Etichetta: CBS
Paese: USA
Anno: 1984
Archivi tag: Giorgio Moroder
Daft Punk – Random Access Memories
“Random Access Memories” (che d’ora in poi sarà RAM, giustamente) non è una cagata.
Allo stesso tempo però non è il fottuto capolavoro dell’anno o stronzate simili. Quello che fanno in questo disco i Daft Punk è semplicemente un divertissement, consapevoli purtroppo di non avere null’altro da dire a noi esseri umani del 2013.
Il duo francese per eccellenza ha segnato profondamente quel tipo di rock che voleva fare funk senza sembrare la cover band degli Earth, Wind & Fire. L’idea di inserire l’elettronica è vincente quanto banale. In Francia, come anche nella vicina Germania, l’uso di strumentazione elettronica nel rock comincerà prestissimo, dalla musica colta di Klaus Schulze fino alle impressioni più appetibili di Jean-Michel Jarre l’elettronica è stata, volente o meno, una emanazione del rock. I primi ad intuire la forma-canzone del rock elettronico furono i tedeschi Kraftwerk, band ormai leggendaria il cui sound non è invecchiato al contrario delle loro idee.
Se per i Kraftwerk la musica elettronica era imporre la macchina sull’uomo (roba che forse poteva apparire come una novità ai tempi di Fritz Lang e Méliès) per i moderni Daft Punk l’elettronica era un linguaggio alla stregua del rock, che si immergesse nelle sonorità di Donna Summer o dei Clash non importava, coglievano tutte le sfumature di ciò che gli piaceva attorno a loro e le rivisitavano come più gli aggradava, suonandolo come una rock-band.
Con “Discovery”, nel 2001, e la sua versione filmica con “Interstella 5555” (animazioni del divino Matsumoto) chi poteva immaginare che i Daft Punk fossero già a metà carriera? Fu letteralmente un fulmine a ciel sereno questa “band”, solamente 3 album in otto anni, valorizzati con dei remix successivi, eppure per vendere vendevano, evidentemente la loro musica non è poi così scontata come appare!
In realtà la portata di questo duo è stata limitata come la sua discografia: se da una parte impressionò l’inconscio di chi li ascoltava, con il funky, l’r&b e un’elettronica così accessibile a tutti, va detto che la musica non ha seguito il corso dei Daft Punk, è altresì vero che hanno ritrovato in tempi recenti degli emuli nei Justice (anche se con “Audio, Video, Disco” hanno rivolto i loro interessi al prog spicciolo e basilare) ma a parte questi altri due francesi la formula dei Daft raramente è stata re-interpretata, per quanto siano stimatissimi dai colleghi e amati da una folta e agguerrita schiera di fan.
Ma cos’è RAM?
RAM, semplicemente, sono i Daft Punk di sempre, solo invecchiati.
Non è una malattia, succede a tutti, non si può evitare. È normale la scarsità di idee originali dopo una certa età (non vecchi-vecchi, ma già dopo i quaranta, fatto salvo pochissime eccezioni, particolarmente quando si parla di rock: un genere energico, rabbioso dove la gioventù è un fattore vincolante).
Quest’ultimo album dei Daft è un ritorno ai primi amori, George Clinton, Moroder, tutta la disco music e cazzi e mazzi. Cristo se suonano vecchi i Daft Punk!
Il riff caldo e suadente di Lose Yourself to Dance, assieme a quella chiavica di Pharrell (il quale vorrebbe palesemente essere Jamiroquai, poverino) che fuori dai N*E*R*D non splende, ci fa capire tutto. I Daft si riciclano e riciclano i loro miti, non c’è una fottuta cosa originale in questo album. Il quale però suona abbastanza da Dio.
Assai ispirati certamente i nove minuti di Giorgio by Moroder (già mitologizzati nella rete, ma senza un motivo valido, è un’idea carina cazzo, basta così), impagabile quando la musica si ferma per farci soffermare su questa frase del buon Giorgio:
“My name is Giovanni Giorgio, but everybody calls me Giorgio”
per poi riprendere con un ritmo tamarro ma riposato. Mi ha fatto sentire bene. Il resto del pezzo lo si dimentica in fretta.
