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Podcast – Le Grandi Delusioni

Sicuramente sarà successo anche a voi, no? Vai dal tuo spacciatore di dischi, ti fai consigliare qualcosa in base ai tuoi gusti, spendi un bel ventone o anche più, torni a casa per sparatelo dritto dritto nel condotto uditivo e… BANG! È una merda.

A me è successo parecchie volte, in questa puntata di Ubu Dance Party ve ne elenco 8 particolarmente scottanti.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

David Bowie, Iggy Pop, Deep Purple, Eric Burdon

101716_NpAdvHover_Fotor_Collage È la dannata stagione degli zombi, centinaia di band del passato, rinvigorite dal dio denaro e da internet, tornano a sfornare dischi che si ostinano ad intasare il mio cesso.

Il fatto che ad una certa età si possano ancora fare dischi piacevoli non è qui messa in discussione. Infatti finché sento dire che “On An Island” (2006) di David Gilmour è ascoltabile, se non addirittura carino, e che “Mighty ReArranger” (2005) di Robert Plant e la sua band dal vivo renda abbastanza bene, sto tranquillo, sto sereno. Ma appena qualche idiota in qualche rivista patinata comincia a vomitare cose come “il miglior disco dei Pink Floyd dai tempi di The Wall” o anche “come, o forse meglio di Physical Graffiti” io mi incazzo come una scimmia.

Ma poi il problema non è tanto il mio, che c’ho pochi soldini e li spendo perché sono stato ammaliato da un critico stronzo che legge i nomi in cover e poi dà il voto senza ascoltare l’album, il problema vero sono proprio quei deficienti che comprano questi dischi e sono d’accordo con il critico! A me non piace dare giudizi assoluti, preferisco insultare l’artista piuttosto che l’ascoltatore, perché ognuno è libero di comprare e amare qualsiasi musica. Ci mancherebbe altro, cazzo. Ma quando si parla di band come i Deep Purple, per l’amor del cielo, si potranno prendere in considerazione gli album precedenti e la storia del fottuto rock, oppure no? Forse dobbiamo metterci a novanta e dire “dai però, Bananas comunque è suonato molto bene” bella figa, allora inizio a comprarmi tutti i dischi di Steve Vai e Joe Satriani così sono a posto con l’anima. Peccato che a me della masturbazione sia venuta a noia qualche anno fa, ora mi piace il Rock.

Tutto questo per dire: non basta il nome, anche la musica, la storia e il contesto sono argomenti che dovrebbero far parte di ogni buona critica a qualsiasi forma artistica. Non tutto quello che ha fatto Leonardo Da Vinci è perfetto, non tutto quello che caga Lou Reed è musica raffinatissima. E così, invece che tediarvi con le mie solite lunghe e laboriose recensioni, stavolta vi butto là qualche impressione di questo genere di album usciti nel 2013, anche perché non meritano un minuto in più del mio tempo.

David Bowie, “The Next Day”: un disco ben costruito da ottimi ingegneri del suono, ben mixato e… basta. Bowie non si spreca nel vendersi come il solito camaleonte, peccato che questo valga per le prime tre tracce, dopo di ché non gli riesce neanche il solito trasformismo e comincia a riciclarsi violentemente. Docet Valentine’s Day, una ballad ammuffita con quel sound così Bowie, ma che per il quale esistono album molto più vecchi e validi. Cosa me ne faccio di “The Next Day”? Di certo Bowie non ha mai spiccato per doti compositive, le cose migliori sono uscite grazie a collaborazioni importanti (Brian Eno e Robert Fripp fra tutti), e questo album lo conferma. If You Can See Me che roba sarebbe? Musica scritta a tavolino, senza anima né idee.

[voto: 4/10]

Iggy and The Stooges, “Ready To Die”: credo sia una presa per il culo. O almeno suona proprio così. È inutile buttare lì miti assoluti come Mike Watt, potevano metterci anche Kermit la Rana, il disco continuerebbe a suonare come la cover band degli Stooges, senza rabbia, violenza, potenza, è più significativa la colonna sonora del film di Spongebob! Di certo la rabbia è un sentimento che mi pervade mentre ascolto questo aborto fatto album, un’inutile sequela di cliché suonati non tanto come se fossero “pronti per morire”, ma piuttosto: “pronti per rapinarvi con un nuovo tour mondiale”. Neanche da ubriaco riuscirei a trovare una giustificazione plausibile per cotanto acquisto.

