Archivi tag: garage rock

The Brian Jonestown Massacre – The Future Is Your Past

Etichetta: A
Paese: USA
Anno: 2023

Eccovi qualche link per ascoltarvi l’album suddetto:
SPOTIFY: https://open.spotify.com/album/2gSCrwFLHcT0OhMgdMy0Qc
APPLE MUSIC: https://music.apple.com/it/album/the-future-is-your-past/1655736209

I 6 dischi essenziali per capire il garage rock (più o meno)

Non è una guida esaustiva, non è neanche un’introduzione, è giusto un mettere l’accento su delle declinazioni del garage e delle sue potenzialità espresse nel corso dei decenni.

Sanlsidro – A lo pesau, a lo bajo y a lo llano

Etichetta: Slovenly
Paese: Spagna
Pubblicazione: 2020

«Giuseppe ho un dubbio, ma tra quello degli Algiers e quello dei Black Country, New Road, qual’è il disco che spacca più i culi?»
«La tua è una domanda molto tecnica AssDestroyer09, ma per tua fortuna ho la risposta qua pronta per te: Sanlsidro
Capace di evocare le lande psichedeliche e febbrili di Cervantes, “A lo pesau, a lo bajo y a lo llano” segna l’esordio solista di Isidro Rubio sotto lo pseudonimo di Sanlsidro. Non cercatelo su Google, ci penso io ad inquadrarvelo. 

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Magnetic Fields – Quickies

Etichetta: Nonesuch
Paese: USA
Pubblicazione: 2020

Quando  un artista arriva al dodicesimo album e questo è pure palesemente un passatempo, il rischio che sia una schifezza così raccapricciante da rivalutare persino “How to Dismantle an Atomic Bomb” è del 99%. Ma per Stephin Merritt e i suoi Magnetic Fields le cose sono andate piuttosto bene, e “Quickies” è un disco che merita di essere ascoltato, apprezzato e (perché no?) amato dissolutamente. 

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Kamikaze Palm Tree – Good Boy

Etichetta: MUDDGUTS
Paese: USA
Pubblicazione: 2019

Dylan Hadley fa parte di quel giro magico che ha ridestato interesse nel rock underground, ovvero White Fence, Mikal Cronin, Ty Segall e tutta la banda. In un’intervista per KEXP John Dwyer ha raccontato della fantastica impressione che gli fece la Hadley come cantante e batterista per la sua band, i Kamikaze Palm Tree, probabilmente una delle realtà più divertenti del panorama rock mondiale – eppure ancora semi-sconosciute.

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Govier – Predator

“Metal Target”, 2016
Etichetta: Mistery Circles
Paese: USA
Pubblicazione: 2016

It’s not easy having to spend each day,
as the color of the leaves,
when it’s easier to be red sprawled out on the bed.

Govier, Leaves

Cave Junction è una piccolissima cittadina perduta nella Illinois Valley, circondata da foreste fittissime e da una natura rigogliosa. C’è solo una strada che percorre tutta la città – e in meno di mezz’ora, ovvero la route 119, che connette le seimila anime di Cave Junction con l’aera meno popolosa di tutto l’Oregon. Nel 2015, dopo i vani tentativi di mantenere in piedi la sua band, Malcolm Govier Hirsch pubblica il suo primo album solista: “Live! From My Dorm, un concerto registrato su un quattro tracce, dove Govier sussurra al microfono un malessere consapevole e disilluso, non senza un’autoironia acuta e un po’ demenziale.

Secondo le tag della sua pagina Bandcamp la musica di Govier si può riassumere nell’etichetta «bedroom rock». Secondo le orecchie del vostro blogger di fiducia invece, questo giovane songwriter americano ha ascoltato diversi album dei neozelandesi The Bats passando per i Gerbils, facendo poi il giro con i REM e cascare in Australia dalle parti dei Chook Race. C’è chi chiama tutto questo indie pop, chi garage pop, chi invece la vede come una declinazione rock del dream pop, fatto sta che a Cave Junction lo chiamano «bedroom rock» e dobbiamo farcene una ragione. Dopo un intero anno che il mondo vive in lockdown ci stiamo sempre di più abituando a fenomeni musicali scritti, registrati, prodotti e distribuiti direttamente dalle camere da letto di tutto il mondo, senza contare le interminabili maratone streaming su Twitch di musicisti in cerca di un nuovo pubblico e con qualche problema di insonnia. 

In realtà uno dei contenitori più rilevanti per la musica del 2020 non è un servizio streaming ma bensì Tik Tok, che mentre lancia nuove star pop dal forte sapore generazionale come Penelope Scott, normalizza per il pubblico giovanile la figura del musicista solitario, che con il suo PC e un buon microfono RØDE, esprime la sua arte senza troppe preoccupazioni sul formato finale. Alla fine Tik Tok sta mettendo in risalto una dinamica ormai dominante nel mercato DIY che trova in piattaforme come Bandcamp il suo terreno fertile, almeno per quanto riguarda rock, il neo-soul, il folk e l’hip pop. Mi piace pensare che una delle prime “icone” di questo movimento che non può uscire di casa, sia proprio Govier, solo che ancora non lo sa nessuno, nemmeno lui.

Predator” è un album semplicissimo, Govier strimpella la sua chitarra recitando poche parole che aprono le porte ad un mondo altrettanto lineare e prevedibile, se non fosse per la melanconia latente che si sostiene sul filo sottile della nostalgia senza però cadere nei cliché di autori ben più conosciuti come Kurt Vile. La musica di Govier non è vintage, è nostalgica senza usare il fruscio finzionale del vinile o chitarre con pedali da 150 cucuzze, sembra quasi di capire come sia uscire la sera nell’unico locale della città e aspettare di poter bere la prima birra della serata. Il disco è breve, molto, ma non lo vedo come un problema, francamente pensare ancora nel 2021 che un disco debba durare un tot ha poco senso, delle nove canzoni una è scritta dal suo amico Arturo Principe (Like a Soccer Player), ed è presente una splendida cover di un pezzo del regista/animatore underground Vince Collins (Life Is Flashing Before Your Eyes). 

La cosa bella di Govier e di questa generazione musicale è che la disillusione non passa attraverso l’odio per se stessi (qualcuno ha detto Elliot Smith?), invece evapora attraverso nuvole elettroniche create con Garageband, dove alla fine senti anche il «click!» che sancisce la fine della registrazione della parte vocale. I sentimenti sono offuscati e pretendono una loro intimità, è come esporsi ma non troppo, lasciando che la musica sia il fuoco attorno al quale sedersi mentre attorno c’è silenzio. Il ritmo della musica di Govier non è così diverso da quello del dito che scorre sullo smartphone quando si è troppo annoiati persino per dormire, è roba che scivola sotto le scarpe mentre a lezione invece di ascoltare il prof disegnavamo sul banco. Perfino la copertina dell’album ha tutto un suo contesto che a prima vista sembra solo quello di un impedito, ma che nei giusti subreddit è roba di prima qualità, estetica da high school. 