Devo dire che a parte la song che apre le danze, Give Life Back to Music, l’album sembra comporsi da tracce impersonali, che scorrono giù benissimo, così bene che non ti accorgi che il disco è finito e stai dormendo scomposto sulla sedia, sbavandoti addosso come un ebete.
Si salva il finale della Giorgio citata prima, il ritmo di Instant Crush (collaborazione infima, preferisco non fare nomi per non eccedere negli insulti), la verve di Motherboard (piacevole e anche inaspettata) e la chiara mancanza di idee (però rumorose come mancanze) di Contact.
Un disco dannatamente piatto, adatto per imbroccare una ragazza sulla quarantina.
Però con questo non voglio tacciarlo di merda, di quella ne abbiamo tanta sul mercato, questo invece è un disco dignitoso e piacevole, peccato che suoni tragicamente vecchio.
- Pro: un funky gradevole.
- Contro: è più movimentata 4’33’’.
- Pezzo consigliato: Giorgio by Moroder è divertente, vivace e ha un climax ben costruito. L’unica pecca è, che come tutto il resto dell’album, suoni come una creatura ben pensata, ben assemblata, ma senz’anima.
- voto: 5/10
Rock Tamarro
Allora, direi di cominciare subito con la mia definizione di rock tamarro, giusto per non creare disguidi di alcun genere:
Il rock tamarro è quel rock che esaspera le sue caratteristiche fino a farlo diventare caricaturale.
Quindi levate di torno giubbotti di Dolce & Gabbana e piuttosto indossate un costume alla Kiss.
Il rock tamarro è il male, non ci sono dubbi, eppure spesso l’uomo (che è un essere tendenzialmente spregevole e incline alle perversioni) si ritrova ad ascoltare questa merda per esorcizzarla da sé, non con spirito critico, ma nella più sentita goliardaggine.
Ma esiste goliardaggine? No, eh? Vabbè…
Comunque bando alle ciance, in questo primo (e spero ultimo) post sul rock tamarro prenderemo in considerazione quelle songs che mi hanno fatto accapponare la pelle al primo ascolto per il loro alto contenuto pericolosamente tamarro.
Destruction è il pezzo dei Loverboy scritto da Moroder per la colonna sonora della rivisitazione (oscena) del celebre film di Fritz Lang: Metropolis. Ovviamente Moroder è ricordato come uno dei baluardi della tamarraggine made in eighties, ma la sua unione con il sound obbrobrioso dei Loverboy ha creato qualcosa per cui dovrà scusarsi con l’umanità per il resto dei suoi giorni. I Loverboy erano una band canadese che conobbe un grandissimo successo negli anni ’80, oggi chiunque abbia acquistato i loro album li usa come sottopiatti per la scodella del gatto.
Porca l’orca gente, The Stroke è uno di quei pezzi che ti fanno rimpiangere Gary Glitter. Personaggio di indubbie doti tamarre Billy Squier, anche lui rocker di grande e splendete fama negli ottanta, buon amico di Freddy Mercury (con cui comporrà qualche immane schifezza) curiosamente anche lui nella lista dei partecipanti alla colonna sonora di Metropolis, ma con un altro pezzo scritto da Moroder: On Your Own. Anche il caro Billy, naturalmente, è scomparso pian piano dalla scena musicale, e i suoi pezzi restano nella memoria collettiva grazie alla potenza del cinema d’autore.
Eccoci alla classe, eccoci a Jerry Riggs. Ovviamente quando si parla di tamarraggine nel rock è impossibile dimenticarsi di quell’album e di quel film, il faro nella notte più oscura, il preservativo in fondo alla tasca dei pantaloni che pensavi di aver lasciato a casa, parlo ovviamente di “Heavy Metal”. Film d’animazione a sfondo fantascientifico-epico essenzialmente è un porno, le musiche sono un orgia di band non al pieno delle loro forze (Grand Funk Railroad, Blue Öyster Cult, Black Sabbath) oppure dichiaratamente tamarre (Nazareth, Journey, Trust). Jerry si staglia in mezzo a questa poltiglia mediocre con un uso vergognoso della batteria elettronica (dal suono “spaziale”) costruendo un pezzo che trasuda così tanto tamarro da puzzare.