[voto: 3/10]

Eric Burdon, “‘Til Your River Runs Dry”: per quanto la voce del buon vecchio Burdon sia sempre apprezzata dalle mie casse questo album poteva farselo scrivere da qualcuno che ci capiva qualcosa di musica. Brutto e triste rimescolare le carte di quanto già sentito nella sua monotona carriera solista, pezzi come Devil And Jesus forse possono accontentare vecchi cinquantenni che si lamentano perché “i Clash sono punk quindi fanno cagare” o che “una volta qui era tutta campagna” ma personalmente mi aspetto sempre qualcosa di più, non so perché, sarà irrazionale, però è così, sarà perché ho pochi soldi e non mi piace spenderli in dischi così palesemente inadeguati.

[voto: 3/10]

Deep Purple, “Now What?!”: dai cazzo no! No, no, no, no, no, rifiuto di sentirmi dire da esseri razionali che questo è un buon album, addirittura al di sopra della sufficienza! “Now What?!” dovrebbe essere ritirato dai negozi per salvaguardare la pubblica decenza, ascoltare Vincent Price mi ha quasi ucciso, le orecchie sanguinavano e non riuscivo a fermare le lacrime. Questa non è la cover band dei Deep Purple, questa è la band-parodia dei Deep Purple! Chi ritiene questo album decente non può che ignorare tutta la discografia della band, non ci sono cazzi, oppure non capisce una mazza di rock. Rifiuto a piè pari qualsiasi altra spiegazione, e non mi interessa sentire alcuna difesa a favore di questo scempio assoluto. Se poi le considerazioni sono del tono “però è meglio di Rapture Of The Deep” allora cago mattoni seduta stante. Cazzo, meglio di “Rapture Of The Deep”, allora il Tristan und Isolde di Wagner sembrerà “Glitter” di Gary Glitter. Ma vaffanculo!

[voto: 1/10]

Gary Glitter – Glitter

Quello che recensirò oggi è molto probabilmente uno dei maggiori affronti mai fatti al rock and roll. Un album che non ha proprio motivo di esistere, eppure c’è e miete ancora vittime, non ultimo il sottoscritto, eccovi a voi “Glitter”.

Di Gary Glitter perlopiù conosciamo le vicende giuridiche ma dato che non stiamo giudicando l’uomo ma l’artista non ne parleremo, e difatti la questione la chiudo qui.

Gary Glitter è uno dei figli prediletti del glam rock, quel genere che ancora oggi divide tantissimi appassionati di rock&roll. Nell’immaginario collettivo dei mitici settanta l’idea del rocker era piuttosto chiara: libero, mal vestito, puzzolente, amante del jeans e della canapa, ubriacone e donnaiolo. Col glam le cose cambiarono non poco, dato l’arrivo piuttosto consistente di tizi pallidi, secchi, pieni di paillette colorate, sciarpe, calze a rete e pelle ovunque.

Il genere glam oltretutto presentava diverse differenze col rock tradizionale, non c’era rabbia ma piuttosto goliardia, non c’erano assoli lunghi trenta minuti ma piuttosto riff appena accennati, tutto si semplificava e dava spazio alla dimensione spettacolare che i concerti stavano prendendo con l’inizio dei grandi tour negli stadi.

Chiaramente ci passava il mare tra i tristissimi laser verdi dei Led Zeppelin e le performance spumeggianti degli The Spiders From Mars. Se i primi erano trasgressivi per le giacche orientaleggianti di Page e la voce da film porno di Plant, i secondi lo erano per gli atteggiamenti alquanto ambigui nelle live, passando buona metà dell’esibizione a mimare senza troppa pudicizia penetrazioni e masturbazioni con i loro strumenti musicali.

Fatto sta che il glam cambierà non poco tutto il rock, eliminando di fatto i barocchismi che lo distinguevano e svelandone una faccia più trasognata, festaiola, ma non per questa anche più intimista e se vogliamo complessa.