È musica che non urla alcuna urgenza, al massimo ti chiede il permesso per poi sedersi sul divano per tutto il resto della festa. 

La più grande rock band di tutti i tempi

Perché quando si parla della più grande rock band di tutti i tempi spesso stiamo parlando dei Beatles? Se dovessi rispondere a freddo a questa domanda, e non riesco ad immaginarmi nessun motivo per cui dovrei farlo, risponderei con l’incredibile successo planetario della band, la “beatlesmania”, un tale culto che pochissimi artisti della storia della musica possono vantare, personalità del calibro di Elvis, Michael Jackson, Madonna, Jay-Z, Frank Sinatra, Whitney Houston, Kanye West, e chiunque abbia dominato per anni le varie classifiche di Billboard e sia stato determinante per la cultura pop per di più di una generazione. Ma i Beatles possiedono, almeno nell’immaginario collettivo, una marcia in più in confronto agli artisti che ho appena elencato, ma perché? Erano forse più bravi tecnicamente? Possedevano più estro, più creatività? Hanno saputo gestire meglio la propria immagine negli anni? 

Ovviamente è una questione di lana caprina, già solo decretare una band come “la più grande” è un esercizio adolescenziale, senza nessuno scopo critico. Però quest’aura di leggenda attorno ai Fab Four non produce solamente compilation a palate e biopic di bassa qualità, ma anche una peculiare distorsione di un periodo storico complesso per la musica rock, una vera e propria rinascita salutata però come un’assoluta novità.

I Beatles compaiono sulla scena quando della musica rock ormai non restavano che le ceneri. Il rock and roll anni ’50 era morto in un’incidente aereo, c’erano giusto Elvis e Roy Orbison a tenere botta in classifica, il primo fra l’altro con grande difficoltà a raggiungere le vette che fino al ’62 gli appartenevano di diritto. I generi che vanno forte in radio sono il musical e le colonne sonore per film (proprio tra il ’60 e il ’64 queste avranno una grandissima influenza sulla musica pop inglese). Sotto questo primo strato che oggi definiremmo come il “mainstream”, comparivano in classifica i dischi jazz di Charles Mingus, John Coltrane, Thelonious Monk e Dexter Gordon. Ancora oggi la tra le voci ritenute più iconiche di quel periodo c’era Sam Cooke, artista vicino ai movimenti per i diritti civili dei neri, probabilmente ucciso a soli 33 anni, uno scandalo assurdo che rimane a tutt’oggi insoluto e politicamente rilevante, così come la sua influenza sulla musica soul e il rithmin ’n’ blues. Parlando di artisti seminali un album piuttosto significativo di quella stagione fu l’esplosivo “Live at Apollo” del mai abbastanza compianto James Brown, mentre dal Greenwich Village di New York si alzavano i venti del folk di protesta, una brezza fredda immortalata dalla celebre foto di Suze Rotolo per la cover di “The Freewheelin’ Bob Dylan”.

E il rock? Non potevano certamente solo esserci Elvis e Roy Orbison, giusto? Per quanto Elvis ancora c’avesse un bel pelvis e Orbison ci abbia regalato a posteriori alcuni momenti indimenticabili nella filmografia di David Lynch, ciò non toglie che sia un po’ pochino anche per un genere che era dato per morto dal 1959.

In verità buona parte della produzione rock di quegli anni era fuori dalle classifiche, in un luogo che oggi definiremmo “underground”. A parte le band che derivavano il proprio sound da Buddy Holly e i suoi Crickets o dai complessi vocali alla The Clovers o in stile The Ronettes (il cui spazio sonoro diventava sempre più saturo a causa di un certo Phil Spector), e a parte i vari Lightnin’ Hopkins e John Lee Hooker alla ricerca di una rinascita della scena blues dei fifties sempre più improntata al R&B (Boom Boom è del 1962), l’urgenza espressiva della gioventù irruente di quegli anni si sfogava nel rock strumentale. La comparsa del rock strumentale avvenne in concomitanza con la cultura surf giovanile statunitense, e difatti gran parte della produzione rock tra il ’60 e il ’64 (l’anno di “Meet The Beatles!”) viene spesso criminalmente sintetizzata nella sola espressione «surf rock». Fu questo in realtà un periodo di grandissima sperimentazione e contaminazione dei linguaggi, come tutti i passaggi generazionali che si rispettino, in cui l’abbandono delle forme corali portò ad un approfondimento degli aspetti elettrici ed elettronici della musica rock. Virtuosismo e avanzamento tecnologico andavano di pari passo, tra i gruppi che riuscirono a scalare le classifiche attraverso questo curioso binomio vale la pena ricordare lo scontro fino all’ultima hit tra Ventures, Shadows, Dick Dale, Trashmen, Challengers, Pyramids e Surfaris.

Il rock strumentale e tutto ciò che gli gravitava attorno, nasceva come un genere esclusivamente indirizzato per gli adolescenti, con un piglio molto indipendente e di forte rottura con i valori rappresentati da Bill Haley e i suoi Comets quando suonavano Rock Around the Clock nel leggendario “Blackboard Jungle” di Richard Brooks, regalandogli un successo inaspettato. Non era un rock inclusivo certamente, si erano persa la centralità delle ballad zuccherine in favore della demenza, del ludibrio, della satira sprezzante, spesso le canzoni culminavano in assoli eccessivi oppure in assurde digressioni elettroniche d’avanguardia, tutti elementi che rendevano questa musica difficile da vendere fuori dalla sua bolla, ma l’enorme successo che ebbe nella controcultura americana fece sì che tutti i generi strumentali conoscessero una fortuna notevole in un lasso di tempo piuttosto breve. L’apice commerciale arrivò nel 1962, l’anno di Telstar dei The Tornados, il primo vero successo britannico nella patria del rock and roll, prova concreta del fatto che l’estetica strumentale avrebbe potuto facilmente emanciparsi dalla cultura surf, se ne avesse avuto il tempo. Ma non è così che prosegue la nostra storia, giusto?