Non spaccatemi i coglioni, gli Skid Row fanno cagare. Motivo per cui, a tredici anni, comprai i loro primi due album (che pena), venduti con l’arrivo della maggiore età ad un metallaro poco informato. 18 and life ha uno di quei testi che ti fanno chiedere se è davvero possibile che ci sia vita intelligente nell’universo dato che in questo pianeta, chiaramente, non c’è mai stata. Il fatto che ci siano persone che l’abbiano presa come vero e proprio inno generazionale non la nobilita, semmai ci pone seri interrogativi sul rendere perseguibile legalmente chi ascolta pop metal.
Il regista e fine musicista Rob Zombie è un cazzo di mito per un sacco di gente. La sua passione per il trash trascende i generi artistici, lui stesso è trash nel suo esistere. Ma cosa c’è di più tamarro di Mars Needs Women? Con un testo così: “Mars needs women, angry red women, mars needs women, angry red women” il rock può solo puntare in alto. Alcatraz, direi.
Avrei voluto evitarlo, eppure non era possibile. Mi tocca ripescare da quella fucina inesauribile di tamarraggine che è “Heavy Metal”, e ci buttiamo sul grande, sull’unico, sul mitico Sammy Hagar. Noto perlopiù per aver sostituito David Lee Roth come vocalist nei Van Halen il gaudio Sammy è un baluardo del rock tamarro, la sua voce potente e archetipica accompagna da sempre composizioni musicali di agghiacciante ingenuità dal 1973. La sua dedizione al rock tamarro è totale, consapevole della sua incapacità di potersi dedicare ad un lavoro che non leda la dignità della nostra specie.
Con la ormai famosissima cover di Spirit In The Sky del povero Norman Greenbaum i Doctor and the Medics sono nell’olimpo del rock tamarro-psichedelico, un luogo mitico ambito da pochi perché considerato irraggiungibile dai più (ma che cazzo ho scritto?). La loro presenza sul palco era unica, dal dottore vestito come in un incubo di Jim Henson alle coriste che si muovano come se si fossero appena scolate quattro confezioni di sciroppo per la tosse. Per loro il rock era solo tamarro, non c’erano vie d’uscita. Forse il loro unico limite era la pigrizia, dato che perlopiù si interesseranno di coverizzare (o anche: intamarrare) i pezzi più disparati.
Impossibile non chiudere questa sequela di vergogne con La Vergogna, l’uomo che tutti noi maschi odiamo perché in realtà vorremo essere esattamente come lui. Danko Jones dei Danko Jones non solo è così figo che per il nome del gruppo ha usato il suo senza nemmeno far seguire “band” alla dicitura, ma è togo in tutto. Il suo sguardo famelico arrapa le donne come e più l’alzata di sopracciglio di Billy Idol, la sua sudorazione nelle live è leggendaria, i suoi fan raccolgono il suo salato succo in bottiglie con cui poi si bagneranno per poter assorbire anche solo un pizzico del suo testosterone. I suoi riff li impari dopo una settimana da autodidatta, le sezioni ritmiche sono le stesse per tutti i suoi album, raramente si cimenta in cover, perché non sarebbe capace di suonare Yellow Submarine senza farla diventare un inno alla sua verga. I suoi testi sono cocenti, si va dall’uomo che non deve chiedere mai a… a beh, all’uomo che non deve chiedere mai, no? Ovvio. Cos’altro ci sarà da dire di importante? L’apice lo raggiunse nel 2006 con “Sleep Is The Enemy”, una delle cose più tamarre che abbia mai ascoltato, dalla prima all’ultima traccia la tensione tamarra è altissima.
Lode al prode Jones, la galera invece per chi ascolta questa roba e gli piace!!!