Ok, ma Gary Glitter che c’entra?

Beh, c’entra eccome essendo uno dei pionieri di questo genere. Purtroppo.

A prima vista questo musicista inglese è tutto tranne un vero glam rocker. Una pancia prominente e un volto da leghista sono le prime cose che saltano all’occhio, il ciuffo alla Little Tony e i suoi vestiti spesso (troppo spesso) aderenti fanno il resto. Trash oltre ogni immaginazione, per molti Glitter è invece un personaggio, un tipo simpatico, o peggio ancora un mito.

Si farà conoscere con una serie di fulminanti successi, uno più tamarro dell’altro, tra cui una terribile cover di Here Comes The Sun. Appena il glam diventa realtà lascia il suo vero nome, Paul Francis Gadd, per aggiornarsi al nuovo trend come Gary Glitter, sintomo chiaramente di qualche genere di disturbo psicotico.

La sua carriera è costellata di greatest hits (una ventina, se contiamo anche le collaborazioni) e un po’ meno di dischi veri e propri (sette, ma risicati di brutto). Fonderà anche una band: la The Glitter Band (su questo potete piangere se volete, ma prima sappiate anche che erano conosciuti anche col nome di Glittermen, tanto per non farci mancare niente), gruppo noto più che altro per un cameo in Remeber Me This Way, ovvero un film di neanche un ora sulla vita di Gary Glitter uscito nel ’74, vi dico solo che all’epoca Glitter aveva all’attivo soltanto due dischi!

…Sì, amici miei: è tutto vero.

Per quanto l’esistenza di Glitter sia già di per sé un insulto a chi nel rock ci mette passione, studio e tempo, bisogna riconoscergli una perfetta mercificazione di se stesso; sostenuto da una etichetta effimera e da poche conoscenze Gary Glitter riesce a ritagliarsi un posto nel mondo della musica con una intelligenza e una voracità che lasciano spazio a poche critiche, se non a quella sulla scarsezza di contenuti.

Il disco d’esordio venne prodotto dalla americana Bell Records, di certo non una delle case di produzione più famose e longeve, anche se nella sua schiera abbiamo gente tipo Al Green, Suzi Quatro e Barry Manilow (protagonista fra l’altro di uno di quei casi che diventeranno sempre più frequenti negli ultimi settanta e nei primi ottanta di artista one-shot: una canzone di successo in mezzo ad una discografia alquanto vomitevole).

Il disco si apre e si chiude simulando una sorta di suite (brrrr!), i due pezzi in questione fra l’altro sono ancora oggi il maggior successo dell’uomo glitterato: Rock and Roll part 1, Rock and Roll part 2. È qui già pare chiara dunque la strategia di Glitter, che di certo non punta su una qualsiasi spinta creativa o originale. Glitter sintetizza, minimizza il glam rock appena nascituro, e di certo lo fa con una consapevolezza che stupisce per la sua precocità, di conseguenza il suo altrimenti inspiegabile successo. Il risultato resta comunque demoralizzante (quando non fastidioso).

Rock and Roll part 1 è una marcia glam con testo che si aggira tra il tragico e la parodia, i momenti più poetici recitano: Times have changed in the past but we won’t forget/though the age has passed they’ll be rockin’ yet.

Baby Please Don’t Go è una delle tante cover del glitterato, che conferma così la sua eccezionale capacità creativa. Quello che ne esce fuori da questa cover di uno dei pezzi blues per antonomasia è una tragedia che Euripide meglio non la poteva neanche immaginare. Qualunque genere musicale tra le mani di Glitter si trasforma inevitabilmente in una marcia a carattere glam. Così infatti accade anche a Baby Please Don’t Go, tripudio di note di chitarra appena abbozzate, fiati che compaiono occasionalmente a rimarcare una chiara linea ritmica e la voce di Gary a chiudere il cerchio magico. Il pezzo rende benissimo l’idea di un glam fine a se stesso, che gioca con i suoi suoni nuovi e sbrilluccicanti, una nuova forma di vita esaltata e che esalta (chi, non lo so, però ebbe tanto successo ‘sta cover).