It’s time to meet the Beatles

È certo possibile godere dei fiori nella loro forma colorata e nella loro delicata fragranza senza conoscere nulla delle piante sul piano della teoria. Ma chi si propone di comprendere il fiorire delle piante è tenuto a scoprire le interazioni tra suolo, aria, acqua e luce solare che condizionano lo sviluppo delle piante.
[John Dewey, Arte come esperienza, p. 32]

I Beatles si affacciarono sulla scena assieme ad un’ondata di gruppi (non solo inglesi!) che rivendicavano il valore della gloriosa musica di Little Richards e Chuck Berry, pretendendone tutti i benefit, sesso e droga compresi. Da quella massa di gruppi, molti dei quali non duravano il tempo di un singolo, spiccarono fuori diversi complessi, non tutti francamente memorabili, tra cui Jay and the Americans, Gerry and The Pacemakers, i Kinks, gli Small Faces, i Them, gli Hollies, gli Who, i Move, i Dave Clark Five, Billy J. Kramer, i Rolling Stones, le Shangri-Las, i Seekers, Monkees, Herman’s Hermits, Guess Who e via discorrendo, eppure la percezione contemporanea ci porta a pensare che per diverso tempo il mercato fu essenzialmente diviso tra Beach Boys e Beatles. Questo, come il finzionale scontro tra Beatles e Rolling Stones, è il risultato di una deformazione storica difficile da mettere da parte, perché senza quella lente si perdono comunque tantissime informazioni su un periodo decisamente cruciale, informazioni di carattere sociale e antropologico. Di tutti gli articoli polemici e delle colonne sui giornali più autorevoli, delle infinte discussioni sulle prime fanzine, degli scontri ideologici tra DJ e la ferocia della nuova critica rock – più consapevole di se stessa ma anche più polarizzata di adesso, oggi non ci resta nulla se non l’eco di una sola campana. Certamente questo è dovuto alle precise e avveniristiche mosse di marketing che sostennero le band del «nuovo rock» (per citare il buon Riccardo Bertoncelli), ognuna in competizione con l’altra per la trovata più sensazionale o la hit più provocante, una gara estenuante che ad oggi siamo sicuri di poter dire che abbiano stravinto i manager dei Beatles.

Così come è accaduto poi per il soft rock, per il prog, per l’heavy metal, per l’hip pop eccetera, quando un genere esplode il mercato si satura immediatamente di paccottiglia, ogni volta di più grazie alla massificazione degli strumenti necessari per fruire privatamente della musica. Oggi con Tidal, Spotify, Apple Music e Deezer, c’è una tale sovrabbondanza di gruppi e di artisti da far girare la testa, e il mercato insegue quelli di maggior successo modellando anche il resto della proposta musicale su di essi, mentre su Bandcamp o Tik Tok si formano micro-scene che influenzano le nuove generazioni. Gli anni ’60 sono stati i primi a subire una vera e propria industrializzazione di tutta la filiale musicale, tanto che era difficile notare delle reali differenze tra i singoli in cima alle classifiche di quegli anni, non solo nell’estetica musicale ma perfino in quella delle copertine, dell’abbigliamento e nelle liriche! La critica non ha saputo costruire ancora oggi una narrazione che abbia avuto un qualche impatto (popolare) sulla complessità di quel periodo, e ciò che permane nell’immaginario collettivo non sono solo i prodotti di maggior successo, ma una cronologia degli eventi abbastanza sballata.

Ma in questa notevole ondata di nuovi gruppi fatti principalmente di adolescenti brufolosi ed inconsapevolmente rivoluzionari, che cosa suonavano esattamente i Beatles? Perché c’era una bella differenza tra il complesso che faceva faville nei locali di Amburgo e quello di “Love me do”. Il cambio di stile repentino della band non era anch’esso una novità, non è che i Beatles furono scelti tra le altre complessi perché avessero qualcosa di diverso (questa è una narrazione agiografica a posteriori tipica di tutte le biografie di successo), ma perché avevano il giusto mix per sfondare nel mercato crescente della musica melodica strappacuori, loro assieme ad un altro centinaio di adolescenti messi al macello delle major, tutti conditi da promesse di successi imperituri. Da un punto di vista strettamente storico-musicologico dovremmo dire che i Beatles erano in tutto e per tutto un complesso di musica beat. In fondo tra il ’63 e il ’66 sui giornali si scriveva proprio del «beat inglese» e del suo “acerrimo nemico” il «surf americano». Il motivo per cui sono sempre molto restio a categorizzare le band è che poi le etichette hanno un significato storico-contestuale statico, mentre la musica muta in continuazione, così come la sua percezione nell’ascoltatore, sopratutto ad oggi con i mezzi di registrazione ed ascolto a nostra disposizione. La percezione del passato musicale cambia pelle continuamente attraverso film, serie TV, teatro, performance art e le sue forme ibride in streaming, senza dimenticarci dei videogiochi, la forma d’intrattenimento più rilevante degli ultimi 5 anni, e tutti questi elementi fanno sì che il significato della musica cambi costantemente, di generazione in generazione (pensate solo all’impatto enorme nell’immaginario contemporaneo che hanno avuto film come “It Follows” o serie tipo “Strangers Things” nel riscrivere i canoni estetici degli anni ’80, portando anche ad un revival di alcune sue caratteristiche, ma fondamentalmente diverse dalle matrici originali).

Oggi categorizziamo le band inglesi dei primi anni sessanta nel calderone della British Invasion, una sorta di asso piglia tutto per i critici rock. Poi abbiamo le sottocategorie, per cui alcune band finiscono nel merseybeat, altre nel pop, altre ancora nel pop-rock, talune nel blues-rock, poi nel proto-prog e persino nel proto-punk! Per amor di critica se c’è una definizione che calza a pennello per i Beatles è certamente “pop”, non solo per il loro essere “popular” per usare un eufemismo, ma anche per l’influenza sul soft-rock e sul power-pop, per il loro essere “al di sopra” delle singole sottocategorie grazie a quella gigantesca popolarità che aveva tutti i contorni del culto.

Non è quindi solo il rock ad aver cambiato faccia, ma dal 1964 tutta la musica pop subì una profonda trasformazione in ogni campo, dalla produzione alla distribuzione, passando per la radiofonia, i festival, il declino del formato a 45 giri per quello a 33 assieme ad altre questioni, e ciò accadeva per inseguire il successo del nuovo rock. Il cambiamento però non è cominciato con l’avvento delle band sopra citate. Bob Dylan è stato uno dei primi artisti ad aver spostato l’attenzione verso il formato dell’album a discapito del singolo di successo, mostrando che anche la musica pop poteva battersela con la classica e il jazz, e sebbene tanti lo avessero preceduto (mi viene in mente il bellissimo “After School Session” di Chuck Berry), fu comunque suo l’impatto che cambiò le sorti del rock futuro. Il formato a 33 giri era infatti notoriamente quello per la musica “seria”, un tipo di classificazione nata in seno alle grandi case discografiche degli anni ‘40. Ma l’esplosione del secondo rock e della British Invasion accelerarono in modo irrefrenabile il processo di cambiamento in corso, uccidendo di fatto il rock strumentale e mettendo ai margini delle classifiche buona parte della musica classica e jazz, proponendosi attraverso personalità di spicco tipo Dylan, come una musica altrettanto autorevole ed impegnata delle altre. Ma perché i Beatles sono considerati i veri portabandiera di questo periodo traumatico, fortemente divisivo e polarizzante? Perché non gli Stones di Brian Jones o i Beach Boys di Brian Wilson? Perché non magari i Kinks, con la loro influenza sull’hard rock e i loro testi sempre così acuti, perché non gli Who con le loro live infiammanti che mettevano in soggezione chiunque altro?

