità espressiva, si presta alla ripetizione infinita come alla modulazione e alla progressione. Naturalmente non è nella diretta volontà dei componenti della band questa “apertura”, ma è ciò che avviene.

L’attacco di Paranoid è devastante e immortale. Potrebbe benissimo aprire un album degli Zig Zags e non sembrerebbe comunque anacronistica. Iron Man è come War Pigs e ovviamente Hand of Doom (eppure i riff sono talmente ispirati da donargli dignità pari), poi c’è Planet Caravan col suo andamento tetro e spettrale, mentre Electric Funeral è il momento più alto, quello dove l’apocalissi elettrica giunge alla sua forma estetica definitiva.

Al contrario del primo album i Black Sabbath non sembrano più parodie di una specie di gothic band con reminiscenze romantiche (e un pessimo poeta ai testi), qui le improbabili immagini di devastazione diventano reali, sostenute da una musica terrorizzante e potentissima.

Un album universale, un capolavoro.

Ah, dopo “Master of Reality” gli album dei Sabbath si alterneranno tra l’indecente e l’inascoltabile. So bene che molti di voi non saranno assolutamente d’accordo, ma avremo modo di parlare in un’altra recensione, promesso.

Zig Zags – Scavenger/Monster Wizard

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[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]

Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.

Ho pensato: ci siamo! Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.

Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]

La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).

La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.

Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.

Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.

Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto.
“10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.

Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.

Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.

In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.

Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?

Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.

  • Pro: la miglior band garage contemporanea.
  • Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
  • Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.
  • Voto: 9/10

Fuzz – Fuzz

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Secondo voi davvero mi sarei fatto sfuggire l’ultimo album di Ty Segall, anche se mascherato da side project?

Solo che più va avanti il californiano e meno parole si trovano per descrivere la sua musica. Invece che raffinarsi il buon Segall sta regredendo alle sembianze di un cavernicolo, andando a ripescare suoni e sensazioni di fine anni ’60 inizi ’70.

Mollata la sindrome post-depressiva di “Sleeper” (2013) e senza ricercare i furori lancinanti di “Slaughterhouse” (2012) questa volta il californiano prende le bacchette e si appropria della batteria sempre con la solita classe che lo compete, suonando come un dannato cane (e ci piace proprio per questo!).

Lasciando che sia Moothart (il bassista normalmente) a prendere le redini della chitarra solista il sound spregevole di Segall vira decisamente sulla psichedelia e l’hard rock. Eh, ma mica quella roba alla Time con White Fence che abbiamo assaporato tra alti e bassi in “Hair” (2012), qua si gioca pesante sul serio.

Le evoluzioni psichedeliche dei Blue Cheer incontrano la lentezza e la mastodonticità dei Black Sabbath, copulando in una bella ammucchiata a tre con gli Hawkwind, poche orette di jam dopo partoriscono i Fuzz.

Che c’è da dire? Riff su riff che si susseguono con micidiale ineluttabilità, Segall pesta sulla batteria come un bambino arrabbiato, Charles Moothart spara migliaia di decibel contro un pubblico attonito, Roland Cosio smanaccia su un basso le cui note non si colgono con precisione, ma le ripercussioni telluriche sono notevoli.

Sminuito dai poveri miscredenti che si stanno menando forte il cambio con esperimenti noise e sull’ultimo disco di Chelsea Wolfe, questo ennesimo atto di terrorismo sonoro perpetuato da Segall è quanto di più rock si possa chiedere ad un essere umano. Non mangerà pipistrelli, ma è pur sempre un figlio del buon Satana.

Stanotte sacrificate i vostri dischi dei Radiohead al caro Satana e al suo figlio primogenito: Ty Segall.

  • Pro: poche cose uscite di recente, a tutto volume, fanno tremare la terra come questo album.
  • Contro: beh, a parte il sound hard, il rock infernale e i riffoni da erezione perpetua, non c’è altro.
  • Pezzo consigliato: Fuzz’s Fourth Dream.
  • Voto: 7,5/10