The Wanderer, l’errante, chiama in questione un piano e dei coristi appena licenziati da una band di boogie-woogie. Il sound è quasi piacevole, se non fosse che Glitter mentre pronuncia caledoscopicamente around around around assomiglia chiaramente ad un caprone imbizzarrito.

I Din’t Know I Loved You (Till I Saw You Rock And Roll), è uno dei pezzi pregiati nati dalla creatività di Gary Glitter, e in effetti nessun altro avrebbe mai potuta scriverla. Giù di marcia, come piace a noi glitteromani, anche qui abbiamo qualche Hey Hey (verso preferito da Glitter, come capiremo in The Hey Song) buttato qua e là e un testo che renderebbe incapace di intendere e di volere Umberto Eco se lo leggesse per sbaglio. Vai così Glitter, vai così. Facci male.

Con Ain’t That A Shame torniamo ad un rock and roll più classico, anche se con la solita staticità  metrica. Glitter non si stanca di rendersi ridicolo simulando un cantate che non beve, non fuma e non va a minorenni nei weekend.

Eccoci all’ultima traccia del lato A, si chiude questa prima trance con una cover del povero Chuck Berry, a cui va il nostro pensiero con infinita tristezza. Alla fin fine insieme a Ain’t That A Shame anche School Day riesce a salvarsi dalla glammizzazione forzata di Glitter, e ospita addirittura un assolo.

Quello che notiamo alla fine dell’ascolto del lato A è la tragica semplificazione perpetuata da Glitter ai capisaldi del rock classico. Quasi una versione schematizzata di quel rock che fu, mischiata ad una dose spesso nauseante di glam rock.

Affrontiamo il lato B.

Si comincia con Rock On, dove Glitter mi stupisce dimostrando di riuscire a fare una canzone di ben 3 minuti e 33 secondi, e riesce a mescolare gli elementi del Lato A in un pezzo più organico e certamente più dinamico dei precedenti. I ritmi incalzanti della batteria cominciano però a diventare un po’ pedanti.

La caduta definitiva arriva con uno smacco straordinario. Glitter decide che è il momento di coverizzare anche il mai abbastanza compianto Richie Valens, una delle voci più interessanti degli anni ’50, un grande che si spense appena maggiorenne. Donna sono 4 minuti che saresti ben più felice di passarli martellandoti i gioielli di famiglia.

Con The Famous Instigator Glitter inizia davvero a giocare con il fuoco. Praticamente ci ricicla senza vergogna alcune delle canzoni presenti nel lato A, il ritmo è un po’ meno robotico magari, ci mette qualche strano verso e qualche pausa, ma la mancanza di idee è davvero lampante.

The Clapping Song non ci smentisce cominciando con un Glitter tutto fogato che ci invita a far baldoria con lui: Everybody Clap!, l’invito però ci lascia però freddi e distanti, seduti sulla nostra sedia pensando che quel disco l’abbiamo comprato davvero. Dio mio. Sembrerebbe essere un pezzo per festaioli, o roba del genere, personalmente ho riscontrato delle difficoltà mica da poco a lasciarlo scorrere sul piatto aspettando che finisse, mi ero quasi convinto di concludere la recensione qua, ma mi sono fatto coraggio.

Shaky Sue ha come grande pregio quello di essere la penultima traccia di questo martirio. Glitter ci dimostra come con una serie di ritornelli piuttosto già sentiti e mal cantati ci puoi fare tranquillamente un disco, e ci acchiappi pure un sacco di soldi. Comunque ci sta pure il tempo per un assolo di chitarra, anche se il buon Glitter a suo dire li ripudia.

Rock and Roll part 2 è conosciuta anche come The Hey Song, poiché il testo si esaurisce nel belare su ritmo di marcia un bel “Hey” ogni tanto, direi che chiude degnamente il disco.

Cosa ci rimane di questa esperienza? Che esiste giustizia a questo mondo perché Glitter se ne ritorna in galera (per la seconda volta) e se siamo fortunati stavolta non ci esce più.

  • Pro: stiamo scherzando, vero?
  • Contro: Gary Glitter.
  • Pezzo Consigliato: Baby Please Don’t Go dice tutto. Anche troppo.
  • Voto: 1/10