Tra leggenda e percezione

What were your first impressions of the Beatles?
That they were the worst musicians in the world. They were no-playing motherfuckers. Paul was the worst bass player I ever heard. And Ringo? Don’t even talk about it.
[Quincy Jones rispondendo a David Marchese per “Volture”, 2018]

Sui Beatles è stato scritto tutto e il contrario di tutto, e anche a causa di questo c’è una percezione molto confusa del loro contributo alla storia della musica pop. Si sono spese una quantità infinita di pagine su Tomorrow Never Knows, sull’incredibile voglia degli studi di Abbey Road di mettere in crisi il formato canzone attraverso accorgimenti ingegneristici davvero innovativi per la musica popolare, ma la stessa attenzione non c’è stata quando l’anno prima gli Who pubblicarono con grande fatica Anyway, Anyhow, Anywhere, che possedendo un assurdo assolo in feedback fu considerato dai produttori come un errore di registrazione o qualcosa del genere. Perfino a livello di ingegneria sonora quanta attenzione alla stereofonia dei Beatles e quanta poca a quella degli Shadows negli anni di The Rise And Fall Of Flingel Bunt. Com’è possibile tutt’oggi considerare i Beatles come premonitori della scena punk quando ad Andover c’erano i Troggs? Ha già molto più senso mettere i Beatles nella categoria di quelle band che avranno un certo influsso sulla psichedelia, ma la loro importanza non è stata fondamentale per la nascita del genere, quanto per l’affermazione mondiale di questo.

Ci si sofferma sempre sull’influenza britannica per lo sviluppo del garage rock americano ma poco si è scritto e analizzato allo stesso modo dei gruppi nati negli States come alternativa ai melodici merseybeat, come i Monks o i Fugs. I Sonics sono mille volte più famosi oggi di quando erano giovani e metà del loro repertorio lo si trova fisso nella scaletta di buona parte dei gruppi garage contemporanei. Gli inglesi prediletti da Lester Bangs erano i Troggs, inutilmente buttati nel calderone proto-punk per poi essere comunque messi da parte dalla letteratura critica. Senza contare tutta quella sperimentazione che era già avvenuta negli anni ’50, dimenticata per così tanto tempo che ad oggi è quasi impossibile trovare libri o persino video su YouTube riguardanti quel periodo del rock. Più si scava più appare chiaro che non c’è una sopravvalutazione del fenomeno specifico dei Beatles, quanto in generale dell’impatto della British Invasion sulla scena rock, descritto come unicamente positivo ed egemonizzate (e certamente per le major dell’epoca lo è stato eccome). Di gruppi che suonavano garage ce ne erano ben prima dell’avvento degli inglesi, e anche incredibilmente seminali come i Kingsmen. Fra l’altro tra le due più famose cover di Money (That’s What I Want) di Barrett Strong, quella dei Kingsmen a fine carriera (1966) dimostra la differenza d’approccio tra un rock più trascinante e che oggi molti critici definirebbero proto-punk, ad uno più curato e abbellito (la cover dei Beatles è del ’63) per un pubblico più raffinato, dove in primo piano ci sono gli intrecci vocali invece dell’assolo di Mike Mitchell, e dove agli Abbey Road viene sovrainciso con precisione un ostinato pianoforte per i Kingsmen c’è l’organo di J.C. Rieck, che sporca non poco la riuscita finale del prodotto. Non sto parlando di qualità, ma di approccio, non esiste un approccio giusto o uno sbagliato, ma l’idea storica che l’approccio corretto e rivoluzionario fosse quello delle band inglesi à la Beatles è ancora piuttosto radicato.

Se la realtà quindi era complessa e stratificata, la percezione invece appariva chiarissima e raccontava una storia molto appassionate: quattro giovani dalla brillante Liverpool che scalavano le classifiche con un rock di buon gusto, adatto anche alle mamme, agli zii e ai papà, per nulla banale e sempre accompagnato da una costante ricerca di autorevolezza musicale con l’uso di grandi studi di registrazione e orchestrazioni di alto livello (le idee di George Martin hanno imposto diversi canoni per la musica pop fino ad oggi). Peccato che i quattro fossero invece la rappresentazione plastica del giovane proletario inglese, più interessato alle donne e al successo che al buon gusto, eppure l’opera di rielaborazione pubblica fu totalizzante, tra film e riviste dedicate i quattro erano stati trasformati in perfetti pretendenti dell’alta borghesia . La stessa operazione, solo all’inverso, fu applicata ai benestanti Rolling Stones, che passarono alla storia per quelli sregolati e vicini “alla gente” (come avrebbe dovuto confermare tardivamente il singolo di Street Fighting Man, che invece risultò talmente ambiguo da essere praticamente apolitico, un po’ come la Revolution dei Beatles parlava di rivoluzione ma senza scontri, magari a palle di neve o lanciando dei bacini in direzione dei “cattivi”). La narrazione delle grandi etichette possedeva comunque dei limiti espressivi oltre i quali non si poteva andare, la carriera solista di John Lennon si muoverà proprio contro quella direzione, anche se con una buona dose di utopismo che l’ha sempre caratterizzato. 

Ovviamente il modo con cui noi facciamo esperienza di ogni fenomeno storico è in realtà una deformazione, a volte è una compressione in cui tanti eventi finiscono tutti appaiati in un periodo percepito come breve anche se non lo è stato, delle altre è una visione ideologica legata a degli aspetti culturali contemporanei che cambiano la nostra analisi di certi avvenimenti mettendoli sotto una nuova luce, ma ciò che mi interessa analizzare qui è un fenomeno di costume. Quando parliamo di “grunge” parliamo di Nirvana, ma non succede la stessa cosa con l’hard rock o con l’hip pop. Questo perché l’impatto dei Nirvana è stato culturalmente più efficace e trasversale, superando di gran lunga la qualità della loro produzione musicale. Dire che i Nirvana «siano stati il grunge» è più comunemente accettato che dire che i Genesis «siano stati il prog», piuttosto che i King Crimson o i Van der Graaf Generator. Eppure non si può di certo dire che il ruolo dei King Crimson nel prog sia stato meno influente ed importante di quello dei Nirvana nel grunge. Per cui la questione non è più musicale, ma di costume e società.

