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Personal and the Pizzas, Gloria, Brace! Brace!, Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion!, Ty Segall

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Nessuna introduzione perché non ho tempo, sappiate però che dalla prossima settimana assieme ad un mio caro amico condurrò un programma radio (liberamente scaricabile su Mixcloud) e vi spareremo un sacco di musica bella. Ogni puntata sarà tematica, approfondiremo questioni e generi troppo spesso trattati con superficialità dalla critica rock, e vi proporremo sempre degli spunti nuovi e diversi dalla solita melma. Ovviamente linkerò ogni puntata qui sul blog, sennò tutta ‘sta marchetta va a farsi friggere.

E ora beccatevi ‘ste recensioni:

Personal and the Pizzas –       Raw Pie

Probabilmente avrete sentito parlare dell’ultimo album dei Personal and the Pizzas, considerato un gioiello da tutta la critica garagista e non solo. Ecco, io lo vorrei tanto quell’album, ma siccome al solito mi manca il dindirindero vi recensirò il loro esordio: “Raw Pie”, pubblicato dalla californiana 1-2-3-4 Go! Records nel 2010 dopo una buona sequenza di EP cominciata nel lontano 2008. Credetemi se vi dico che “Raw Pie” è uno dei migliori album di puro rock and roll usciti negli ultimi vent’anni.

Più sconclusionati e demenziali dei Memories ma cattivi e punk nell’anima, praticamente il sogno proibito di ogni garagista integralista. Appena lasciate la puntina posarsi delicatamente sul pezzo di plastica rotante parte a fuoco un anthem sulla pizza gusto Ramones (I Don’t Wanna Be No Personal Pizza) seguita da una Pepperoni Eyes che ricicla gli Stooges senza pietà, e a meno che non siate dei fan dei Rush in incognito il vostro sarà un amore a prima vista in piena regola. Pezzi come Brass Knuckles, Never Find Me, Pizza Army e la esilarante Nobody Makes My Girl Cry But Me sono compendi della miglior tradizione sporca, grezza e autentica rock.

E infatti le uniche dolenti sono quella prevedibilità che il genere propone nelle sue forme più puriste. Sebbene i Personal and the Pizzas spacchino come pochissime band al mondo nel garage caciarone (al loro livello penso a Andy Macbain in quando aggressività e attitude) il loro grande merito è solamente quello di fare un casino davvero godurioso, ma senza riuscire a costruire un discorso musicale alternativo o quantomeno con qualcosa di nuovo da dire, il che sicuramente è voluto al 100% ma ciò non toglie che con tutta questa focosa materia prima… beh, si poteva anche provare qualcosina di più. Non fraintendetemi, tutto quello che manca in quanto originalità compositiva i PATP ce lo mettono in personalità, caratterizzando ogni pezzo come solo loro riescono a fare.

Poi boh, parte I Can Read e cominci a spaccare tutto senza ragionare, lasciandoti trasportare dal rock and roll più spietato e godurioso da molti anni a questa parte, furia micidiale mescolata a melodie rockabilly. A volte effettivamente non serve altro, Compulvise Gamblers, Oblivians e Deadly Snakes ce lo ricordano bene.

Gloria – Gloria In Excelsis Stereo

Di “Gloria In Excelsis Stereo” ne hanno parlato persino in Italia, ovviamente bene. Io ho solo poche cosa da dire: ma in tutto il catalogo della Howlin Banana Records proprio ‘sta roba doveva sbancare il lunario?

Io non ho niente contro i Gloria, che seguivo da tempo, e credo che Beam Me Up sia un gran pezzo e un capolavoro di nostalgia, ma porca puttana è proprio pura nostalgia anni ’70 pressata e confezionata senza alcun ritegno, senti l’odore di canapa e le solite tre citazioni dall’Urlo di Ginsburg fuoriuscire dalle casse! Saranno anche groovy e tutto il resto, ma è tutta roba già ascoltata e riascoltata MILIARDI di volte, ma che cazzo aggiunge questo album a quelli dei Jefferson Airplane o similia proprio non si capisce.

Inoltre a parte Beam Me Up tutte le altre canzoni si svolgono senza alcuna personalità, un sistema di riciclo così perfezionato salverebbe il comune di Roma in poco più di 33 giri.

Piuttosto parliamo di…

Brace! Brace! – Controlled Weirdness

Sempre dalla parigina Howlin Banana Records eccovi i Brace! Brace! la creatura psych-pop di Thibault Picot, voce e chitarra di questa frizzante band francese. Nel 2014 avevano esordito prodotti dalla piccola e giovane Freemount Records di Clermont-Ferrand con un EP che tra i blog più sconosciuti aveva riscontrato un generale apprezzamento, e con questo “Controlled Weirdness” uscito qualche giorno fa alzano decisamente il tiro.