Il peccato del successo

Ripeti la stessa cosa per un certo tempo, e diventa gusto. Se invece interrompi la tua produzione artistica dopo aver creato una cosa, essa diventa una cosa in sé e tale rimane. Ma se si ripete un certo numero di volte, diventa un gusto.
[Marcel Duchamp, intervista di James J. Sweeney, Scritti, p. 157]

Sembra praticamente impossibile analizzare l’opera dei Beatles senza lasciarsi prendere dall’agiografia o dalla demolizione ideologica. La prima viene naturale, siamo tutti cresciuti con i Beatles, e il 99% dei musicisti che negli anni ’60 hanno deciso di mettere sù una band lo hanno fatto perché hanno ascoltato una canzone dei Beatles alla radio (anche se poi hanno preso strade diverse, come nel caso dei Byrds o dei già citati King Crimson), questi bias sono difficili da eludere perché la musica, molto più delle altre forme d’espressione umana, è pura emozione, grazie alla sua astrattezza. In neurobiologia infatti la musica è considerata come una tipologia artificiale di stimolazione della varie emozioni umane in un ambiente controllato, questa tramite i suoi idiomi (per usare un termine caro a Leonard Bernstein) è capace di evocare sentimenti che noi traduciamo spesso in narrazioni, con un inizio, uno svolgimento e una fine. Questo piacere artificiale può essere “allenato” tramite lo studio e l’ascolto reiterato, che fortificano certi collegamenti neurali che diventano il nostro punto di riferimento, il nostro gusto per certi versi. La sovraesposizione dei Beatles li ha resi la pietra di paragone per tutto quello che ne ha seguito, ovvio che chi era cresciuto con gli Everly Brothers o i Crickets non gli parevano un granché, infatti all’inizio la band fu presa come una commercialata per il fiorente mercato femminile, e furono anche sponsorizzati in quest’ottica, ma per questo suo nuovo pubblico i Beatles furono l’inizio di una nuova esperienza, quella della musica americana di consumo, esperienza centrale nel mercato internazionale ancora oggi (queste distorsioni esistono anche nello studio accademico della musica, la centralizzazione del pensiero occidentale non è una verità storica ma una percezione della nostra civiltà).

Nei primi anni ’60 le maggiori riviste con i loro critici di punta colpirono durissimo i Beatles, rimanendo storicamente sconfitti dalle vendite sempre più impressionanti della band – una storia che continua a ripetersi, pensate solo a Queen, Green Day, Led Zeppelin, Linkin Park, Black Sabbath, Nickleback e via discorrendo. Ma ciò che veniva criticato alla band non erano solo le gimmick (tipo il taglio di capelli coordinato), ma sopratutto la qualità dell’esecuzione. In una stroncatura del New York Times del 1964 c’era scritto: «La qualità vocale dei Beatles può essere descritta come un’incoerente suono rauco, a mala pena adatto per comunicare i loro testi schematici.» In generale, almeno ai tempi della loro prima tournée statunitense, erano considerati da molti esperti del settore come l’anti-musica, una vera e propria banalizzazione a favore di un abbassamento della soglia di comprensione dell’ascoltatore. Eppure in poco tempo questa sensazione cambiò radicalmente, e i plausi per la band si fecero sempre più numerosi e autorevoli, e mentre il fronte antagonista cominciava ad indebolirsi nelle colonne dei giornali tradizionali, tantissimi nuovi critici si affacciarono sulla scena proprio per amore dei Beatles e misero le basi per il nuovo giornalismo musicale, da una parte le fanzine pop, dall’altra le prime riviste musicali strettamente rock.

Poco prima scrivevo che l’altro approccio problematico all’opera beatlesiana è quello ideologico. Il primo vero e irrisolto peccato della band fu, come spesso accade, quello del successo. La musica dei Beatles piaceva, tantissimo, e prima di “Rubber Soul” il 99% del pubblico tipico della band era composto effettivamente da ragazzine in delirio ormonale. Quante volte ancora oggi il gruppo che esce dall’anonimato e conosce finalmente il successo internazionale viene tacciato di tradimento dai suoi fan storici? Questo aspetto l’antropologia lo spiega con scientifica crudeltà, siamo animali sociali che vivono in società gerarchiche, e la conoscenza ha un suo ruolo nelle gerarchie delle nostre tribù. Una volta che una conoscenza non è più esclusiva perde il suo effetto persuasivo sul resto del gruppo, diventa popolare, quindi inutile. Oltre a questo ci sono anche le prese di posizione aprioristiche sempre dettate da logiche ideologiche. Una critica che ha come riferimento valoriale l’icasticità espressiva vedrà nei Beatles un gruppo formato a tavolino costruito per fare soldi con le pubblicità e i film di seconda categoria. Una critica improntata sugli aspetti più avanguardisti invece noterà la derivazione dei Beatles in tutti gli aspetti melodici, e sosterrà l’inutilità della loro ricerca laddove perlopiù dovuta a degli studi di registrazione esclusivi (e anche quando frutto dei quattro, comunque in ritardo su altri artisti meno conosciuti dal grande pubblico). Come vedete però l’approccio non è mai immediato, esperienziale, ma filtrato dal fatto che i Beatles siano a loro malgrado portatori di concetti e significati che offuscano il prodotto musicale di per sé

Personalmente non credo che nessuno si offenda nel dire che i Beatles siano stati la più grande rock band di tutti i tempi, anche perché è un’affermazione talmente assurda da non avere alcun significato. Così come lo sarebbe sostituendo i Beatles con qualsiasi altro artista o band presa singolarmente. Non c’è un modo oggettivo per decretare l’artista “migliore”, chiunque proponga questo tipo di pensiero lo sta facendo attraverso una precisa idea di estetica o di classificazione, che è quindi opinabile alla radice. Il “migliore” è quello che ha più album venduti? Il “migliore” è quello che ha sperimentato di più? Il “migliore” è quello che ha provocato più? Perfino a livello tecnico non c’è unanimità tra gli esperti su quanto i Beatles fossero bravi o scarsi, articoli come l’intervista di Quincy Jones a Vulture stonano gravemente con altri esperti in materia. E questo non perché non ci sia modo di capire se quella particolare soluzione di Ringo Starr sia dovuta ad un’idea straordinaria o ai suoi limiti tecnici, ma perché tutto dipende dalla prospettiva con cui si vuole capire la musica della band. Non sono pochi i video su YouTube in cui ci viene spiegato che il motivo per cui la musica dei Beatles fosse così straordinaria dipendesse esclusivamente da Ringo, piuttosto che soporifere analisi su chi tra Paul e Joh fosse il miglior songwriter, oppure di come le influenze indiane abbiano cambiato l’approccio artistico e spirituale di George Harrison. Tutto questo spesso a discapito della musica stessa, così l’apparente scomposta apertura di Drive My Car o l’inaspettato feedback in I Feel Fine diventano aneddoti senza alcun peso critico, futili medaglie al valore senza contesto, elementi di una storia che ha un senso solo nella prospettiva biografica. 

Questa infinita discussione sulla qualità di ogni membro della band è figlia di una precisa e spietata campagna di marketing che con i Beatles toccò il suo apice, ma che a ben vedere seguirà ogni nuovo fenomeno musicale dopo gli anni ’60. Fu George Harrison alla fine degli anni ‘80 ad asserire che i veri due “quinti” Beatles non fossero né George Martin né Brian Epstein, ma bensì i due loro manager e p.r. Derek Taylor e Neil Aspinall, il secondo già amico di Pete Best prima ancora che i quattro partissero per Amburgo. Buona parte delle liti più feroci erano dipese dalla relazione tra McCartney e Lennon con i loro manager, i Beatles come prodotto erano la sintesi di ben più che quattro teste. Non era forse dell’ottimo marketing le durissime critiche ricevute dalla band durante i primi tour internazionali, perlopiù contro il loro atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’isteria di massa che provocavano? Non era forse marketing l’attenzione asfissiante sulle parole di Lennon su Gesù, o l’odio irrazionale verso Yoko Ono? Probabilmente è vero che il loro storico incontro con Dylan cambiò radicalmente le dinamiche nel gruppo, ma non intaccò in alcun modo quelle del marketing attorno a loro, che tra film dimenticabili e riviste ufficiali (come il leggendario “Beatles Monthly”) hanno posto le basi per il mercato odierno delle star del pop mondiale. 

Si può dire qualcosa di oggettivo, please?

Now, the point I want to make is that such oddities as this are not just tricks or show-off devices. In terms of pop music’s basic English, so to speak, they are real inventions.
[Leonard Bernstein durante il suo “Inside Pop: The Rock Revolution”, parlando di Good Day Sunshine dei Beatles, 1967]

Ma quindi si può dire qualcosa di oggettivo sui Beatles? Forse, ma mi chiedo quale possa essere il valore critico di una serie di parametri oggettivi, quindi di per sé non qualitativi. Si potrebbe dire, per esempio, che fanno parte di quel movimento di ripresa del rock melodico, che poi ha cavalcato l’esplosione della psichedelia (che in UK fu propedeutica per la scena progressive), il quale assieme a Move, Kinks, Animals, i primissimi Rolling Stones, Monkees e Beach Boys rappresentarono il meglio del pop melodico tra il 1963 e il 1969. Sicuramente gli intrecci più raffinati e complessi mettono Beach Boys, Beatles e Kinks in una sorta di podio virtuale in cui il “migliore” dipende esclusivamente dal gusto, ma questo podio avrebbe senso se la melodia fosse l’esclusivo metro di giudizio della qualità di una canzone. Sempre continuando con gli esempi, in confronto a Rolling Stones, Who e Small Faces, i Beatles hanno messo in maggiore evidenza le influenze canore degli anni cinquanta invece di quelle blues dal Mississippi, e quando i Beatles approcciarono l’idea del concept album calibrarono la forma anche per gli altri, sebbene gli ottimi esempi antecedenti. Eppure non sarebbe del tutto vero nemmeno questo, in fondo artisti come i Pretty Things, Frank Zappa e gli Who sperimentarono in modo molto diverso da quello dei Fab Four (e la band di Dick Taylor, Phil May e Wally Waller lo fecero persino negli studi dei Beatles!). Un particolare plauso va fatto agli Who (e alla infinita presunzione di Townsend), facendo seguire a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (giugno, 1967) un brillante “The Who Sell Out” (dicembre, 1967), folle caleidoscopio di jingle pubblicitari e singoli da classifica, un lavoro molto concettuale e di peculiare riflessione socio-politica, per poi replicare due anni dopo con “Tommy”, che mescolava echi wagneriani (ben diversi dal “muro di suono” spectoriano) al blues-rock. 

Si potrebbe dire, sempre secondo una prospettiva oggettiva, che in comune con i Kinks i Beatles avevano il fatto che erano più forti con i singoli che con gli album. So di dire qualcosa di molto controverso per i fan, però cercate di seguirmi: nel “White Album”, considerato da tanti appassionati ed esperti del settore come uno dei capolavori della band, ci sono pezzi di ingiustificabile bruttezza come Ob-La-Di, Ob-La-Da e Don’t Pass Me By, e io capisco che While My Guitar Gently Weep faccia piangere tutta la famiglia quando la strimpella Eric Clapton, ma sono canzoni che non hanno il peso di una Helter Skelter (e forse neanche di una brutta ballad di Barry Manilow) e che dunque inficiano in modo irreparabile sulla qualità complessiva di un’opera. In generale i veri capolavori dei Beatles sono le raccolte (per gli insulti, le minacce e le denunce tramite avvocato scrivete pure a: genericamentegiuseppe@gmail.com), e non è un caso se l’album più venduto della storia della band sia del 2000, ovvero “1”, una compilation di tutti i singoli che toccarono la prima posizione in UK e negli USA tra il ’62 e il ’70. Con questo non sto dicendo che gli album dei Beatles non siano pieni di canzoni valide e di successo, in particolare dopo il ’64, ovvero quando Lennon e McCartney presero le redini del progetto e le canzoni acquisirono anche maggior consapevolezza nelle liriche e si spinsero delle volte con coraggio nel panorama a loro contemporaneo, ma che come capitava spessissimo negli anni ’60, gli album erano zeppi di riempitivi. Il caso più eclatante forse è quello dei The Move, passati in poco tempo dal pop, alla psichedelia al prog riuscendo a mala pena ad azzeccare un primo album e poi un paio di canzoni al massimo per disco, pur restando ben aggrappati alle vette delle classifiche per un po’ di tempo.

Sarebbe interessante adesso fiondarsi nel riascolto della discografia beatlesiana, e c’è davvero il rischio che questo articolino insignificante diventi uno di quei orribili post-valanga alla Not o alla Noesy, ma per fortuna si è fatto tardi e ho fame. Aggiungo solo qualche mio sghiribizzo, ovvero che l’album più influente per la sua generazione rimane quello del Sergente, il più importante per la band probabilmente “Rubber Soul”, il più eclettico il Bianco, il più solido a distanza di anni “Abbey Road”, il più divertente il “Magical Mystery Tour”, gran parte delle cose uscite prima del ’64 sono piuttosto imbarazzanti e “Revolver” è uno degli album più sopravvalutati della storia della plastica, ma su ognuno di essi si è detto tanto, troppo, e della mia personale opinione probabilmente non gliene frega niente a nessuno. Un altro problema che però secondo me deriva da questo culto, prima adolescenziale e poi agiografico, è stato quello di elevare la band a questa sorta di monolite intoccabile e inafferrabile, come se i loro giri di chitarra fossero tutt’altra cosa da quelli di Hank Marvin, Link Wray o Pete Townsend, o la loro sezione ritmica più rivoluzionaria ed complessa di qualsiasi altra band, James Brown, Who e Soft Machine compresi (la stessa cosa accade in tutti i paesi, in Italia abbiamo l’esempio di Lucio Battisti). Avrebbero meritato la stessa attenzione dei Beatles i Kinks, per dire, che hanno fatto del songwriting di altissimo livello sfornando classici a non finire. Sarebbe bello leggere approfondimenti sui Beach Boys che non ci rompessero l’anima con “SMiLE” ma si avventurassero nella discografia tarda della band. Senza dubbio ci vorrebbero più analisi sugli Small Faces, magari accompagnate da una bella biografia fatta con i contro-così-detti e criticamente valida, e sarebbero assai graditi degli studi più tecnici anche sugli Who e sul rock strumentale di inizi anni ’60 prima del cambio di paradigma inglese, oppure qualche pubblicazione sul sottobosco fatto di Remains, Shadows, Troggs, Kim Fowley, Music Machine, Seeds, Godz e via dicendo – e con questo non sto assumendo che non esista niente di tutto questo, ma che è tutto ingiustamente sproporzionato nei confronti della letteratura beatlesiana. 