La band nasceva come una sorta di Sonic Youth weirdpop, costruendo melodie che esplodono in fuzz lisergici, sottolineate anche da una sezione ritmica piuttosto dinamica. Nel nuovo EP il bravo Picot questa volta lascia respirare i pezzi tra un rumore e l’altro, crea ambienti sonori che non sono messi lì per dire «senti là che suono figo eh», come buona parte delle band garage che si mettono a smanettare in stile Thurston Moore e Kim Gordon, infatti ogni suono vuole essere vettore espressivo ed è necessario alla canzone la quale non si sorreggerebbe solo con la melodia, tutto ciò in una maniera più raffinata e complessa che nei più “blasonati” White Fence e Jacco Gardner.

Molto convincente Slow la quale a tratti ricorda il primissimo Ty Segall quando ancora faceva divertire, contornata da una struttura solida e per nulla banale, tosta anche Underground che fin dall’inizio colpisce di fuzz senza però scadere nella solita macchietta seventies, tirando fuori qualche suono dalle console eighties, ritornelli beatlesiani che Jeffrey Novak si sogna, sempre con quella sensazione onirica del weirdpop americano.

Un EP efficace e con qualcosa dire, senza necessariamente giocare sulla leva del revival a tutti i costi.

Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion! – Boss Metal Zone

Ve li ricordate i BTDOAGS? Surf rock da Boston? La mia disamina sulla scena bostoniana? Niente eh? Bastardi.

Comunque sia questa band non mi ha mai convinto al 100%, insomma il surf rock lo adoro e in generale il loro è piuttosto ok ma gli è sempre mancato il tiro delle vecchie glorie come Ventures, Challengers, Shadows e via discorrendo.

Per il nuovo EP la band decide di ripetere il loro canone, surf rock a tinte horror, ma stavolta centrano in pieno il bersaglio con 4 tracce assassine che colpiscono senza pietà. Sebbene soffrano, a mio modestissimo avviso, di una eccessiva pesantezza in fase di produzione (con la stessa pochezza sonora dei Guantanamo Baywatch farebbero faville in studio) questa volta riescono a colmare le loro mancanze con una certa creatività compositiva. Grandissimi assoli alla Shadows, brevi ma apprezzatissime sferzate psychobilly e finalmente anche una sezione ritmica che non lascia un secondo di respiro. Non sarà un disco che ricorderete per tutta la vita, ma quantomeno avrete quattro tracce davvero toste da spararvi qualche volta in auto o per cazzeggio.

Ty Segall – Ty Segall

Il biondo che ha conquistato il mondo ha lasciato al garage due grandissimi album: “Twins” (2012) e “Slaughterhouse” (2012), un album garage pop più che discreto come “Goodbye Bread” (2011), e due feroci digressioni con “Reverse Shark Attack” (2009) e il primo dei Fuzz. Detto questo è un paio di anni di Ty ha decisamente scassato i coglioni.

Questo nuovo album omonimo con l’apporto del leggendario Steve Albini oltre a suonare decisamente posticcio nel suo rifarsi al suono lo-fi degli inizi (che fra l’altro non coincidono per niente con i suoi lavori migliori che vi ho sopra elencato) è semplicemente noioso come una puntata di Sanremo.

Discreta Talkin’, con quella malinconia acustica alla Gold On The Shore o “Sleeper” (2013) che lo caratterizza, al contrario dei tentativi più garagisti tutti dimenticabili. Sempre nell’ambito acustico mi risultano alquanto indigesti Orange Color Queen e Papers, con quel glam che Segall non riesce a spremere in tutta la sua carica espressiva, un difetto che lo perseguita fin da “Ty-Rex” (2011) anche se molti ritengono invece che il biondo sia uno degli ultimi glam-rocker degni di questo nome. Mah.

Gli spunti melodici sono i soliti, le digressioni strumentali come in Warm Hands (Freedom Returned) non aggiungono niente se non un senso di disagio e imbarazzo. Sebbene qualche idea interessante sembra proprio che come John Dwyer il californiano abbia finito le cartucce a disposizione ma continui a sparare a salve.

Led Zeppelin – II

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[AGGIORNAMENTO DEL 2015: È bello vedere come, a distanza di soli due anni, ci sia stato un grosso cambiamento per quanto riguarda la mia opinione sull’hard rock, e su band come gli Zep. Fare questo blog mi ha aiutato a crescere, scrivere i miei pensieri li ha cristallizzati e resi più “reali”, e al tempo stesso mi ha evidenziato certe incoerenze. Oggi degli Zep salvo solo il primo album, ma ciò non significa che io debba cancellare i miei “peccati del passato”, perché fanno parte di me e della mia personale evoluzione nei gusti e nella critica. Magari un giorno gli dedicherò una monografia, per ringraziarli e al tempo stesso demolirli con una ruspa. Già pregusto i commenti su mia madre…]

Forse con l’estate comincerò a scrivere qualche recensione più contemporanea, intendiamoci: del 2013 ne abbiamo parlato, anche se troppo spesso concentrandoci su residui bellici come i Deep PurpleIggy Pop, David Bowie e Burdon, senza contare l’ultima “fatica” dei Daft Punk e ora ci tocca pure attendere il nuovo album dei Black Sabbath.
Allora perché buttarmi su un disco stra-mega-conosciuto e vecchio come “Led Zeppelin II” o “II” o “il disco dei Led Zeppelin con il collage assieme ai piloti del dirigibile del famoso incidente, un po’ ingiallito”.