Non è la prima volta nella storia della musica che si assegna a dei musicisti troppa importanza per quel che hanno realmente espresso, sia in senso positivo che negativo. Platone era terrorizzato dall’avvento del modo lidio che secondo lui avrebbe portato al decadimento dei valori della sua generazione, un po’ come oggi tanti sostengono che la trap sia il fondo della bottiglia della musica pop derivativa dal novecento, una sorta di punto di non ritorno. Si pensa che la psichedelia nel rock sia nata per una band, massimo due, così il metal o il prog, ho già scritto di come se qualcuno dal balcone grida: «Grunge!» qualcun altro risponderà con: «Nirvana!», la semplificazione invece di venire in aiuto per orientarsi nel complesso panorama musicale diventa troppo spesso metro di giudizio definitivo attraverso l’abuso di classifiche, liste e similia. Figure ottocentesche come Beethoven hanno più agiografie che biografie, alimentando un mito che purtroppo oscura la sua produzione musicale preferendo l’aneddoto all’ascolto consapevole, forse è una dinamica inevitabile, che non può essere arginata né dalla critica né dai fruitori. 

Che i Beatles siano stati immensi o piccolissimi non è più un compito del critico da valutare, perché la loro influenza ha superato di gran lunga la qualità delle loro composizioni, rendendo questi quattro ragazzi scapestrati delle icone al di sopra delle aspettative di chiunque, il simbolo di una generazione, l’inizio di qualcosa che in realtà c’era già ma era stato troppo frettolosamente dimenticato. 

Conclusioni

La Qualità non serve per decorare soggetti e oggetti come i festoni di un albero di Natale. Dev’essere la loro fonte, la pigna da cui spunta l’albero.
[R.M.Pirsig, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, p. 283]

Siamo figli della percezione dei nostri genitori, e sembra che la critica non riesca a colmare questo gap. Probabilmente però la colpa è anche della critica stessa, la produzione di “storie” della musica rock è limitata, e gran parte delle uscite nazionali ed internazionali sono di bassa qualità complessiva, la maggior parte per esempio salta a piè pari gli anni ’50 partendo proprio dalla British Invasion come punto d’inizio ideale! In risposta a questa tendenza esistono diverse riviste o forum su internet che invece ribaltano la situazione, facendo passare gruppi come i Godz o i Troggs come molto più influenti di quanto fossero effettivamente stati, tacciando la musica inglese di essere al massimo una discreta digressione di quella americana, il che è un’assurdità. E anche in questo post coesistono diversi bias, perché non si è parlato della musica indiana degli anni ’60, dell’esplosione garage in Giappone, Nuova Zelanda e Australia, del beat italiano dei Corvi, della musica elettronica tedesca che tanto doveva a quella sperimentale americana dei gruppi di rock strumentale, delle influenze del Tropicalismo, ecc. ecc. Viviamo in tempi in cui la semplificazione non è più una scusa accettabile, la possibilità di raccogliere materiale è stata incredibilmente facilitata, e così anche l’occasione di studiare testi e saggi da ogni parte del mondo. La critica rock dovrebbe cominciare a lasciar stare gli epigoni di Lester Bangs, oppure l’approccio dialettico-marxista di Simon Reynolds, o l’analisi per compartimenti stagni (ovvero nazionali) alla Simon Frith, bisognerebbe prendere di petto questa Storia e sviscerarne tutti gli aspetti, compresi quelli apocrifi, come le pubblicità radiofoniche dei dischi, la storia dei formati di riproduzione, le questioni culturali sospese e quelle risolte, gli aspetti antropologici e i nuovi approcci neuroestetici. Lo diceva anche Goffredo Fofi in una recente intervista a Fanpage che non ha più senso di esistere il critico iper-specializzato, bisogna pretendere una critica più aperta alle contaminazioni. Più che chiederci se i Beatles sono stati la più grande rock band di tutti i tempi, bisognerebbe chiederci che senso ha una critica che si pone questo genere di domande.

Come sono cambiati i miei gusti musicali

Doveva succedere. Purtroppo è successo prima di avere un’attrezzatura minima decente, ma sono povero e me ne strafotto. In un futuro, quando sarò ricco e famoso parlando di Kim Fowley e Bessie Smith, avrò lo studio tipo Stephen Colbert con i BCUC come band permanente dello show e la cocaina scorrerà a fiumi manco fossimo ad un tè con Keith Richards.

 

Frank Zappa, Gang Of Four, Miss World

La faccio breve: in questi mesi ho avuto parecchi cazzi da pelare, per cui non rompetemi il gatto. «Vabbè, però avrai sicuramente ascoltato un po’ di musica!» Vero, però poco rock ’n roll, e sopratutto pochissima roba uscita di recente ma quasi ed esclusivamente riascolti di vecchi album. Potrei scrivere di Sage Francis, Thundercat, della Camerata Nordica o di Mahler, ma sono abbastanza sicuro che quello che ne verrebbe fuori sarebbero una cascata di banalità e stronzate colossali, e dato che per quello c’è già il Rolling Stone non vedo perché mi ci dovrei mettere pure io. Alla luce di tutto ciò vi lancio qualche brevissima istantanea (perché non sono recensioni) e due o tre riflessioni estemporanee, leggere come l’aria.

Frank Zappa - Apostrophe'Frank Zappa
Apostrophe
(1974)

Tra Settembre e Dicembre mi sono ripescato tutto lo Zappa dai “Lost Episode” targati 1959 fino a “Joe’s Garage” del ’79, in una sorta di delirio nostalgico per i tempi che furono quando al liceo scoprì questo pazzo baffuto. In un moto di rivalutazione sentimentale mi sono persino ritrovato ad apprezzare “Cruising with Ruben & The Jets”! Quasi mi stavo per sparare un album dei Climax Blues Band in questo clima riappacificatorio e dolciastro, e devo dire che stava andando tutto benone, ascoltando “Over-Nite Sensation” credo di aver avuto persino un’erezione durante l’assolo di Zomby Woof. Poi però è successo, di nuovo. La magia è scomparsa e tutt’un tratto Zappa mi è sembrato uno dei peggiori bastardi della storia del rock. Tutta colpa di quel pasticcio commerciale e ruffiano di “Apostrophe”.

La musica di Zappa dal 1974 si è trasformata da provocatoria a idiota con un colpo da maestro. Completamente rincretinito dalla sua stessa grandezza Zappa ha cominciato a riciclarsi e a spostare la sua attenzione verso la perfezione estetica dell’esecuzione, producendo una quantità incontenibile di musica fine a se stessa, caratterizzata  nei momenti migliori da lunghissime elucubrazioni elettriche, altrimenti ti toccavano oscene derive pseudo-sperimentali (“Francesco Zappa”), e in generale tutte le sue canzoni divennero metafore più o meno dirette su quanto ce l’avesse lungo.

Non è che tutto quello che sia uscito dopo il ’74 sia merda chiaramente, ci sono parecchi pezzi che si salvano dal generale appiattimento della produzione zappiana, ma sono monadi, brevi esternazioni di un genio un tempo incontenibile.

Anche nei suoi album meno riusciti prima di “Apostrophe” Zappa conservava comunque una fortissima coerenza concettuale, completamente mandata a puttane per favorire la catarsi delle live, lunghissimi flussi di coscienza che cominciavano e si concludevano nell’esaltazione delle sue doti di chitarrista. Riascoltare le soluzioni timbriche di “Hot Rats” complicate oltremodo in St. Alfonzo’s Pancake Breakfast e Father O’Blivion mi ha fatto tornare la colazione sù per l’esofago. Dopo aver parodizzato tutta la storia del rock Zappa ha fatto il giro e, senza rendersene conto, a cominciato a parodizzare se stesso.

trasferimentoGang Of Four
Entertainment!
(1979)

È incredibile quanti gruppi di merda debbano le loro migliori intuizioni a questo album. Di tutta la prima fondamentale ondata post-punk i Gang Of Four rappresentano il giusto equilibrio tra sperimentazione e ballabilità. Intellettuali ma funky, con riff catchy ma anche feedback lancinanti, pensate che negli anni ’80 venivano considerati un ascolto difficile, oggi invece sembrano i più fruibili di quella eccezionale sfornata di punkers intellettualoidi.

Anche loro come Pere Ubu, Throbbing Gristle, Young Marble Giants rispondevano ad una tensione collettiva verso l’apocalisse, perlopiù divisa tra chi ne faceva una battaglia politica e chi una sociale. Chiaramente i Gang Of Four non erano gli Scritti Politti, e così la loro rabbia generazionale si scagliò principalmente contro la musica commerciale.

Questa comune visione di un mondo allo sfascio, dove le industrie chiudono e il sogno capitalista sembra trasformarsi per molti in un incubo, aveva generato una serie di singoli nell’ambiente post-punk piuttosto espliciti. Gli Ubu avevano nel primo album un pezzo come Chinese Radiation, i Throbbing Gristle un singolo come Zyclon B Zombie, i rarefatti Young Marble Giants invece Final Days. In “Entertainment!” non c’è un pezzo corrispettivo  a quelli appena elencati, perché tutto l’album tende per sua natura verso una dimensione paranoica. Il prezioso corollario di immagini nelle liriche, cantate con fare un po’ altezzoso da Jon King, costruisce un mondo giovanile arido e pericolosamente apatico, chiuso all’interno di una discoteca senza porte in cui i Gang Of Four suonano a loop i loro pezzi.

In effetti la band sembra in trance per tutta la durata del disco, persino mentre la batteria di Hugo Burnham sembra in alcuni momenti riprendere il drumming nevrotico e claustrofobico di John French.

Incredibile la conclusione dell’album, tanto immensa e irraggiungibile da rendere ogni tentativo futuro della band di ripetersi a quei livelli puerile e futile. Due voci che si ignorano per poi trovarsi causalmente dopo una nebbia di effluvi elettrici, mentre la sezione ritmica martella come nei Neu!, sono la summa del lavoro di compressione e spigolatura del sound new wave proposto dalla band inglese. Anthrax è più una performance che una canzone vera e propria, potrebbe benissimo essere parte integrante di uno spettacolo di Roberto Latini e nessuno se ne stupirebbe nemmeno un po’.

a4037505322_10Miss World
Waist Management [EP]
(2017)

Non so nemmeno come l’ho scoperto questo Ep. Probabilmente cliccando a caso qua e là in un momento di noia – uno dei pochi concessomi in questi mesi. Ve lo dico chiaro e tondo: non esiste nessun motivo al mondo per cui dovreste ascoltare “Waist Management. Le canzoni sono banali, il garage pop che ci troverete è indietro di dieci anni in termini di freschezza, e di quattro canzoni una è un riempitivo bello e buono. Però, mi venissero le pustole nei condotti uditivi, è la cosa che ho più ascoltato da Settembre a Dicembre. Perché? Boh.

L’idea di base di Miss World è che lei è una ragazza incredibilmente gnocca, che vende la sua compagnia e il suo corpo per campare ogni giorno alla bell’e è meglio. In Buy Me Dinner giura d’innamorarsi di un tizio sposato se gli offrirà il pranzo, in Put Me In A Movie afferma che tutti i suoi amici vorrebbero metterla in un film (di che genere ve lo lascio intuire a voi), in Click And Yr Mine Miss World «fell in love in Internet» e non si rialza più. Lip Job, come avevo detto, è un riempitivo sulla fellatio.

Non so cosa sia successo, ma la storia di Miss World mi ha conquistato. Mi è anche venuta voglia di riascoltarla. Adesso.

PROSSIMAMENTE SU QUESTO BLOG:
1) Una recensione del primo storico flop dei Rolling Stones;
2) La tragica ed emotiva recensione del primo CD rock della mia vita: “Selling England By The Pound”.

(Tranquilli, le ho già scritte. Più o meno.)

Podcast – Gli album del Kuore <3

Per concludere la prima stagione di Ubu Dance Party abbiamo voluto sperimentare questo format, in realtà tra i primi ad esser stati ideati ormai 4 mesi fa. ‘Fanculo la critica e gli atteggiamenti da sapientoni di ‘sto gran cazzo, stavolta si parla col KUORE (o QUORE, che dir si voglia), perché la musica è anche emozioni, anche se a scrivere questa parola mi è salito uno strano conato, gusto vaniglia e birra della COOP.

Bando alle ciance cari fedeli seguaci del party più sconsiderato che ci sia, godetevi questa rinfrescante puntata, con Ubu Dance Party ci si ribecca a Settembre!

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Podcast – Epifanie rock

Giudizi affrettati, oppure presunzione, sono tanti i motivi che ci portano a giudicare un album credendo di averci messo tutta l’attenzione necessaria, ed invece basterà riascoltarlo qualche anno dopo, magari di sottofondo ad un pub, per cambiare idea.

Una lista di otto artisti/band su cui per anni ho spalato merda addosso prima di rendermi conto di quanto fossi in torto.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Podcast – La leggendaria intervista a Tab_ularasa

UDP #12
Da sinistra: il vostro blogger preferito, Tab_ularasa, DJ Lowrenzo.

L’anno scorso ne ho fatte parecchie di interviste, ma tutte in ambito extra-musicale, e per quanto mi riguarda aprire un ciclo sul podcast proprio con Tab_ularasa è stato un sogno. Tab è una delle personalità più poliedriche e fottutamente fuori di testa che ci siano nel sottoterra italiano, uno di quelli che potrebbe scrivere la pagina DIY di Wikipedia auto-citandosi come unica e incontrovertibile fonte (di stronzate ovviamente – con affetto Tab <3). Ora però sono ben quattro giorni che ne parlo bene per cui temo mi stia ammalando o qualcosa del genere.

Comunque sia per Ubu Dance Party è stata in generale una bellissima puntata, culminata con la live di Tab e conclusasi con le solite stronzate di DJ Lorenzo.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»