Ultimamente va di moda insultare gli Zep, considerati sempre più come dei bravi plagiatori o poco più. Personalmente non credo che gli Zep siano la più importante band rock di sempre, non credo che nessuno lo sia, ognuno ha i suoi meriti e la storia ci aiuta non poco a capirli e a valutarli con oggettività.

I Beatles non hanno di certo portato una rivoluzione concettuale nel rock, al massimo lo hanno denigrato a livello di protesta sociale (è inutile citare Imagine o il testo provocante di Come Together perché non è niente in confronto a quello che il rock fin lì era significato in termini di provocazione), però è innegabile che il loro “sound”, miscuglio di pop, di tanto George Martin e delle mode del momento, abbia scolpito nella mente di molti musicisti un’idea di rock ben precisa e resistente alle avversità del tempo.

Vi parla uno che di dischi dei Beatles ne ha, e alcuni li apprezza in particolar modo, ma che ha anche bisogno di una certa dose di onestà intellettuale.

Il discorso che ho appena fatto sui Beatles si può benissimo estendere a grandissima parte del rock leggero come a tutti i generi che ne derivano, raramente il rock “autentico” che rispetta quell’idea di trasgressione e provocazione si è fatto strada nel mainstream, motivo per il quale non considerare i Beatles come una grande band di rock è stupido, lo è stata per una certa corrente, sì ok: quella più legata al pop e alle mode, ma è pur sempre un rock che lo si voglia o no, e può piacere o far cagare.

A me non piace quasi alcun genere di metal, ma denigrare band come gli Slayer solo perché non mi piacciono oppure perché non rispecchiano la mia idea estetica-concettuale di come dovrebbe essere il rock mi sembrerebbe stupido. Ogni cosa va elogiata o criticata all’interno del suo contesto naturale, se no ogni critica o elogio sarà campato in aria.

Tutto ‘sto casino per dire che ridurre “II” come un disco hard-rock(-blues) di irriducibili plagiatori è davvero idiota.

Jimmi Page ruba qua e là riff o intere canzoni senza rimorsi da ben prima di unirsi agli Yardbirds, ma trovo una certa difficoltà a non accumunarlo a quasi tutto il rock tra gli ultimi ’60 fino ad oggi. Dai Cream ai Mountain si prendeva e si copiava senza problemi, tutti venivano dal blues e dal be-bop (sì, anche dal be-bop), senza contare le più recenti derive della psichedelia e del garage-rock (il rock più autentico, a mio avviso) e i pezzi spesso pluri-plagiati diventando spesso inni generazionali per più generazioni!

Basti pensare alla I’m A Man di Bo Diddley, da grezzo blues a rock vero e proprio con gli Yardbirds (e geniale garage quasi proto-punk con i The Litter), o al caso di Gloria inno garage dei Them ripreso da Hendrix come dai Doors, senza dimenticarci la celebre versione dei Shadows Of Knight.

La linea di confine tra citazione e plagio nella musica è sempre stato molto sottile, fin dai tempi di Corelli! Giudicare una band solo dalla originalità ridurrebbe il numero delle band nel mondo a qualche centinaio, di cui gran parte del tutto inascoltabili.

Se l’originalità folle e controllata dei Magma fa storia e ha un peso nell’arte in generale (assieme alla musica in particolare), quella degli Zep non ha alcun valore, però suona da Dio.

Cos’è cambiato dai New Yardbirds ai Led Zeppelin? Due cose, fondamentali per il sound di tantissimo rock a venire:
il numero delle chitarre
Peter Grant

2

Innanzi tutto non ci troviamo di fronte a un power-trio, ovvero quello che sembrava essere ormai il prototipo per fare rock “duro” dopo Cream, Jimi Hendrix Experience e Mountain. Questo chiaramente deriva dalla line-up precedente, eppure pensate quanto ha influito per l’hard rock delle origini che le band più ascoltate avessero quattro componenti, mentre quello che poi sarà il formato trio dal ’70 in poi vede i suoi maggiori protagonisti in alcune formazioni prog.

La differenza con gli Yardbirds è lampante, Page non si contende più il ruolo di prima donna, lui adesso è la prima donna. Anche se poche band nella storia vengono ricordate con una tale unità e parità come gli Zep (il discorso vale addirittura per John Paul Jones!) non vi sono dubbi su chi fosse la mente dietro il dirigibile, anche se col tempo Plant mostrerà qualche dote compositiva non sempre scadendo nel banale e nel cattivo gusto (ma della sua discografia solista salvo solo due album dall’infamia generale).

Da notare come anche Page fuori dagli Zep abbia perlopiù prodotto allucinanti cagate, e chi si masturba ascoltandosi “Outrider” è un dannato maniaco del cazzo.

Il fatto che Page non sia colui che sta dietro il sound della band (non è un caso dunque se il resto della sua discografia, limitata a delle collaborazioni, sembri una parodia dei suoi primi dischi e di quelli con gli Zep) non deve però farci cadere nel tranello di pensare che fosse l’amalgama magica di Page sui ritmi tribali di Bonham mentre Plant urlava come una ragazzina in calore ad aver donato un sound unico ai dischi degli Zep, perché c’è un fattore ben più importante: Peter Grant, il vero fondatore di questo gruppo.

Grant colse i fattori interessanti degli Zep e li armonizzò al massimo, donandoci così album equilibratissimi come “II”.

Whole Lotta Love è il riff per eccellenza, mi spiace per i sostenitori dei Purple, ma c’è poco da fare. Assieme a band come gli stessi Deep Purple e i Black Sabbath (mentre il sound preso singolarmente per queste band porterà alla nascita di generi diversi fra loro) ovvero band adorate dal pubblico, in particolare americano, avevano una cosa fondamentale in comune: la mancanza di contenuti.

Il rock non è una cosa seria, lo diceva anche Bangs quindi c’è da crederci, ma da qui ad arrivare ai testi di queste tre band ce ne passa di acqua sotto i ponti. Gli MC5 scandalizzavano, Zappa faceva riflettere (e come lui i Fugs, e più di loro i Godz), i Troggs erano eccitanti, gli Stooges erano punk prima di essere punk, ed erano molto più punk di tutto il punk venuto dopo. Chi cazzo erano dunque quei tre là sopra? E sopratutto: ma di che cazzo vaneggiavano? Di figa e Tolkien assieme, di concerti andati a fuoco, di cimiteri atomici, ma che caaaaaaaaaaaaavolo è?

L’unico problema di album per me favolosi come “II”, come “In Rock”, come “Paranoid” è che sì suonano bene, ma di rock, dello spirito del rock, hanno solo gli strumenti! A quattordici anni mi andava pure bene, e vi dirò che io ascolto ancora con estremo piacere tutti gli album degli Zep, e addirittura il mio pezzo preferito è In The Evening dell’ultimo album (caso rarissimo per me che dopo il quarto album una band continui a piacermi), ma oggi è impossibile non rivalutare la portata musicale di queste band storiche dimenticandosi con totale disonestà intellettuale cosa vuol dire fare ed essere rock.

Però smettiamola di rompere il cazzo agli Zep per i plagi o per le palesi copiature non scritte a chiare lettere nel libretto, “II” è un album che fa accapponare la pelle, se si escludono i riferimenti all’epica fantasy (che porteranno ad una deriva nei testi di certo rock e di molto metal che tutt’ora ritengo oscena e indecente) quell’album spacca come poco nella storia. L’attacco allucinante di Page su Bring In On Home (la prima parte è del grandissimo e indimenticabile Sonny Boy Williamson) o il leggendario assolo di Bonham nella sua Moby Dick sono pezzi di rock tutt’altro che mediocri o frutto di una band buona solo a plagiare.

Diogesùcristo, ma poi si parla solo di ‘sti plagi famossissississimi quando in giro c’è della roba sconcertante: avete presente il celebre attacco di Mississippi Queen dei Mountain? Dopo pochi mesi l’uscita di quel gran disco che è “Climbing!” ci fu questo allucinante plagio dei neozelandesi Human Instinct presente in “Stoned Guitar”, Midnight Sun. Mica male, eh? Citazione dite? Quella sì che è una cazzo di vergogna, però toccare lo stoned è tipo reato ora come ora, mentre spalare merda a caso su band come gli Zep fa tanto fighi (e la questione è la stessa).

Ah, mi sono dimenticato di recensire il disco. Vabbè, tanto lo sappiamo tutti a memoria.

  • Pro: difficile dire di ascoltare rock e non avere questo album in casa, o perlomeno è poco credibile.
  • Contro: profondo come una pozzanghera, lyrics degne di The Wanderer.
  • Pezzo consigliato: ma ascoltatelo tutto e basta, cazzo.
  • Voto: 7/10

[è tipo la trentesima volta che cito The Wanderer di Glitter come esempio negativo, vi rendete conto di quanto stia ancora male per quel disco???]